venerdì 30 luglio 2010
EDGARD ALLAN POE - *** R A C C O N T I *** - Edizione Integrale
§>>>>>> Edgar Allan Poe <<<<<<§
*** R A C C O N T I ***
Berenice
La miseria è molteplice. E la sventura sulla terra è multiforme.
Essa difatti domina il largo orizzonte, simile all'arcobaleno e, come quello, è di vario colore, e consente alle diverse tinte, pur essendo tra loro fuse, d'essere l'una dall'altra distinta. Come l'arcobaleno, essa domina il largo orizzonte! E così, da un'immagine di bellezza, io avrei tratto il paragone con una tale bruttura? Dal simbolo della pace io avrei tratto una similitudine col dolore? Eppure, allo stesso modo che, nell'etica, il male è considerato come una conseguenza del bene, nella realtà delle cose è soltanto dalla gioia che nasce il dolore. O è la memoria della felicità trascorsa a formare l'angoscia del presente, ovvero sono le attuali agonie a essere originate da estasi, le quali avrebbero potuto essere.
Il mio nome di battesimo è Egeus; quello di famiglia lasciate ch'io non lo scriva. Non esiste un castello più ricco di anni e di gloria della malinconica e antica dimora dei miei antenati. Essi sono sempre passati per una razza di visionari ed è indubitabile che in non pochi e rilevanti particolari, come ad esempio nel carattere della casa, negli affreschi del salone principale, nei parati delle camere da letto, nei lavori di cesello di alcuni sostegni della sala d'armi, ma soprattutto nella galleria di quadri antichi e nella biblioteca e da ultimo nella natura degli specialissimi oggetti contenuti in questa, vi sia molto più di quanto occorra a giustificare una simile reputazione.
Le memorie dei miei primi anni d'infanzia sono intimamente collegate a quella sala e a quei libri dei quali, peraltro, non avverrà ch'io dica più nulla. E' là che morì mia madre, è là che sono nato io. E nondimeno è del tutto ozioso affermare ch'io non abbia già vissuta un'altra vita, che l'anima mia non abbia avuta nessuna esistenza anteriore! Credete che non sia così? Ma non è luogo questo di discussioni per una simile materia: a me basta che sia convinto io; non tento affatto di convincere gli altri. Vi sono tuttavia alcune memorie d'aeree forme, di occhi che dicono la loro spiritualità, e melodiosi e mesti suoni ancora... memorie che non si lasciano cancellare, ombre vaghe, mutevoli, sfumate e non mai ferme un solo istante, come quell'ombra della quale non sarà concesso ch'io mi liberi fintanto che nel mio cervello sarà luce.
Io sono nato in quella camera. Nell'atto di ridestarmi dalla lunga notte di quel che sembrava - ma non era - la non esistenza, e nel trovarmi, d'un subito, in un magico paese, in un fantastico maniero, negli stravaganti dominii del pensiero e dell'erudizione monastica, non dovrebbe meravigliare ch'io mi sia guardato all'intorno con occhio vivido e impaurito... e che poi abbia logorata sui libri la mia infanzia e nei sogni la mia giovinezza... ma è singolare, invece, ch'io mi trovassi ancora nella dimora dei miei padri negli anni della virilità... ed è singolare ancora e, anzi, straordinario, come man mano le sorgenti della mia vita furono arrestate e spente dall'inazione, come una completa inversione nei miei più ordinari pensieri intervenne a confonderli... le realtà del mondo esterno m'impressionavano, infatti, soltanto come visioni e nulla più che visioni, nel mentre che le pazze fantasie che abitavano, invece, la regione dei sogni, erano divenute per me molto più che non la materia della mia esistenza quotidiana, esse erano divenute la mia esistenza medesima, in assoluto.
Berenice e io eravamo cugini, ed eravamo cresciuti assieme nelle sale del mio castello avito. Tuttavia crescemmo assai diversi l'uno dall'altra. Io ero di salute cagionevole e d'umore sempre melanconico, e lei, invece, agile, aggraziata e nel pieno rigoglìo della salute. A lei le corse pazze giù per la collina, a me gli studi severi, nel chiostro. Io non vivevo che nell'intimo del mio cuore, consacrando l'anima mia e il mio corpo alla più estenuante meditazione, e lei, per contro, errava spensierata per la vita, senza preoccuparsi se mai calasse qualche ombra sul suo cammino, ovvero se volassero via silenziose le ore dalle nere ali del corvo.
Berenice! Io invoco il suo nome, Berenice! E dalle grigie rovine della memoria ecco risvegliarsi, a quel suono, mille tumultuanti immagini! O meravigliosa e pur fantasiosa bellezza! O sìlfide gentile fra i roveti d'Arnheim! O Najade tra le sue acque! Ed oltre... oltre non c'è che orrore e mistero e, insomma, una storia che è meglio non raccontare. Un morbo, un fatale morbo s'abbatté su di lei come il vento infuocato del deserto, e mentre io la stavo ancor riguardando, scorreva su di lei il sinistro spirito della sua trasformazione e invadeva l'essere suo e le sue abitudini, il suo carattere, e perfino alterava, nel più sottile e orribile dei modi, l'identità della sua persona. Venne, ahimè, il Distruttore! Venne e tornò via! E la vittima? Dov'era la vittima?
Io non la conobbi più, voglio dire che non la conobbi più come Berenice.
Tra i numerosi mali che seguirono quel primo e fatale, il quale tanto operò e così radicalmente a mutare il fisico e lo spirito di mia cugina, io ricordo che il più penoso ed ostinato fu una sorta di epilessìa che terminava sovente in uno stato di transe, in tutto simile ad una morte apparente e dal quale accadeva, talvolta, ch'ella si riavesse d'un subito, con uno spasmodico sussulto.
Nello stesso tempo il mio male - quel male di cui, come ho già detto, non specificherò il nome e la natura - cresceva rapidamente e finì con l'assumere il carattere d'una monomanìa di nuova e straordinaria forma, la quale, d'ora in ora e di minuto in minuto, acquistava novello impulso, rinvigorendo, in me, la più misteriosa delle influenze. Tale monomanìa, s'io debbo definirla con questa espressione, consisteva in una morbosa irritabilità di quelle facoltà psichiche che la scienza ha convenuto di definire facoltà d'attenzione. Non sono sicuro d'esser compreso, a questo punto, ma temo davvero di essere nella più assoluta impossibilità di fornire al lettore medio un'idea esatta di questa sorta di nervoso acuirsi dell'interesse in virtù del quale, la mia facoltà di riflettere - per non usare un linguaggio tecnico - si fissava e si sprofondava nella contemplazione dei più volgari oggetti materiali.
Meditavo, in tal modo, senza stancarmi, per ore intere, avendo tutta la mia attenzione concentrata su una qualche puerile notazione sul margine ovvero nella pagina d'un qualsivoglia volume... restavo interamente assorto, durante una lunghissima parte del giorno, in un'ombra bizzarra che il sole moribondo disegnava obliquamente sui damaschi polverosi e sul tappeto tarlato... e mi perdevo, inoltre, intere notti, con l'occhio fisso al palpito della fiammella d'un lume, ovvero alle braci rosseggianti del camino... e ancora, per giorni e giorni, fantasticavo sul profumo dei fiori... o ripetevo, con esasperante monotonìa, una parola assolutamente banale... e la ripetevo tanto e poi tanto che essa finiva per spogliarsi totalmente d'ogni larva di umano significato... e così perdevo ogni senso del movimento, come pure dell'esistenza fisica, prolungando ostinatamente un ozio assoluto...
Tali furono le più ordinarie e le meno dannose fra le aberrazioni a cui si abbandonarono la mia mente e il mio spirito: non del tutto, certamente, eccezionali, e nulladimeno al di fuori d'ogni spiegazione o analisi. Ma io non voglio essere frainteso.
L'attenzione avida, morbosa e del tutto anormale che era in tal modo eccitata in me dai più comuni e futili oggetti, non va in alcun modo scambiata con quella disposizione dell'animo d'andar ruminando tra sé le proprie doglie, la quale è comune a tutto il genere umano ed in special modo alle persone afflitte da una vivace immaginazione. La mia non era, quindi, una condizione puramente esterna o una esagerazione di quella tendenza: essa, al contrario, si distingueva dall'altra così per l'origine come per l'intima essenza, le quali erano del tutto opposte. In quel primo caso, il sognatore - ovvero l'esaltato, se così si vuole definire - il quale ha l'interesse risvegliato, solitamente, da oggetti di non futile natura, perde di vista, appunto, cotesto interesse, col mezzo d'innumerevoli deduzioni o supposizioni che a quello si riferiscono, fintantoché, al termine d'una giornata trascorsa a sognare, la quale è spesso piena di piacere, scopre che l'incitamento - e cioè la causa prima e origine di tutte le sue divagazioni - è del tutto svanito e come straniato dalla mente.
Nel caso mio, al contrario, il punto di partenza, era costantemente frivolo anche se, alterato dalla mia fantasia sovreccitata, finiva con l'assumere, per riflesso, un'irreale consistenza. Seppure mi accadeva di farne, io ero pochissimo propenso alle deduzioni, e quelle poche in cui m'imbrogliavo tornavano con ostinazione, sempre e sempre, sull'oggetto di partenza come su di un centro magico d'attrazione. Tali meditazioni non erano mai piacevoli e, al dileguarsi di quelle chimeriche fantasie, anziché disperdersi anch'essa, la causa principale e originatrice di esse era la prima caratteristica del mio male. Le facoltà, in breve che venivano più facilmente eccitate in me, erano quelle dell'attenzione al contrario di quelle che sono eccitate nel sognatore comune, le quali sono puramente speculative.
Seppure non erano causa diretta nello stuzzicare quel mio male segreto, è fatale che i libri, per la loro stessa fantastica ed inconseguente natura, partecipassero, nella maniera più ampia, a svilupparne le peculiari caratteristiche. Io rammento bene, tra gli altri, il trattato ' De amplitudine beati regni Dei ' del nobile italiano Celius Secundus Curio, come pure il capolavoro di Sant'Agostino, ' La città di Dio ', e quello di Tertulliano ' De carne Cristi ', il cui paradossale pensiero, "Mortuus est Dei filius; credibile est quia ineptus est; et sepultus resurrexit; certum est quia impossibile est", assorbì per più settimane, in laboriose e sterili investigazioni, il mio povero tempo.
Appare in tal modo evidente come la mia ragione, messa a repentaglio dai più futili motivi, potesse paragonarsi a quella rupe di cui dice Tolomeo Efestione, la quale resisteva ad ogni umana violenza e al più orribile infuriare delle acque e dei venti, come una torre saldamente radicata nel terreno, epperò, non appena toccata dal fiore chiamato asfodelo, vacillava fin dalle scaturìgini.
Potrà sembrare ovvio, ad un superficiale pensatore, che la terribile alterazione prodotta dalla malattia sulle condizioni spirituali di Berenice, fornisse, a me, non poco incremento per una intensa meditazione, quella medèsima della quale ho potuto testé definire la natura soltanto in modo eccessivamente complicato e confuso. Non era così, invece. Negli intervalli che la mia malattia consentiva alla lucidità, quella sventura mi colmava di pena e come io prendevo a cuore, nel più partecipe dei modi, la compiuta rovina della bella e dolce Berenice, non mancavo, sovente, di riflettere con amarezza, al modo misterioso per il quale era avvenuto in lei un sì strano rivolgimento. Queste riflessioni, non partecipavano, però, dell'idiosincrasia del mio male ed erano tutte le medesime, anzi, che sarebbe avvenuto di fare alla media degli uomini, in circostanze analoghe. La mia infermità, fedele alla propria natura, faceva presa sui meno importanti - epperò più repentini - mutamenti che avvenivano nel fisico di Berenice e cioè sulla singolare e paurosa alterazione che subiva la sua personale identità.
Io ero sicurissimo, nei più radiosi giorni della sua bellezza, la quale era al di fuori d'ogni paragone, che non mi era mai accaduto d'amarla. Sono, infatti, in grado d'affermare, con tutta certezza, che per le strane anomalìe della mia natura, i miei sentimenti non furono mai originati dal cuore e le mie passioni ebbero sempre ad accendersi soltanto nel mio cervello. Nel grigio annuncio dell'alba, nel meriggio, traverso i foschi tralicci d'ombre della selva, e ancora, la sera, nel silenzio della mia biblioteca, Berenice m'era balenata davanti agli occhi ed io l'avevo veduta non già quale era da viva e col respiro sulle labbra, ma come una Berenice di sogno; non una creatura terrestre fatta di carne, l'astrazione, bensì, d'una tale creatura. E non una creatura da contemplare e ammirare: da studiare, invece. Non tema d'amore, infine, ma di astrusa e strampalata speculazione. Ed eccomi dinanzi a lei, in preda a un tremore violento e convulso, pallido al suo accostarsi, epperò dolente della sua condizione e sventura.
Poiché essa mi aveva lungamente amato, com'io potei, infine, rammentarmi e in un maligno istante, io le avevo anche parlato di sposarla.
S'avvicinava l'epoca fissata per le nostre nozze ed ecco, in una sera d'inverno, ma calda per la nebbia stagnante delle giornate care ad Alcione, io sedevo - credendo d'essere solo - nella mia biblioteca. E come sollevai gli occhi da un volume nel quale ero immerso, vidi Berenice, ritta innanzi a me.
Era la mia immaginazione sovreccitata, ovvero soltanto un effetto dell'atmosfera nebbiosa dei paraggi, o l'incerta penombra che regnava nella stanza, o ancora i drappi grigi dei quali ella s'era avviluppata la persona che rendevano tanto sfumato il suo profilo?
Non posso affermarlo con certezza. Ella non disse parola e io non aveva parimenti l'animo di rivolgerle in quel punto alcuna domanda. Un brivido ghiacciato mi corse giù per la schiena e, nel mentre che ero oppresso da una sensazione d'insoffribile ansietà, mi sentii penetrar l'animo d'una curiosità divorante. Mi abbattei su una sedia e rimasi per qualche istante immobile, con gli occhi sbarrati, fissi su di lei. La sua magrezza, ahimè, era estrema e non le appariva indosso alcun segno di ciò che essa era stata un tempo, neppure in uno solo dei suoi lineamenti. Il mio sguardo allucinato si posò infine sul suo volto. La fronte era alta, pallidissima e stranamente calma; i capelli che le ricoprivano, un tempo, ombreggiandole, le scarne tempie d'innumerevoli boccoli neri come l'ebano s'andavano trasformando, ora, in un biondo rossiccio la cui apparenza fantastica formava uno stridente contrasto con la mestizia cui era ispirata tutta la sua fisionomìa. Senza più vita e splendore, i suoi occhi sembrava non avessero più pupille, per modo ch'io distolsi il mio sguardo di su quella vitrea immobilità e lo posai sulle sue labbra sottili che apparivano, in quel punto, contratte. Ed esse s'aprirono e con un riso il quale apparve subito carico di mille significati, i denti della nuova Berenice furono lentamente rivelati alla mia vista. Così volesse il Cielo che io non li avessi mai veduti!... O che almeno, una volta veduti, io non fossi subito morto!
Il rumore d'una porta richiusa mi scosse da una sorta di torpore e, buttato uno sguardo in giro per la biblioteca, mi accorsi che mia cugina l'aveva abbandonata. Ma il mio cervello, eccitato e sconvolto, non sarebbe mai stato abbandonato dal bianco e sinistro aspetto di quei denti. La loro superficie non presentava alcuna screpolatura, non alcuna ombra il loro purissimo smalto, sul loro filo non era il minimo intacco! Era stato sufficiente quel suo breve riso a fissarmene per sempre l'immagine nella memoria. Ed io potevo vederli, ora che essa non era più dinanzi a me, assai più distintamente di quanto non li avessi già visti nella realtà...
quei denti, oh! quei denti... erano dappertutto, visibili davanti a me, ed io potevo perfino toccarli... lunghi erano e stretti, e terribilmente bianchi, nel mentre che le pallide labbra si contraevano sopra di essi, come nell'istante in cui mi si rivelarono per la prima volta. Fui nuovamente posseduto, così, dalla furia della mia monomanìa e fu invano che lottai per sottrarmi al suo strano ed irresistibile influsso. Ed arrivai a non essere capace di nutrire alcun altro pensiero che fosse estraneo a quei terribili denti. Provavo, per essi, un frenetico desiderio e, come se fosse assorbita da quella particolare contemplazione, sparì ogni altra materia d'interesse. Essi ed essi soli furono sempre, da allora, presenti all'animo mio e in quella loro singolare individualità divennero come l'intima essenza della mia vita spirituale. Io, per l'intanto, li andavo considerando in ogni loro aspetto, studiavo le loro caratteristiche e indugiavo a riflettere sulla loro conformazione, meditavo sulle alterazioni della loro pàtina e rabbrividivo al pensiero che potessero esser dotati di sensibilità e come d'una facoltà di sentire ed ancora, sebbene fossero privi delle labbra, d'una capacità di espressione morale. Furono dette molte cose a proposito di Mademoiselle Sallé, "que tous ses pas etaient des sentiments", e, di Berenice, io credetti sul serio QUE TOUS SES DENTS ETAIENT DES IDEES. DES IDEES!... Ecco lo sciocco pensiero che mi annientava! DES IDEES!... Era forse solo per questo che io ero portato fino a idolatrarti! Io sentivo che soltanto se li avessi posseduti avrei ritrovato la mia pace, sarei tornato sullo smarrito sentiero della ragione.
E la sera si chiuse in tal modo su me e vennero le tenebre, soggiornarono e poi se ne andarono e spuntò un altro giorno e nuovamente le notturne ombre si raccolsero e ancora s'addensarono, ma io restavo seduto, senza muovermi, solo, nella mia stanza, ed ero assorto completamente a meditare, nel mentre che il terribile fantasma dei denti di Berenice manteneva su di me la sua sinistra influenza e volteggiava intorno a me, variando in una con l'alternarsi della luce e dell'ombra.
Ma tra quei sogni avvenne, a un tratto, che irrompesse un grido, simile a quello di un'anima sopraffatta dal terrore e, dopo una pausa, avvenne che gli tenesse dietro un suono d'afflitte e meste voci e di sordi, dolorosi e affannosi lamenti. Mi drizzai, d'un subito, in piedi, e spalancata una delle porte della biblioteca, vidi nell'anticamera una fante che, sciogliendosi in lacrime, mi narrò come Berenice non fosse più.
Essa era stata colpita, all'alba, da un attacco di epilessia.
Giunta la sera, il sepolcro attendeva l'ospite sua. Ed ogni cosa era preparata per la funebre cerimonia.
Ero nuovamente seduto nella mia biblioteca ed ero solo. E ancora credevo d'essermi desto da un sogno angoscioso e non bene chiaro.
Sapevo che la notte era, in quel punto, al suo mezzo, e che Berenice era stata inumata al calar del sole. E nondimeno, dei paurosi istanti ch'erano seguiti, non riuscivo a ricordar nulla.
La mia memoria era piena soltanto del terrore, il quale era tanto più orribile in quanto era vago e in quanto, del pari, esso era ambiguo. Una paurosa pagina della mia vita era stata scritta con oscure e indecifrabili memorie di raccapriccio. Tutti i miei sforzi intesi a decifrarla furono vani, epperò, di tanto in tanto, come lo spirito d'un suono svanito, il grido penetrante d'una voce femminile sembrava risuonare alle mie orecchie. Avevo fatto qualcosa. Ma che cosa? Me lo chiedevo ad alta voce, e sempre l'eco della stanza bisbigliava, in risposta, "che cosa?".
Sul tavolo accanto a me, ardeva un lume e vicino ad esso era una piccola scatola. La sua foggia non presentava nulla di notevole ed io l'avevo già veduta altre volte, prima d'allora, poiché essa era appartenuta al medico della mia famiglia. Ma quale poteva essere la ragione per cui essa era là, sul mio tavolo? E sopra tutto, perché rabbrividivo, nel guardarla? Erano cose, per certo, a cui non metteva conto di far caso e i miei occhi caddero, così, sulla pagina aperta d'un libro, su una frase che in essa era stata sottolineata. Erano alcune semplici e pur tuttavia singolari parole del poeta Ebn Zaiat: "Dicebant mihi sodales, si sepulcrum amice visitarem, curas meas aliquantulum fore levàtas". Ma perché, nel mentre che io scorrevo, i capelli mi si drizzarono sul capo e il sangue mi si agghiacciò nelle vene?
Ed in quel punto s'udì un lieve picchiare alla porta della biblioteca e un famiglio si fece innanzi, in punta di piedi, ed era più pallido che l'ospite di una tomba. Il suo occhio era stravolto dal terrore e la sua voce era tremante, rauca, bassissima. Che cosa disse? Udii solo delle frasi rotte. Egli raccontò d'un urlo selvaggio che aveva incrinato la silenziosa pace della notte e come l'intera servitù si fosse adoperata a ricercare nella direzione da cui il grido sembrava scaturito e la sua voce, a questo punto, si fece più chiara e penetrante e mi sussurrò all'orecchio d'una tomba violata e d'una spoglia sfigurata cui era stato tolto il sudario... e d'essa che ancora respirava, che ancor palpitava... che era ancor viva!
Puntò un dito sui miei abiti. Essi erano lordi di fango e di sangue. E mi prese dolcemente una mano, come per mostrargliela, ed io vidi che su di essa s'erano impressi i segni di unghie umane. E poi richiamò la mia attenzione su di un oggetto poggiato al muro.
Mi volsi a guardarlo: era una vanga.
Scattai, allora, in piedi e mi diressi urlando verso la tavola: e afferrai la scatola che era vicina al lume. Ma non riuscii ad aprirla e poiché tremavo in tutte le giunture, essa mi scivolò dalle mani e cadde in terra, pesantemente, e si ruppe in pezzi e da essa, con uno strepito che risuonò per tutta la casa, rotolarono fuori degli strumenti di chirurgia dentaria e ancora, mescolati a quelli, trentadue piccole bianche cose simili all'avorio, ed esse si sparpagliarono qua e là, per terra.
Eleonora
"Sub conservatione formae specicae salva anima".
Raimondo Lullo.
Io appartengo a una stirpe nota per vigore di fantasia e ardore di passione. Gli uomini mi hanno chiamato pazzo; ma ancora non è risolta la questione se la pazzia sia o non sia l'intelligenza più elevata, se molto di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo, non scaturisca da una malattia del pensiero, da umori della mente esaltati a spese dell'intelletto generale. Coloro che sognano a occhi aperti avvertono molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte. Nelle loro grigie visioni essi afferrano squarci d'eternità, e svegliandosi vibrano intimamente allo scoprire di essere stati sul limitare del gran segreto. A tratti, imparano qualcosa della sapienza che riguarda il bene, e qualcosa di più sulla pura conoscenza del male. Penetrano, benché senza bussola e timone, nel vasto oceano della ' luce ineffabile ' e ancora, come gli avventurieri del geografo nubiano, "agressi sunt mare tenebrarum, quid in eo esset exploraturi".
Diremo allora che sono pazzo. Ammetto, almeno, che la mia esistenza mentale ha due condizioni distinte: uno stato di ragione lucida, indiscutibile, e relativa alla memoria di eventi che formano la prima epoca della mia vita, e una condizione d'ombra e di dubbio, legata al presente e al ricordo di quella che costituisce la seconda grande epoca della mia vita. Perciò quanto dirò del periodo precedente credetelo; e a quanto potrò narrare del tempo successivo date solo quel credito che vi sembri dovuto; o, se non saprete dubitarne, comportatevi come Edipo di fronte al suo enigma. La donna che amai in gioventù e della quale vergo ora calmo e preciso questi ricordi, era figlia unica della sorella di mia madre, da tempo dipartita. Eleonora era il nome di mia cugina.
Avevamo sempre vissuto insieme, sotto un sole tropicale, nella Valle dell'Erba Multicolore. Mai passo fortuito giunse a quella valle; poiché giaceva lontano fra una catena di alture giganti che la sovrastavano tutt'intorno, escludendo la luce del sole dai suoi più dolci recessi. Non un sentiero era battuto in vicinanza; e per raggiungere la nostra casa felice bisognava scostare con la forza il fogliame di molte migliaia di alberi della foresta, e schiacciare mortalmente le glorie di molti milioni di fiori fragranti. E così vivevamo soli, senza nulla sapere del mondo oltre la valle, io, mia cugina e sua madre.
Dalle regioni indistinte oltre le montagne che limitavano all'estremità superiore il nostro dominio isolato, sbucava un fiume stretto e profondo, più lucente d'ogni altra cosa tranne gli occhi di Eleonora; e serpeggiando lento in molti meandri, si allontanava infine attraverso una gola ombrosa tra alture ancor più indistinte di quelle da cui era scaturito. Noi lo chiamavamo ' Fiume del Silenzio '; poiché nel suo fluire pareva ìnsito un alone taciturno. Non un mormorìo sorgeva dal suo letto, e così dolcemente errava seguendo il suo corso che i ciottoli perlacei cari al nostro sguardo, giù in fondo al suo seno, non si muovevano per nulla, ma giacevano in immobile contentezza, ciascuno al suo vecchio posto, brillando gloriosamente perenni.
Il margine del fiume, e dei molti abbaglianti ruscelli che per vie oblique vi confluivano, come pure gli spazi che dai margini si stendevano alle profondità dei corsi d'acqua sino a raggiungerne il letto sassoso, questi spiazzi, non meno della valle in tutta la sua superficie dal fiume alle montagne circostanti, erano tappezzati di un'erbetta tenera, verde, fitta, perfettamente pareggiata e profumata di vaniglia, ma talmente costellata di gialli ranuncoli, candide margherite, violette purpuree e asfodeli rossi come rubini, che la sua generosa bellezza parlava ad alta voce ai nostri cuori dell'amore e della gloria di Dio. E qua e là, a boschi sparsi per quest'erba come intrichi di sogni, sorgevano alberi fantastici, i cui tronchi slanciati non erano diritti ma s'inclinavano graziosamente verso la luce affacciantesi a mezzogiorno sul centro della valle. La loro corteccia si variegava d'uno splendore alterno d'ebano e argento, ed era più liscia d'ogni cosa tranne le guance d'Eleonora; cosicché se non fosse stato per il verde brillante delle enormi foglie che dalle cime si spandevano a lunghe linee tremule, scherzando con gli zefiri, li si sarebbe potuti scambiare per giganteschi serpenti di Siria che rendessero omaggio al loro Sovrano, il Sole.
La mano nella mano, per questa valle ben quindici anni vagai con Eleonora prima che Amore entrasse nei nostri cuori. Fu una sera al volgere del terzo lustro della sua vita, e quarto della mia, che ci sedemmo stretti in reciproco abbraccio sotto gli alberi serpentini, e abbassando lo sguardo sul Fiume del Silenzio vi cercammo, nel vivo dell'acqua, le nostre immagini. Per il resto di quella dolce giornata non dicemmo una parola; e anche all'indomani le nostre parole furono tremule e rade. Avevamo tratto da quell'onda il dio Eros, e ora sentivamo che egli ci aveva acceso dentro le anime di fuoco degli antenati. Le passioni che da secoli contraddistinguevano la nostra stirpe affiorarono in folla con gli impeti visionari per cui andava altrettanto famosa, e assieme spirarono una delirante felicità sulla Valle dell'Erba Multicolore. Colse ogni cosa un mutamento. Strani fiori brillanti a forma di stella scoppiarono sugli alberi dove non s'era mai vista traccia di fiore. Le tinte del tappeto verde si fecero più intense; e quando ad una ad una appassirono le bianche margherite, sbocciarono al loro posto a dieci per volta gli asfodeli color del rubino. E la vita trionfava sul nostro cammino; poiché l'alto fenicottero, sinora invisibile, con tutti gli altri uccelli allietati da fulgido piumaggio sfoggiava davanti a noi le sue ali scarlatte. Pesci d'oro e d'argento frequentavano il fiume, dal cui seno esalava a poco a poco un mormorìo crescente fino a farsi soave melodìa più divina dell'arpa eòlia; più dolce d'ogni altra voce tranne quella d'Eleonora. E ora pure una nube voluminosa, che avevamo a lungo osservato nelle regioni di Espero, ne salpò, in uno sfarzo di crèmisi e d'oro, e fermatasi in pace sopra di noi affondò di giorno in giorno sempre di più, finché non giunse a poggiare con gli orli sulle vette dei monti, convertendone la penombra in splendore e rinserrandoci sempre in una magica prigione di grandiosità e di gloria. La leggiadrìa di Eleonora era quella dei serafini; ma la fanciulla era ignara e innocente come la sua breve vita trascorsa tra i fiori. Nessuna astuzia mascherava il fervido amore che le avvivava il cuore, e con me essa esaminò i suoi più intimi recessi mentre insieme passeggiavamo per la Valle dell'Erba Multicolore, e discorrevamo dei grandi cambiamenti che vi si erano prodotti.
Finalmente, avendo parlato un giorno, tutta in lacrime, del mutamento estremo che doveva incogliere all'Umanità, da allora in poi si soffermò unicamente su questo tema doloroso, intessendolo in tutto il nostro conversare, come nelle canzoni del bardo Sciraz si vedono ricorrere più volte le stesse immagini in ogni espressiva variazione di fraseggio.
Aveva visto che il dito della Morte era sul suo petto, che al pari della effimera essa era stata fatta in perfezione di forme solo per morire; ma i terrori della tomba, per lei, stavano soltanto in una considerazione che mi rivelò, in un crepuscolo vespertino, presso le rive del Fiume del Silenzio. La addolorava il pensiero che io, dopo averla inumata nella Valle dell'Erba Multicolore, ne abbandonassi per sempre i recessi felici, per donare a qualche fanciulla del mondo esterno e quotidiano l'amore che adesso era così appassionatamente suo. E io subito mi gettai ai piedi di Eleonora, e feci voto a lei e al Cielo di non legarmi mai in matrimonio a nessuna figlia della Terra, di non venir mai meno alla sua cara memoria, o alla memoria del devoto affetto che mi aveva elargito. E invocai il Re Sovrano dell'Universo a testimone della pia solennità del mio voto. E la maledizione che da Lui e da lei, santa d'Helusion, invocai, qualora tradissi quella promessa, comportava un castigo di tale immenso orrore che non posso qui precisarlo. E gli occhi luminosi di Eleonora si fecero più luminosi alle mie parole; e sospirò come se un peso mortale le fosse stato levato dal petto; e tremò e amaramente pianse; ma accettò il voto (era forse altro che una bambina?) ed esso le rese lieve il morire. E dal letto della sua morte tranquilla mi disse di lì a non molti giorni, che a causa di quanto avevo fatto per confortare il suo spirito, in quello spirito avrebbe vegliato su di me dopo la dipartita, e se le era concesso sarebbe visibilmente tornata a me nelle veglie notturne; ma che se questa cosa non era in potere delle anime del Paradiso, mi avrebbe almeno dato frequenti indizi della sua presenza; sospirando su di me nei venti della sera, o riempiendo l'aria che respiravo di profumi esalati dagli incensieri degli angeli. E con queste parole sulle labbra rese a Dio la sua vita innocente, ponendo fine alla prima epoca della mia vita.
Finora ho parlato in modo veritiero. Ma varcando la barriera che la morte della mia amata forma nel sentiero del Tempo, e passando alla seconda epoca della mia esistenza, sento un'ombra addensarmisi sul cervello e diffido della lucidità o attendibilità dei miei ricordi. Ma proseguiamo. Gli anni si trascinavano pesanti, e ancora dimoravo nella Valle dell'Erba Multicolore; ma un secondo mutamento era sopraggiunto in tutte le cose. I fiori a forma di stella si ritrassero nei tronchi degli alberi, e non ricomparvero più. Le tinte del tappeto verde svanirono; e ad uno ad uno gli asfodeli color del rubino avvizzirono; e al loro posto spuntarono scure viole simili ad occhi, che si torcevano inquiete sotto un gravame perpetuo di rugiada. E la Vita si allontanò dai nostri sentieri; poiché l'alto fenicottero non sfoggiò più davanti a noi il suo piumaggio scarlatto, ma triste svolò dalla valle alle colline, con tutti i fulvidi uccelli che in sua compagnia erano giunti ad allietarci. E i pesci d'oro e d'argento guizzarono fuori dalla gola che delimitava il nostro dominio dalla parte più bassa e non animarono più il dolce fiume. E la soave melodia più delicata dell'arpa eòlia mossa dal vento e più divina d'ogni altra voce tranne quella d'Eleonora, morì a poco a poco, facendosi sempre più sommessa nel suo mormorio, finché il fiume non risprofondò nella solennità del suo silenzio originario. E poi, da ultimo la nube voluminosa si alzò, e abbandonando le cime dei monti all'antica penombra ricadde nelle regioni di Espero, e privò di tutta la sua gloria d'oro la Valle dell'Erba Multicolore.
Eppure le promesse di Eleonora non furono dimenticate; poiché udivo il suono degli oscillanti incensieri degli angeli; fiumane di sacro profumo aleggiavano perenni sulla valle; e nelle ore solitarie, quando il cuore mi batteva più greve, i venti giungevano alla mia fronte carichi di tenui sospiri; e mormorii indistinti spesso riempivano l'aria notturna; e una volta - oh, ma solo una volta! - mi destò da un sonno come di morte il bacio di labbra spirituali.
Ma anche così il vuoto del mio cuore non si colmava. Anelavo all'amore che un tempo l'aveva riempito fino a traboccarne. Alla fine la valle mi riuscì penosa per il ricordo di Eleonora, e la lasciai per sempre per le vanità e i turbolenti trionfi del mondo.
Mi trovavo in una città straniera, dove tutto poteva giovare a cancellarmi dal ricordo i dolci sogni così a lungo sognati nella Valle dell'Erba Multicolore. Fasto e cerimonie d'una corte maestosa, e il folle strepito delle armi, e la raggiante bellezza delle donne, mi stordivano d'ebbrezza. Ma finora l'anima mia si era mantenuta fedele ai suoi voti, e ancora mi giungevano nelle silenziose ore notturne gli indizi della presenza di Eleonora. Di colpo queste manifestazioni cessarono; e il mondo si oscurò davanti ai miei occhi; e rimasi allibito ai pensieri brucianti che mi possedevano, alle terribili tentazioni che mi insidiavano; poiché da qualche terra lontana, lontana e sconosciuta, venne alla gaia corte del re che servivo una fanciulla alla cui bellezza tutto il mio cuore infedele subito cedette; ai suoi piedi mi chinai senza lotta, nella più ardente, nella più schiava adorazione d'amore. E che cos'era infatti la mia passione per la giovinetta della valle in confronto al fervore, al delirio e all'esaltante estasi di adorazione con cui riversavo in lacrime tutta l'anima mia ai piedi dell'etèrea Ermengarda? Oh, luminosa era la serafica Ermengarda! e in questa certezza non avevo posto per altra. Oh, divina era l'angelica Ermengarda! e guardando nelle profondità dei suoi occhi memori pensavo soltanto ad essi; e a lei.
Mi sposai; e non temetti la maledizione che avevo invocato; e la sua amarezza non mi fu inflitta. E una volta, solo una volta ancora nel silenzio della notte, mi giunsero attraverso le persiane i tenui sospiri che mi avevano abbandonato; e si modellarono in una voce soave e familiare, che diceva:
"Dormi in pace! perché lo Spirito d'Amore regna sovrano, e stringendo al tuo cuore appassionato colei che è Ermengarda, tu sei sciolto, per ragioni che ti saranno rese note in Cielo, dai tuoi voti verso Eleonora".
Morella
"Esso stesso, di per sé solo, eternamente UNO, e singolo".
Platone, "Il Simposio".
Con un senso di affetto profondo e pur singolarissimo consideravo la mia amica Morella. Capitato a godere della sua compagnia molti anni fa, sin dal primo incontro l'anima mia arse di fuochi che non aveva mai conosciuto; ma i fuochi non erano di Eros, e amara e tormentosa per il mio spirito la graduale convinzione di non poterne affatto definire l'insolito significato o regolare la vaga intensità. Eppure ci incontrammo; e il fato ci legò all'altare; e io non parlai mai di passione né pensai all'amore. Essa però rifuggiva dalla vita di società, e attaccandosi a me soltanto mi rese felice. E' una felicità vivere nella meraviglia; è una felicità sognare.
L'erudizione di Morella era profonda. Quant'è vero che spero di vivere, il suo ingegno era fuori del comune, le sue capacità mentali gigantesche. Io lo sentivo, e in molte cose divenni suo alunno. Mi accorsi però ben presto che, forse a causa dei suoi studi fatti a Presburgo, essa mi proponeva molti di quegli scritti mistici che vengono solitamente considerati una semplice scoria della letteratura tedesca primitiva. Per una ragione che non potevo immaginare, essi divennero il suo studio favorito e costante, e che con l'andar del tempo dovesse succedere la stessa cosa a me bisogna attribuirlo al semplice ma efficace influsso dell'abitudine e dell'esempio.
In tutto questo, se non sbaglio, la mia ragione ben poco c'entrava. Le mie convinzioni, purché la memoria non mi tradisca, non subirono affatto l'influsso dell'ideale, e, salvo grande errore, le mie letture mistiche non lasciarono traccia alcuna sulle mie azioni o pensieri. Persuaso di ciò, mi abbandonai implicitamente alla guida di mia moglie, e mi addentrai a cuore saldo nel groviglio dei suoi studi. E allora - allora, quando, meditando su pagine proibite, sentivo accendersi dentro di me uno spirito proibito - Morella poneva sulla mia la sua fredda mano, e dalle ceneri d'una filosofia morta smuoveva sommesse, singolari parole, il cui strano significato si stampava a fuoco nella mia memoria. E allora, di ora in ora, indugiavo al suo fianco e mi soffermavo sulla musica della sua voce, sinché alla fine la sua melodìa non si macchiava di terrore, e un'ombra cadeva sull'anima mia, ed io impallidivo, internamente rabbrividendo a quei toni troppo ultraterreni. E così la gioia svaniva in subitaneo orrore, e ciò che era vi era di più bello diveniva quanto mai spaventevole, come Hinnon divenne Ge-Henna.
Non è necessario precisare il carattere di quelle disposizioni che, prendendo lo spunto dai volumi menzionati, per tanto tempo formarono quasi l'unica conversazione fra Morella e me. I dotti in quella che si potrebbe chiamare morale teologica se ne faranno prontamente un'idea, e i profani comunque non ne capirebbero gran che. Lo sfrenato panteismo di Fichte; ' la palingenesi ' modificata dei pitagorici; e soprattutto le dottrine dell'IDENTITA' caldeggiate da Shelling erano in genere gli argomenti che più attraevano per la loro bellezza la vivace fantasia di Morella. Quell'identità che si chiama personale il signor Locke, credo, la definisce opportunamente come sano equilibrio di un essere razionale. E siccome intendiamo come persona un'essenza intelligente fornita di ragione, e c'è una coscienza che sempre accompagna il pensiero, è questo appunto che fa di noi tutti ciò che chiamiamo NOI STESSI, così distinguendoci da altri esseri pensanti, e conferendoci un'identità personale. Ma il PRINCIPIUM INDIVIDUATIONIS, la nozione di quella identità "che con la morte si perde o non si perde per sempre", fu per me, in ogni momento, una considerazione di intenso interesse; non solo per la natura sconcertante ed eccitante delle sue conseguenze, ma anche e altrettanto per la maniera spiccata e agitata con cui ne parlava Morella.
Ma a dire il vero era ormai arrivato il tempo in cui il mistero dei modi di mia moglie mi opprimeva come una stregoneria. Non potevo più sopportare il tocco delle sue ceree dita, né il tono basso del suo eloquio musicale, né la lucentezza dei suoi occhi malinconici. Ed essa ben lo sapeva, ma non mi rimproverava; pareva consapevole della mia debolezza o follia, e sorridendo la chiamava Fato. Pareva anche conoscere una causa, a me ignota, del mio graduale straniarmi; ma non mi dava cenno o indizio alcuno sulla sua natura. Ma era pur sempre donna, e giornalmente languiva. Col tempo, la chiazza rossastra si fissò sulla guancia, e sulla fronte sporsero le vene azzurre; e a un dato momento il mio essere si scioglieva in pietà, ma un attimo dopo incontravo lo sguardo di quegli occhi significativi, e allora l'anima mi si rivoltava e pativa le vertigini di chi guarda in un abisso squallido e insondabile.
Dovrò dunque dire che con desiderio fervido e struggente andavo al momento della dipartita di Morella? Così era; ma il fragile spirito si aggrappò per molti giorni alla sua dimora di creta - per molte settimane e mesi esasperanti - finché i miei nervi torturati non riuscirono a dominare la mia mente, e io mi infuriai del ritardo, e con cuore di demonio maledissi i giorni, le ore e gli amari attimi, che parevano allargarsi sempre più a misura che declinava la sua vita gentile, come ombre allo spegnersi del giorno.
Ma una sera d'autunno, quando i venti tacevano immoti in cielo, Morella mi chiamò al suo capezzale. Su tutta la terra si stendeva una vaga nebbia, e un caldo bagliore illuminava le acque, e tra le fastose foglie della foresta ottobrina era certo caduto dal cielo un arcobaleno.
"E' un giorno eletto", disse al mio avvicinarmi; "un giorno fra tutti i giorni fatto per vivere o per morire. E' un bel giorno per i figli della terra e della vita: ah, più bello ancora per le figlie del cielo e della morte!".
Le baciai la fronte, ed essa continuò:
"Io muoio, ma vivrò".
"Morella!".
"Ripeto che muoio. Ma dentro di me vi è un pegno di quell'affetto - oh, quanto scarso! - che tu provasti per me, Morella. E quando il mio spirito si dipartirà vivrà la creatura, la creatura tua e mia, di Morella. Ma i tuoi giorni saranno giorni di dolore, quel dolore che è la più duratura delle impressioni, come il cipresso degli alberi, poiché i giorni della tua felicità sono finiti; e la gioia non si raccoglie due volte in una vita, come le rose di Pesto non si colgono due volte in un anno. Tu quindi non giocherai più col tempo alla maniera di Anacreonte, ma ignaro del mirto e della vite porterai con te il tuo sudario sulla terra, come i Musulmani alla Mecca".
"Morella!" gridai, "Morella! come fai a saperlo?" ma essa girò il viso sul guanciale, e sopraggiunta da un lieve tremore nelle membra morì così, e non udii più la sua voce.
Eppure, come aveva predetto, la sua creatura - a cui morendo aveva dato nascita, e che non respirò fin quando la madre non ebbe cessato di respirare - la sua creatura, una figlia, visse. E crebbe stranamente di statura e d'intelletto, ed era il ritratto perfetto della defunta, e io l'amavo di amore più intenso che non avessi creduto possibile sentire per una creatura terrena.
Ma non andò molto che il cielo di questo puro affetto si oscurò, e cupezza, orrore e dolore lo invasero a nuvole. Ho detto che la figliola crebbe stranamente di statura e d'intelligenza. Strana davvero fu la sua rapida crescita fisica, ma tremendi, oh, tremendi erano i pensieri tumultuosi che mi incalzarono all'osservarne il suo sviluppo mentale. E poteva essere altrimenti, quando ogni giorno scoprivo nelle concezioni della bambina le capacità e facoltà della donna adulta? quando le lezioni dell'esperienza sgorgavano dalle labbra infantili? quando di ora in ora scorgevo saggezza e passioni mature splendere da quegli occhi pieni e pensosi? Quando, dico, tutto ciò divenne chiaro ai miei sensi sgomentati - quando non potei più nasconderlo all'anima mia, né respingerlo da quelle percezioni che tremavano al riceverlo - c'è da stupirsi che sospetti d'indole paurosa ed eccitante si insinuassero nel mio spirito, o che i miei pensieri tornassero esterrefatti ai racconti pazzeschi e alle mirabolanti teorie della sepolta Morella? Io sottrassi all'attenzione del mondo un essere che il destino mi costringeva ad adorare, e nel rigoroso isolamento di casa mia sorvegliai con ansia tormentosa tutto ciò che riguardava la mia diletta.
E col passare degli anni, mentre di giorno in giorno contemplavo il suo viso santo, mite ed espressivo, e meditavo sul maturare della sua persona, di giorno in giorno scoprivo nella figlia nuovi punti di somiglianza con la madre, con la malinconica morta.
E di ora in ora si addensavano più oscure queste ombre di somiglianza, facendosi più piene e definite, più sconcertanti, più orrende all'aspetto. Poiché, se aveva il sorriso di sua madre, questo potevo sopportarlo; ma poi rabbrividivo alla sua troppo perfetta IDENTITA', che gli occhi fossero come quelli di Morella potevo del pari sopportarlo; ma poi troppo spesso sondavano le profondità dell'anima mia con l'intenzione concentrata ed enigmatica di Morella. E nella forma dell'alta fronte, e nei tristi toni musicali del suo discorrere, e soprattutto - oh, soprattutto - nelle frasi ed espressioni della morta che scaturivano dalle labbra dell'amata e viva, trovavo alimento a pensieri struggenti e orrore, a un verme che non voleva morire.
Così passarono due lustri della sua vita, e ancora mia figlia rimaneva senza nome su questa terra. ' Figlia mia ', e ' amore mio ' erano le designazioni solitamente suggerite dall'affetto di un padre, e il rigido isolamento delle sue giornate precludeva ogni altro contatto. Il nome di Morella morì con lei. Della madre non avevo mai parlato alla figlia; era impossibile parlare. Anzi, per il breve tempo che era durata finora la sua esistenza quest'ultima non aveva ricevuto impressioni di sorta dal mondo esterno, tranne quelle compatibili con gli angusti limiti della sua intimità. Ma finalmente la cerimonia del battesimo fornì alla mia mente, nel suo stato di snervata agitazione, un'immediata liberazione dai terrori del mio destino. E al fonte battesimale esitai nello scegliere un nome. E molti nomi appartenuti a donne sagge e belle, nomi di tempi antichi e moderni, della mia terra e di terre straniere, si affollarono alle mie labbra, con molti, molti nomi di donne gentili, e felici, e buone. Che cosa dunque mi indusse a disturbare la memoria della morta? Quale demone mi spinse a esalare quel suono che al solo ricordo faceva fluire a torrenti il purpureo sangue dalle tempie al cuore? Quale spirito maligno parlò dai recessi dell'anima mia, quando fra quelle fosche navate, e nel silenzio della notte, sussurrai all'orecchio del sacerdote le sillabe - Morella? Quale demonio più che demonio contorse i lineamenti della mia creatura e vi diffuse una tinta di morte, quando trasalendo a quel suono appena udibile rivolse gli occhi vitrei dalla terra al cielo, e cadendo prostrata sui neri lastroni della nostra cappella avìta rispose: "Sono qui!"?
Distinti, freddamente e quietamente distinti caddero quei semplici suoni sul mio orecchio, e di lì, come piombo fuso, sibilando colarono al cervello. Gli anni, gli anni potranno passare, ma la memoria di quell'epoca, mai! Né fui davvero ignaro dei fiori e della vite, ma cicuta e cipressi mi adombrarono giorno e notte. E non tenni più calcolo di tempo e di luogo, e le stelle del mio destino svanirono dal cielo, e le sue figure mi passarono accanto come ombre effimere, e fra tutte vedevo soltanto Morella. I venti del firmamento non spirarono che un suono al mio orecchio, e le increspature del mare per sempre mormorarono Morella. Ma essa morì; e con queste mani la portai alla tomba; e risi d'un riso lungo e amaro quando non trovai traccia della prima nel sepolcro ove deposi la seconda Morella.
Metzengerstein
L'orrore e la fatalità hanno avuto a che fare in tutti i secoli.
A che mettere, allora, una data nella storia che sto per raccontare? Mi basta appena premettere che, all'epoca di cui parlo, sussisteva, nel centro dell'Ungheria, una ferma credenza nelle dottrine della metèmpsicòsi. Di tali dottrine per esse stesse, della loro inattendibilità ovvero della loro probabilità, a me non interessa dire e non dirò nulla. Io posso affermare, nondimeno, che gran parte di tutta la nostra incredulità - secondo che dice La Bruyère, il quale attribuisce tutte le nostre disgrazie a quest'unica causa - ' vient de ne pouvoir être seuls '.
Ma alcuni punti di quella superstizione ungherese toccavano quasi l'assurdo. I Magiari differiscono essenzialmente dalle autorità Orientali, per ciò che riguarda tale argomento. (Nota dell'autore:
Il Mercier nel suo ' L'an deux milles quatre cent quarante ', sostiene, con decisione, le dottrine della metèmpsicòsi, e J.
d'Israeli afferma che non esiste sistema semplice come quello e che tanto, come quello, ripugni all'intelligenza. E persino il colonnello Etham Allen, il ' Green Mountain Boy ', passa per essere stato un convinto metèmpsicosìsta). E, tanto per fare un esempio, citerò le parole d'un acuto e intelligente parigino:
"L'âme ne demeure qu'une seule foi dans un corps sensible. Ainsi un cheval, un chien, un homme même, ne sont que la rassemblance illusoire de ces êtres".
Le famiglie Berlifitzing e Metzengerstein erano state in discordia per secoli. Non s'erano mai viste due casate tanto illustri reciprocamente inasprite in una inimicizia addirittura mortale.
Quest'odio poteva aver avuto origine dalle parole d'una antica profezia: "Un grande nome cadrà da una terribile altezza, allorché, simile a un cavaliere sul proprio cavallo, la mortalità di Metzengerstein trionferà sull'immortalità di Berlifitzing".
In sé e per sé, è indubitato che tali parole contenessero poco senso. Ma cause ancor più volgari di quelle hanno condotto - e senza risalire troppo in alto nel tempo - a conseguenze ugualmente gravide d'avvenimenti. E d'altro canto i due domìni, ch'erano confinanti, avevano esercitato, a lungo, un'influenza rivale nelle vicende d'un tumultuoso governo. Vicini tanto vicini com'essi erano, raramente sono amici, e gli abitanti del castello di Berlifitzing potevano spingere i loro sguardi fin dentro le finestre del palazzo Metzengerstein dove il dispiegamento d'una magnificenza feudale era inadatto a calmare i sentimenti irritabili dei Berlifitzing che erano di meno antica e meno ricca origine. Perché meravigliarsi, allora, se le parole della surriferita predizione - le quali non suonano, per questo, meno bizzarre - avevano potuto determinare e tener desta la rivalità tra due famiglie le quali vi erano già predisposte dalle continue istigazioni d'una gelosìa ereditaria? Se qualcosa essa stava a significare, la predizione prometteva il trionfo finale alla parte più cospicua ed è quindi naturale che fosse rammentata con una cotale animosità da quella parte, fra le due, che era più debole e meno influente.
Wilhelm, conte di Berlifitzing, malgrado il suo alto lignaggio, all'epoca dell'odierno racconto era un vecchio carico di malanni e per metà svanito di mente, il quale poteva solo essere distinto da una radicata antipatia personale ai danni della casata rivale e da un amore così appassionato per i cavalli e la caccia che nemmeno le infermità fisiche e l'età avanzata, come pure la debolezza del suo cervello, potevano vietargli di correre, ogni giorno, i pericoli che quegli esercizi comportano seco.
E Frederick, d'altro canto, barone di Metzengerstein, non aveva ancora raggiunto la maggiore età. Il ministro G., suo padre, era morto giovane e sua madre, Lady Mary, aveva raggiunto il marito con breve intervallo. Frederick aveva, allora, diciott'anni.
Diciott'anni spesi in una città, in una vita collettiva, non sono un grande periodo di tempo. Ma nella solitudine, nella magnifica e solenne solitudine di un antico e aristocratico ritiro, il pendolo oscilla con più profonda e significativa maestà.
In seguito ad alcune particolari modalità dell'amministrazione paterna, non appena il suo avo ebbe a morire, il giovane barone entrò in possesso dei suoi vasti domìni. Prima di quel tempo s'era vista raramente, in Ungheria, tanta e così nobile proprietà nelle mani d'un solo. I castelli erano innumerevoli e il più splendido e il più vasto era il palazzo di Metzengerstein, tanto che il limite delle terre intorno non era mai stato ben definito. Il parco principale, ad ogni modo, abbracciava un circuito di cinquanta miglia.
La successione di persona così giovane e dal carattere, pertanto, assai ben conosciuto, non lasciava supporre nulla di preciso attorno alla probabile condotta ch'egli avrebbe seguita. E questa, per la verità, oscurò la fama di Erode nello spazio d'appena tre giorni superando, in magnificenza, le speranze dei suoi più entusiasti ammiratori. Orgie vergognose, flagranti perfìdie, tradimenti, inganni, atrocità inaudite resero ben presto noto ai suoi trepidanti vassalli che nulla, né la loro servile sottomissione, né alcun probabile scrupolo di coscienza da parte del medesimo signore, avrebbero potuto proteggerli, in qualche modo, dagli artigli impietosi di quel piccolo Caligola. La notte del quarto dì, furono viste bruciare delle scuderìe del castello di Berlifitzing. E così anche il delitto di quell'incendio andò ad aggiungersi, secondo l'unanime opinione dei vicini, alla orribile lista degli atroci misfatti del barone. Quanto al giovane gentiluomo, egli se ne stette, per tutto il tempo che durò il tumulto provocato da quell'accidente, assorto in apparente meditazione, seduto in una stanza vasta e solitaria, nella parte più remota ed elevata del palazzo avìto dei Metzengerstein. La tappezzeria ricca, ancorché sbiadita, che pendeva malinconicamente alle pareti, rappresentava i ritratti fantastici e maestosi di mille antenati illustri. Prelati, colà, riccamente parati d'ermellino, dignitari pontifici familiarmente assisi con l'autocrate o il sovrano, opponevano il loro veto ai capricci d'un re temporale e, col favore del potere, in mano loro, della supremazia papale, trattenevano il ribelle scettro del Gran Nemico. Altrove le cupe smisurate stature dei principi di Metzengerstein, i cui muscolosi cavalli da guerra pestavano le spoglie dei nemici caduti, scuotevano, per la loro feroce espressione, anche i nervi più solidi. Ed ancora, simili a cigni, le voluttuose immagini delle dame dei tempi andati fluttuavano negli intrichi d'una danza fantastica, intente all'accento di melodie immaginarie.
Ma nel mentre che il barone prestava orecchio - ovvero sembrava prestarlo - al baccano ognor crescente che veniva dalle scuderie dei Berlifitzing, - e probabilmente rifletteva attorno a un nuovo piano, più risoluto e ancora più audace - i suoi occhi ebbero a posarsi involontariamente sulla figura d'un enorme cavallo, d'un colore innaturale, il quale, secondo la leggenda raffigurata nell'arazzo, sembrava appartenere a un antenato saraceno della famiglia rivale. Il cavallo restava immobile come una statua, nel primo piano del quadro, nel mentre che, poco discosto, il suo cavaliere periva, sotto il pugnale d'un Metzengerstein.
Un'espressione diavolesca increspò le labbra di Frederick, non appena egli s'avvide della direzione ch'aveva presa il suo sguardo. Pure non distolse gli occhi e non poté, al contrario, liberarsi dall'oppressione di un'ansia che gli era piombata pesantemente addosso come un drappo mortuario e gli era difficoltoso connettere le sue incoerenti sensazioni materiate di sogno, con la sicurezza d'esser desto. E più indugiava in quella contemplazione e più avvertiva che quella magia lo andava possedendo, e più ancora gli sembrava impossibile sottrarre lo sguardo dal perfido fascino di quell'arazzo. E come il baccano esterno salì improvvisamente di ferocia, egli spostò, con uno sforzo, la propria attenzione sul viale che, dal palazzo, conduceva fino alle scuderie della proprietà.
"No", disse il barone voltandosi di scatto. "E' morto?".
"Certamente, signor mio e nondimeno io ritengo che, per voi, ciò non costituisca quel che si dice una cattiva nuova".
Un sorriso illuminò il volto del barone.
"E come è morto?" s'affrettò a chiedere.
"Nel mentre che s'affannava a tentar di salvare alcuni suoi favoriti cavalli da caccia, egli è miseramente perìto tra le fiamme".
"Dav... ve... ro...?" esclamò il barone al modo stesso che se si andasse convincendo per gradi della veridicità d'una sua misteriosa supposizione.
"Davvero!" disse il vassallo.
"Orrore!" concluse il barone ma con calma, quasi dimentico del significato di quella parola; e rientrò tranquillamente nel suo palazzo.
A partir da quel giorno, un notevole mutamento si verificò nella condotta esteriore del giovane e dissoluto barone Frederick von Metzengerstein. Egli s'era comportato, per la verità, in modo da provocare il disappunto di molte speranze e da sconcertare i disegni di più d'una madre intrigante. Ora, per contro, le sue abitudini, finirono coll'uniformarsi in tutto e per tutto a quelle della società aristocratica del vicinato. Egli, così, non fu più visto fuori dei suoi domìni e non coltivò del pari alcun amico nel vasto mondo della società conterranea, ove non si voglia calcolar per un amico quel sovrannaturale e impetuoso cavallo di fiamma ch'egli non smetteva mai di montare dal giorno dell'incendio.
Dalle famiglie confinanti, tuttavia, continuarono a pervenirgli inviti d'ogni sorta. "Sarà così gentile il signor barone d'onorare la nostra festa con la sua presenza?"; "Sarà così gentile il signor barone da prendere parte alla nostra caccia al cinghiale?"; "Metzengerstein non va a caccia"; "Metzengerstein non può accettare", erano le sue brevi ed altere risposte.
Il ripetersi di tali ingiuriose ripulse non poté, alla lunga, essere sopportato da quella altera nobiltà. Gli inviti divennero, così, meno cordiali, meno frequenti e, a poco a poco, cessarono del tutto. E fu intesa la vedova del defunto conte Berlifitzing esprimere il voto che "il barone potesse esser costretto a starsene in casa, dal momento che disprezzava la compagnia dei suoi uguali, proprio quando avrebbe desiderato di non trovarvicisi e ancora, dal momento che a quella di coloro preferiva la compagnia d'un cavallo, a cavalcare quando non ne aveva nessuna voglia". La qual cosa non era, certamente, che una volgare esplosione del rancore ereditario e dimostrava soltanto come le parole che noi usiamo rischiano di perdere ogni loro significato se noi vogliamo a ogni costo conferir loro una estrema energia.
E tuttavia le persone caritatevoli attribuivano il mutamento della condotta del giovane gentiluomo al suo più che naturale dolore di figlio - ahimè - troppo presto privato dei suoi genitori. E così facendo, davano a vedere, nondimeno, d'aver dimenticato il suo feroce contegno e la sua indifferenza nei giorni che seguirono immediatamente quella sua duplice perdita. Vi fu taluno che lo accusò d'essersi forgiata un'idea esagerata della propria importanza e della propria dignità, e altri ancora - e tra questi converrà mettere il medico della famiglia - i quali non dubitarono di attribuire il tutto a una sorta di morbosa malinconìa ereditata dai suoi avi. Torbide insinuazioni, oltre a queste, e d'ancor più dubbia natura, correvano, nel frattempo, sulle bocche dei pettegoli.
Il perverso attaccamento, per la verità, del barone per la sua nuova cavalcatura - il quale pareva aumentare di forza e di passione ogniqualvolta l'animale dava nuova prova e incentivo alle sue sfrenate e demoniache tendenze - fu giudicato, da tutte le persone ragionevoli, al pari d'una orripilante tenerezza contro la natura. Al rosseggiar del meriggio e nelle morte ore notturne, col bel tempo e con la tempesta, sia ch'egli fosse ammalato o in salute, il giovane Metzengerstein sembrava inchiodato alla sella del suo gigantesco corsiero del quale l'audacia senza freni s'accordava troppo bene al suo proprio carattere.
E si dettero, ancora, talune circostanze le quali, riferite agli avvenimenti più recenti, crearono un'atmosfera mitica e soprannaturale attorno alle manie del cavaliere e alle qualità della bestia. Fu misurato meticolosamente lo spazio che questi poteva superare con un suo salto e fu trovato che esso era assai più ampio di quanto non fosse supposto dai più esagerati. Il barone, inoltre, non aveva dato all'animale nessun nome particolare, mentre tutti gli altri cavalli della sua scuderia ne avevano uno. La scuderia per quell'eccezionale corsiero era stata ricavata a una certa distanza dalle altre e nessuno mai, eccettuato il barone, aveva osato varcarne la soglia, foss'anche per attendere alla cura e alla pulizia della bestia. E fu inoltre notato che nessuno dei tre inservienti o palafrenieri i quali erano riusciti, a mezzo d'una cruda che terminava in un cappio, a impadronirsi del corsiero in fuga dall'incendio del vicino castello di Berlifitzing, era in grado di affermare con sicurezza d'aver poggiato le mani, nel corso di quella lotta perigliosa o in alcun altro momento successivo, su alcuna parte del corpo dell'animale. Il fatto che un cavallo di nobile razza e di generoso impeto dia prove d'una intelligenza affatto particolare non è cosa che possa destare un interesse del tutto eccezionale e nondimeno, per quel che concerne il caso del cavallo di Metzengerstein, si verificarono circostanze tali da riuscire ad impressionare anche coloro che si dicevano scettici e indifferenti di professione. E di fatto si ricordava di una volta che la bestia aveva fatto retrocedere un'intera folla in preda al terrore, la quale un istante prima gli si stringeva attorno per ammirarlo, solo a causa dell'impressionante profondità del pensiero adombrato nel terribile pestar del suo zoccolo, e d'una altra volta ancora in cui il giovine Metzengerstein s'era volto a riguardare dalla parte opposta, sbiancato in viso, per sfuggire a una subitanea occhiata scrutatrice del cavallo che pareva guardarlo con un'espressione di serietà e quasi d'umanità.
Nessuno, tra i servi, sollevò mai qualche dubbio sull'affezione del tutto eccezionale che il giovine gentiluomo portava al cavallo per le sue brillanti qualità, nessuno ove si eccettui un insignificante servitorello le cui difformità erano sempre tra i piedi delle persone e alle cui opinioni non era il caso d'attribuire soverchia importanza. Egli aveva la tracotanza d'affermare - seppure il suo parere merita d'essere rammentato - che il suo padrone non era mai salito in sella senza un inesplicabile e quasi impercettibile brivido e che, al ritorno dalle sue lunghe cavalcate, non mancava di tradire, ogni giorno, un'espressione trionfante di malvagità la quale gli tendeva tutti i muscoli facciali.
Una notte d'uragano, Metzengerstein si destò all'improvviso da un sonno pesante, uscì come impazzito dalla sua stanza, salì in gran furia sul suo cavallo di fuoco e scomparve in un balzo negli intrichi della selva. L'avvenimento era così comune che nessuno vi pose mente; epperò i servi attesero il ritorno del barone con viva ansietà poiché, qualche ora dopo che egli era scomparso, i mirifici edifizi del palazzo di Metzengerstein avevano cominciato a scricchiolare e a vacillare dalle fondamenta sotto l'azione d'un fuoco improvviso e irriducibile il quale ricopriva le costruzioni d'una massa livida e spessa di fumo. E nondimeno, allorché la gente se ne avvide, le fiamme avevano già menata innanzi di tanto la loro opera distruttrice che qualsiasi sforzo per salvare una parte soltanto delle costruzioni apparve palesemente vano, e così gli accorsi se ne stettero attoniti là intorno, preda d'uno stupefatto, se non apatico silenzio. Ma un oggetto nuovo e terribile attrasse ben presto l'attenzione della moltitudine e mostrò come sia molto più intenso l'interesse che può fomentare, in una folla, la contemplazione d'una umana agonia che non il più orripilante spettacolo offerto dalla materia inanimata.
Sul lungo viale di querce vetuste che portava, dalla selva, all'ingresso del palazzo di Metzengerstein apparve all'improvviso un corsiero, montato da un cavaliere scapigliato e con le vesti in disordine, il quale spiccava tali balzi da sfidare, per l'ìmpeto, perfino il Dèmone dell'uragano.
Il cavaliere - era evidente - non riusciva a frenare quella corsa impazzita, ed appariva, dall'espressione atterrita della sua faccia e dal convulso agitarsi del suo corpo, ch'egli stava sostenendo uno sforzo sovrumano. E purtuttavia, all'infuori d'un unico grido - e come fu inteso rintronare! - che gli sfuggì dalle labbra, lacerate dai suoi stessi morsi che la intensità del terrore gli suggeriva sempre più frequenti, non fu udito alcun suono che provenisse da lui.
Un solo istante ancora e lo scalpitìo degli zoccoli stridette più alto e acuto che il ruggito delle fiamme e l'urlìo del vento. Un solo istante ancora e, dopo aver superato, in un sol balzo, il fossato e la soglia, il cavallo si slanciò su per le scale del palazzo, prossime a crollare, col suo cavaliere in groppa, nitrendo alto fra i turbini di fuoco.
E all'improvviso, allora, s'acquietò la furia dell'uragano e sopravvenne una tetra calma di morte. Salì una candida fiamma e avviluppò tutto il palazzo come un sudario e, vampando su per l'aria tranquilla, dardeggiò in lontananza una luce soprannaturale. In quello stesso istante, una spessa nube di fumo s'appesantì sull'antica costruzione e prese la forma d'un gigantesco cavallo.
Il pozzo e il pendolo
Io ero ammalato... ammalato fino alla morte per quella lenta agonia; e come alfine essi mi sciolsero e potei sedere, mi sentii venir meno. La sentenza - la paurosa sentenza di morte - fu l'ultimo accento distinto che mi arrivasse all'orecchio. Poi le voci degli inquisitori sembrarono perdersi in un sognante e indefinito ronzio. Il suono che udivo, ridestava, in me, l'idea di una ' rotazione ' ma soltanto, forse, perché, nella mia immaginazione, si associava al ritmo d'una macina da mulino. Tutto questo durò pochissimo tempo: in capo ad alcuni minuti non udii più nulla. E nondimeno vidi ancora, per qualche istante, vidi - ma per quale orribile deformazione del mio organo? - vidi le labbra dei giudici vestiti di nero. Esse mi parvero bianche, più bianche ancora del foglio dove io segno, al presente, queste parole; e sottili, ancora mi parvero, sottili fino a diventar grottesche, sottili, per l'ostinazione e profondità della loro dura espressione, per l'irrevocabile decisione che tradivano, per il severo spregio dell'umano dolore che esse ostentavano. Così ch'io vidi uscire fuori da quelle labbra i decreti di ciò che, per me, era il Fato. Le vidi mentre si torcevano in un mortifero eloquio. Le vidi mentre foggiavano le sillabe del mio nome e fui squassato da un violento tremore poiché, a quel movimento, non seguì alcun suono. E vidi ancora, per taluni istanti di delirio e di orrore, la lenta e quasi impercettibile ondulazione dei neri cortinaggi che pendevano dai muri della sala. E in quel punto il mio sguardo cadde sopra i sette enormi candelabri che erano poggiati sul tavolo. E distinguendo, in essi, da principio, solo i simboli della carità, furono veduti da me quali snelli angeli candidi, votati alla mia salvezza; ma come in seguito, improvvisamente, una nausea mortale annegò il mio spirito e sentii vibrare il mio corpo in tutte le sue fibre, come se avessi toccato il filo d'una batteria galvanica, quelle angelicate immagini si trasmutarono in incomprensibili spettri dalla testa incendiata e parlarono per apprendermi che sarebbe stato invano, per me, sperare nel loro soccorso. E allora, simile a una armoniosa nota musicale, penetrò nel mio animo l'idea del dolce riposo dal quale siamo attesi nel sepolcro. E quel pensiero mi vinceva fuggevolmente e con grande dolcezza e sembrò che impiegasse un lungo tempo ad assumere tutt'intero il suo valore, e proprio nel mentre che l'animo mio giungeva a possederlo, e a divenire, infine, una sola cosa con esso, sparirono, per opera di magia, le figure degli inquisitori, si disfecero gli steli dei lunghi candelabri, si spensero le loro fiammelle e gravò la tenebra.
Tutti i sensi dell'anima sembrò che fossero ingoiati in una discesa folle e precipite all'imo Ade. Ed ogni cosa dell'universo fu notte, fu silenzio, fu immobilità.
Io ero svenuto. Non dirò tuttavia che avessi perduto ogni sentimento. Non sarò tentato a descrivere e non pure a definire quel che poteva rimanerne di speranza: essa, nondimeno, non era del tutto perduta. No: nel sonno più fondo, nel delirio, nel venir meno, e ancora nella morte e, infine, nel sepolcro, tutto NON è perduto. A che si ridurrebbe, allora, l'immortalità dell'uomo?
Quando noi ci destiamo da un sonno profondo, noi non facciamo che strappare la ragnatela di un QUALCHE sogno, e nondimeno, appena un solo istante appresso, noi non riteniamo - tant'è fragile la tela - d'aver mai sognato. Nel ritorno alla vita da un mancamento, vanno distinti due gradi: è il primo quello che ci da il senso dell'esistenza mentale ovvero spirituale, è il secondo quello in cui acquistiamo coscienza dell'esistenza fisica. E quando siamo pervenuti al secondo grado, è da credere che, se potessimo ritenere le impressioni che riguardano il primo, esso conterrebbe alquante rivelazioni dell'abisso che s'apre oltre. E cos'è questo abisso? E come si possono distinguere, da quelle del sepolcro, le sue ombre? Se le impressioni, bensì, di quel ch'io ho definito il primo grado, non rispondono tempestivamente al nostro vano richiamarle allo spirito, esse riaffiorano nondimeno, dopo un lungo spazio di tempo, senza che siano evocate, mentre noi ci chiediamo stupiti donde possano esser sorte. Colui che non è mai venuto meno, non ha mai potuto vedere stravaganti strutture di palazzi nelle braci mentre ardono, e volteggiare qui, deformati in modo bizzarro, volti familiari; egli non può contemplare, nel mentre che si librano nell'aria, le malinconiche visioni al volgo proibite, e ancora egli non sa meditare sul profumo d'un qualche ignoto fiore e non sa correre dietro al suo cervello mentr'esso si perde in una melodia che non aveva mai fermata, prima, la sua attenzione.
In mezzo ai tentativi insistiti e concentrati, in mezzo ai vigorosi sforzi per recuperare una qualche vestigia di quello stato d'annullamento nel quale era stata apparentemente sommersa l'anima mia, vi sono stati pure degli istanti in cui ho fantasticato di riuscirvi. E furono istanti brevissimi, durante i quali ho evocato delle memorie che, a freddo, in seguito, ho avuto la certezza di saper ricondurre a quell'apparente incoscienza. E coteste larve di memorie mi dicono di enormi forme indefinite le quali mi sollevarono e mi trascinarono silenziosamente in basso, in basso, sempre più in basso, fintantoché l'idea medesima della discesa all'infinito non mi comunicò la vertigine. E mi dicono ancora d'un vago orrore che mi possedette l'animo, per la ragione appunto, che una sovrumana calma abitava il mio cuore. E poi mi dicono di un'improvvisa immobilità di tutte le cose, come se coloro che mi trascinavano in spettrale corteo avessero passati, in quella loro caduta, i limiti dell'infinito e si fossero arrestati, stremati dalla loro stessa fatica. E ancora, dopo questo, la sensazione dell'infimo, dell'umido... il resto è pazzia, pazzia della memoria che si affanna dietro argomenti proibiti.
Tutt'a un tratto ho ritrovato il SUONO. E poi il MOVIMENTO. Il tumulto del cuore. E il suono dei suoi battiti, all'orecchio. E poi una pausa, durante la quale ogni cosa divenne, come dianzi, vuota. E poi ancora il suono e il movimento e le facoltà TATTILI, e i brividi, e un formicolare delle membra che mi si perdeva per tutto l'essere. Poi la coscienza d'esistere nuovamente, senza tuttavia poterlo pensare. Tale condizione durò a lungo. Poi, tutt'a un tratto, il PENSIERO: e subito un fremebondo terrore, uno struggente e concentrato studio per capire il mio effettivo stato.
E un desiderio vivissimo, quindi, di tornare al più presto nell'insensibilità e un rivivere subitaneo dello spirito assieme al tentativo di muovermi. Quest'ultimo riuscì. E allora tornò, tutt'intero, il ricordo del processo, dei giudici, dei neri cortinaggi, della sentenza, della mia debolezza e infine del mio mancamento. Indi la più completa perdita di memoria per tutto quello che seguì, per tutto quello che sono riuscito a ricordare, e con molta approssimazione, soltanto molto tempo dopo e a prezzo di applicato studio.
Fino a quel punto non avevo aperti gli occhi. Sentivo d'essere disteso, sul dorso e senza lacci. Tentai d'allungare una mano ma essa ricadde subito, e con pesantezza, su alcunché d'umido e di duro. Ve la lasciai qualche minuto mentre duravo gli sforzi per indovinare in qual luogo potessi essere e che cosa fosse per accadermi. Cresceva, in me, l'impazienza di servirmi degli occhi:
e tuttavia non osavo. Temevo la prima occhiata sugli oggetti all'intorno. Non mi aspettavo di vedere cose orribili, ma ero bensì atterrito dall'idea che attorno a me, non ci potesse essere nulla da vedere. Alfine, mentre il mio cuore era divorato da una folle angoscia, apersi, d'un sol colpo, gli occhi. I miei più orribili presentimenti si stavano confermando. Tutto all'intorno era soltanto la tenebra d'una notte sempiterna. Mi sforzai di respirare, ma la profondità di quel buio aveva come il potere di soffocarmi. L'aria era pesante fino a non poterla più sopportare.
Tentai di tenere in esercizio la ragione nel mentre che rimanevo disteso.
Tentai ancora di fissare i miei pensieri sulla procedura dell'Inquisizione e, cominciando di lì, pervenni a identificare la mia reale condizione. La sentenza era stata pronunciata: ed io avevo la sensazione che, da allora, fosse trascorso un tempo lunghissimo. Epperò non supposi d'essere già trapassato, nemmeno un solo istante. Nonostante si legga diversamente nei romanzi, una simile idea è incompatibile con l'esistenza reale. Ma in qual luogo e in quale stato io mi trovavo? Ero a parte del fatto che di solito le sentenze venivano eseguite negli ' auto-da-fé ', e che uno di questi era stato tenuto la sera medesima del giorno in cui s'era svolto il mio processo. M'avevano ricondotto nella segreta e mi ci avrebbero lasciato fino al prossimo sacrificio che non sarebbe avvenuto prima di alcuni mesi? Immediatamente capii che non poteva essere così. Le vittime si dovevano offrire immediatamente, e la segreta che abitavo prima della sentenza, come del resto tutte quelle dei condannati di Toledo, era lastricata di pietra e vi filtrava un qualche lume.
Un agghiacciante pensiero mi fece affluire, tutt'a un tratto, il sangue al cuore ed io perdetti nuovamente i sensi. Al mio risveglio, balzai in piedi: un convulso tremore mi scuoteva ogni fibra. Tesi le braccia attorno a me, sopra di me, levandomi sulle punte dei piedi, in tutte le direzioni senza incontrar nulla, e avevo nondimeno, il terrore di muovere un passo, ché non avessi ad urtare contro le mura di una TOMBA. Il sudore si scioglieva da tutti i pori e sulla fronte mi si gelava in grosse gocce.
L'angoscia per quell'incertezza della mia sorte divenne a un tratto insopportabile e avanzai guardingo, protendendo le braccia in avanti e sporgendo gli occhi fuori dalle orbite, nella speranza di poter, infine, percepire un qualche debole raggio di luce.
Mossi qualche passo ancora, ma ogni cosa all'intorno era tenebra e vuoto. Respiravo, ora, con maggiore libertà. Era evidente, almeno, che non mi era stata riservata la più orribile delle morti.
E nel mentre che seguitavo ad avanzare con cautela, la memoria mi s'affollava di mille dicerìe contrastanti e vaghe sugli orrori di Toledo. Si raccontavano, attorno alle segrete, alcuni bizzarri fatti che io avevo sempre considerati come delle fole, ma tanto bizzarri, e insieme tanto paurosi che si possono solo bisbigliare all'orecchio. Ero forse dannato a morire di fame in quella tenebra sotterranea? Quale altro destino, fors'anche più spaventoso, m'era riservato? Che il risultato dovesse essere la morte e, per giunta, una morte straordinariamente amara, non era più dubbio, da che conoscevo troppo bene il carattere dei miei giudici, e nondimeno io ero angosciato dal desiderio di conoscere il modo e l'ora.
Le mie mani tese in avanti urtarono, infine, in un solido ostacolo. Era un muro che pareva costruito di pietra, molto levigato, molto umido e freddissimo. Lo seguii con quella diffidente prudenza che m'avevano ispirata taluni antichi racconti. Quell'aggirarmi, però, non mi offriva alcun modo di capire quali realmente fossero le dimensioni della mia prigione, dal momento che il muro appariva tanto uniformemente levigato che potevo fare il giro completo del vano e tornare al luogo donde ero venuto senza peraltro accorgermene. Tastai allora, nelle mie tasche, per vedere se avessi ancora il coltello che avevo al momento in cui mi condussero al tribunale dell'Inquisizione: era scomparso. E i miei abiti erano stati sostituiti da un ruvido saio. L'idea che m'era balenata, era stata quella di infigger la lama in una qualche crepa dell'intonaco, per fissare, e quindi poter ritrovare, il mio punto di partenza. La difficoltà di attuare un disegno consimile era minima, e nondimeno per il disordine di cui era preda in quel momento la mia mente, mi parve in quel momento insormontabile. Lacerai una striscia dall'orlo del mio abito e la posi in terra per tutta la sua lunghezza, ad angolo retto con la parete di muro. Seguendo il cammino, a tentoni, attorno alla segreta, non avrei potuto far di meglio che ritrovare quello straccio, e in quel punto il mio giro sarebbe stato completo: almeno supponevo così. Ma in quella supposizione non avevo tenuto conto dell'eventualità che l'ambiente fosse molto vasto e della certezza che io ero, per contro, assai debole. Il terreno era umido e sdrucciolevole. Procedetti ancora per qualche tempo, vacillando, poi inciampai e stramazzai a terra. L'estrema stanchezza mi fece restare prono per un pezzo e fui così fui ripreso dal sonno.
Al mio risveglio, nell'atto che feci di stendere le braccia, urtai contro un pane e una brocca piena d'acqua. Non ero in condizioni di riflettere, a causa della mia debolezza, su questa nuova circostanza, e nondimeno bevvi e mangiai con avidità. Ripresi a camminare attorno al mio carcere, e infine, dopo molta fatica, pervenni a rintracciare la striscia di stoffa. Prima di cadere ero riuscito a contare cinquantadue passi, ed ora, dopo aver ripreso il cammino, ne contai, per ritrovare lo straccio, altri quarantotto. Erano dunque un centinaio di passi fra tutto; calcolando una yarda ogni due passi, la mia cella poteva misurare un circuito di cinquanta yarde. Avevo incontrati, però, nel mio cammino, alcuni angoli e non potevo fare, in questo modo, alcuna congettura sulla probabile forma di quel sotterraneo, da che io lo credevo tale.
Non v'era alcun preciso oggetto - e meno che meno poteva esservi, al fondo, il desiderio d'alimentare una qualche speranza a quelle mie ricerche; - una vaga curiosità, nondimeno, mi spingeva a seguitarle. Mi staccai, così, dal muro, e mi decisi a traversare, diametralmente, la superficie circoscritta dalle pareti del vano.
Avanzai, in principio, con estrema circospezione, da che il pavimento, quantunque sembrasse costruito di materiale solido e duro, era nondimeno come allagato da una viscida palta. Mi rinfrancai, in seguito, e presi un'andatura più spedita, studiando di seguire una direzione la più dritta possibile. Avevo fatto, a quel modo, una dozzina appena di passi, allorché il rimanente dell'orlo stracciato al mio vestito mi s'attorcigliò alle gambe e mi fece inciampare e stramazzare nuovamente a terra, colla faccia in avanti.
Nella confusione di quella caduta, non badai ad osservare subito una circostanza abbastanza bizzarra, la quale, nondimeno, qualche secondo appresso, allorché ero ancora disteso, attrasse la mia attenzione. Il mio mento toccava il suolo del carcere, ma le labbra e la parte superiore del capo, quantunque sembrassero essere in luogo meno elevato che non il mento, non lo toccavano.
Nello stesso momento mi sentii la fronte madida per un vapore ghiacciato, e le narici furono ferite, ancor esse dall'odore caratteristico dei funghi putrefatti. Tesi il braccio in avanti e trasalii. Ero caduto sull'orlo d'un pozzo circolare del quale non avevo, però, alcun mezzo per calcolare l'ampiezza. Tastando la parete al di sotto del margine, riuscii a rimuovere un piccolo frammento e lo lasciai cadere nell'abisso. Restai qualche secondo, colle orecchie tese ai rimbalzi che esso faceva contro le pareti del pozzo, cadendo, e infine udii un tonfo sordo e lontano, seguito da echi e sciacquii rumorosi. Nell'identico istante un rumore si produsse al di sopra della mia testa - come di una porta aperta e poi richiusa con grande rapidità - e un debole chiarore balenò all'improvviso e subito sparì.
Compresi, con tutta chiarezza, la sorte che mi era stata riservata, e mi rallegrai non poco per l'opportuno incidente cui dovevo la salvezza. Ancora un passo e nessuno al mondo avrebbe saputo più nulla di me. Quella morte, così tempestivamente evitata, apparteneva proprio al genere che io mi ostinavo a considerare partecipe dell'assurdo e del fiabesco in tutto ciò che mi era giunto all'orecchio riguardo all'Inquisizione. Alle vittime di quella tirannide era riservata una scelta tra la morte in preda alle più atroci agonìe fisiche, ovvero quella che traeva tutto il suo orrore dalle più feroci torture dello spirito. Io ero stato votato a quest'ultima. I miei nervi erano talmente eccitati dalle estenuanti sofferenze che perfino il suono della mia stessa voce mi spingeva a rabbrividire. Ero diventato, in breve, un soggetto particolarmente atto alla specie di tortura che mi si voleva infliggere, e sotto tutti gli aspetti.
Scosso da un pauroso tremito per tutte le membra, arretrai paurosamente, a tentoni, verso la parete, nella ferma risoluzione di lasciarmi morire addossato ad essa, anziché affrontare l'orrore dei pozzi che la mia immaginazione moltiplicava nell'oscurità dalla cella. S'io mi fossi trovato in una diversa condizione di spirito, non c'è dubbio che avrei avuto il coraggio di finire, in un sol colpo, le mie miserie, gettandomi a capofitto in uno di quei baratri; ma in quel momento mi sentivo il più codardo fra tutti gli uomini. Giacché non potevo aver dimenticato che quei pozzi erano costruiti - secondo talune mie antiche letture - in modo tale che chi vi precipitava non poteva in alcun modo, per questo soltanto, assicurarsi d'una morte subitanea.
L'agitazione dell'anima mia ebbe ragione del mio sonno durante interminabili ore, in capo alle quali mi assopii nuovamente. Al mio risveglio, come già l'altra volta, mi trovai accanto un pane e una brocca d'acqua. La sete mi ardeva la gola e vuotai il boccale d'un solo sorso. Un narcotico doveva essere stato sciolto nell'acqua, poiché non appena ebbi finito di bere, ricaddi subito, sospinto da una irresistibile forza, a dormire. Un sonno profondissimo, un sonno in tutto simile a quello mortale, s'impadronì di me. Quanto durasse, naturalmente, non so dire; ma nel momento in cui mi destai di nuovo ed ebbi nuovamente riaperti gli occhi, mi accorsi che gli oggetti intorno a me erano diventati man mano visibili. Ciò era grazie a uno strano riflesso sulfureo, del quale sul principio tardai a scoprire l'origine, ma che mi permetteva di vedere l'ampiezza e l'aspetto del mio carcere.
Scoprii, così, che per quel che riguardava la grandezza, io m'ero molto discosto dal vero; la circonferenza, infatti, di tutte intere le pareti, non poteva misurare un giro superiore alla venticinque yarde. Tale scoperta fu causa, per qualche minuto, d'un grande turbamento il quale era, per la verità, del tutto inutile e ingiustificato, poiché, di fatto, non v'era nulla che potesse rivestire, nei terribili frangenti in cui ero, minore importanza che le dimensioni della segreta. Epperò l'animo mio prendeva un profondo interesse per consimili futilità ed io non mi diedi pace fintantoché non ebbi trovato la ragione dell'errore commesso nell'assumere quelle misure. Quella ragione mi balenò alla mente improvvisa: durante il mio primo tentativo d'esplorazione, infatti, fino al momento, cioè, in cui stramazzai a terra, avevo contati cinquantadue passi: dovevo essere stato, allora, a un passo o due dalla striscia di stoffa, e per conseguenza, dovevo aver già compiuto l'intero periplo del carcere. Ma al momento di risvegliarmi, dovevo esser ritornato sui miei passi ed avevo, in tal modo, calcolata una circonferenza quasi doppia di quella reale. La confusione cui era in preda il mio cervello, non m'aveva permesso di osservare che avevo iniziato il mio giro col muro alla mia sinistra, e l'avevo invece terminato col muro alla mia destra.
E ancora mi ero ingannato, per ciò che riguardava l'aspetto dell'ambiente. Nell'avanzare tentoni avevo incontrato parecchi angoli e da ciò avevo dedotto che il carcere doveva avere una pianta del tutto irregolare. Gli angoli - tanto può l'effetto d'una totale oscurità su colui che viene da uno stato letargico! - altro non erano che semplici rientranze, ovvero nicchie, le quali s'aprivano nelle pareti a intervalli regolari. La segreta era quadrata. Ciò che io avevo scambiato per una parete di muro era, invece, una sorta di materia simile al ferro, ovvero a un altro metallo, in enormi lastre, le cui giunture determinavano le rientranze che ho detto sopra. L'intera superficie di quella struttura metallica era rozzamente istoriata di tutti quegli emblemi orribili e ripugnanti alla vista dei quali è soltanto origine la sepolcrale superstizione dei monaci, ed essi rappresentavano dèmoni in atto di minaccia, e scheletri e altre forme e figure più orribili e verosimiglianti. Notai così, che i contorni di quei mostri erano sufficientemente definiti ma che i colori erano, invece alterati e sbiaditi, come se avesse operato, su di essi, l'atmosfera umida del luogo. Anche il pavimento era di pietra e, nel suo centro, s'apriva un pozzo circolare - uno solo - quello medesimo alla cui voragine io ero miracolosamente scampato.
Tutto questo fu veduto, da me, in modo annebbiato e non senza che io operassi un qualche sforzo, da che nel frattempo, la mia posizione era singolarmente cambiata. Nel sonno, infatti, ero stato coricato sul dorso e solidamente legato con una sorta di lunga fascia, su di un basso telaio di legno. La fascia mi s'avvolgeva, più volte, attorno al corpo e lasciava liberi soltanto la testa e il braccio sinistro, sicché io potessi prendere, sebbene a prezzo d'un incredibile sforzo per torcermi, il cibo che era posto accanto a me, sul suolo, in un recipiente.
Rimasi atterrito nell'avvedermi che la brocca era stata tolta.
Atterrito, dico, dal momento ch'io ero divorato da una insoffribile sete. E credo che l'esasperazione di questa fosse calcolata nel piano dei miei persecutori, giacché il piatto che m'era posto accanto, era della carne terribilmente pepata.
Levai gli occhi ad esaminare il soffitto della segreta. Esso era ad un'altezza di trenta o quaranta piedi da me, e costruito in maniera assai somigliante a quella delle mura laterali. In uno degli scomparti vidi dipinta una figura talmente strana che assorbì tutta la mia attenzione: essa rappresentava il Tempo, con tutti gli attributi che sogliono darglisi, eccetto che, invece d'una falce, egli aveva in mano un oggetto che io credetti, a una prima occhiata, un grosso pendolo, simile a quello che posseggono taluni orologi antichi. Nell'aspetto di quell'ordigno, v'era, però, qualcosa che mi costrinse ad esaminarlo più attentamente.
Mentre lo stavo guardando, di sottinsù - poiché esso si trovava proprio sopra di me - mi parve che si muovesse. La sua oscillazione era breve e, com'è naturale, molto lenta. Continuai a guardarlo per alcuni minuti diffidente e stupìto: stanco, in seguito, di quel suo monotono oscillamento, abbassai gli occhi per scoprire gli altri oggetti di quella mia prigione.
Un lieve fruscìo attirò in quel momento la mia attenzione, e buttando un'occhiata sul pavimento, nella direzione da cui proveniva, vidi alcuni sorci giganteschi che lo attraversavano.
Uscivano dal pozzo - del quale potevo vedere la bocca alla mia destra - lesti, a gruppi, con occhietti avidi, stimolati dall'odore della carne. Per tenerli lontani dal recipiente dove questa era conservata dovetti spendere non poco di fatica e d'attenzione.
Era passata una mezz'ora, o forse anche tutt'intera un'ora - dato che io potevo calcolare il tempo solo con grande approssimazione - allorché, nell'alzare gli occhi, vidi tale spettacolo da confondermi e vieppiù meravigliarmi. Il percorso oscillatorio del pendolo era infatti aumentato di una yarda all'incirca. Ne veniva di conseguenza che la velocità del suo moto era aumentata anch'essa. E, sopra ogni altra cosa, ebbe a turbarmi l'impressione che esso fosse disceso, e sensibilmente. Vidi - in preda a quale agghiacciante terrore è inutile che io dica - che la sua estremità inferiore era formata da una lama, da una lucente falce d'acciaio, lunga, da corno a corno, un piede all'incirca, colle punte all'insù e il taglio inferiore affilato come un rasoio. E difatti la falce sembrava massiccia e pesante, come appunto un rasoio, e dal filo si allargava in una struttura ampia e solida. Esso era appeso a una grossa verga di ottone e, nel mentre che oscillava nell'aria della segreta, mandava un orribile fischio.
Non potevo più serbare alcun dubbio sul destino che l'inventiva dei monaci, tanto esperti di torture, m'aveva preparato. Era evidente che gli agenti dell'inquisizione s'erano accorti della scoperta che avevo fatta, del pozzo; il POZZO, del quale avevano divisato di riservare gli orrori a un temerario eresiarca qual'io sono, il POZZO emblema dell'inferno, e che l'opinione considerava come l'ultima Thule di tutti i loro castighi. Un caso fortunato, mi aveva fatto evitare il salto fatale nella sua voragine, ma io sapevo che l'arte di trasformare il supplizio in un continuo agguato, in una snervante successione di sorprese, era tra i canoni fondamentali di tutto quel fantasioso sistema di segrete esecuzioni. Poiché io avevo mancato di precipitar nell'abisso, non rientrava più, nei loro piani, il costringermi a cadervi mediante la forza. Mi attendeva, così, non essendoci alternativa, una morte differente e più mite. Più mite! Mi venne quasi da sorridere, in quella mia agonia, al pensiero di quell'espressione che m'era fiorita nel cervello.
A quale scopo raccontare lunghe, eterne ore d'angoscia più che mortale, durante le quali io non mi stancavo di contare le oscillazioni fischianti dell'acciaio? Pollice per pollice...
frazione per frazione... in una discesa apprezzabile solo a intervalli che mi parevano secoli, esso si abbassava man mano, senza fermarsi, mai, mai...
Trascorsero alcuni giorni - è probabile che fossero anche molti - prima che egli venisse ad oscillare tanto vicino a me da farmi vento col suo alito acre. L'odore dell'acciaio affilato mi s'infilava nelle narici. Io supplicai il cielo, lo stancai con le mie preghiere, perché egli facesse scendere il ferro il più rapidamente possibile. E montai fino a una rabbiosa follia e operai sforzi sovrumani per andare incontro al moto regolare di quell'orribile scimitarra. Finché io non caddi tutt'a un tratto, preda d'una calma vasta e potente, e giacqui, arridendo a quella morte lampeggiante, come un bimbo a un raro balocco.
Una nuova porzione di tempo in totale insensibilità, seguì in breve. Ma fu di corta durata. Com'io ritornai in me, mi accorsi che il pendolo non si era abbassato in misura apprezzabile. E nondimeno la durata del mio assopimento poteva anche essere stata lunga, ma, essendovi alcuni dèmoni a spiarmi, essi avevano sospesa, in quel frattempo, l' oscillazione. Mentr'io riprendevo i sensi, assaporai un malessere, una sensazione di fiacchezza che meglio non so esprimere, pari a quella che mi avrebbe preso dopo un lungo digiuno. Anche in quelle orribili torture, la natura umana chiedeva d'essere sostentata. Allungai, in uno sforzo penoso, il braccio sinistro quanto m'era consentito dai lacci, e tolsi il misero avanzo di cibo che i topi m'avevano lasciato.
Nell'istante che ne recavo alle labbra un boccone, un pensiero d'indistinta gioia, di balenante speranza, m'attraversò in furia il cervello. E nondimeno, cosa poteva esservi ormai di comune, tra la speranza e me? Esso era - l'ho già detto - un pensiero non ben precisato, quale l'uomo, talvolta, assapora, fuggevole, da non vederne con chiarezza il fondo e le ragioni e la natura. Ma compresi che esso era un pensiero di gioia e di speranza, e nel medesimo tempo, che esso era già morto in sul nascere. Tentai di riafferrarlo e di completarlo, ma tutto fu vano. Le interminabili sofferenze cui ero sottoposto, avevano annientate le facoltà che la mia mente aveva d'ordinario: io ero divenuto un completo imbecille, un assoluto idiota.
L'oscillazione del pendolo procedeva in una direzione ad angolo retto con quella della mia lunghezza, ed osservai che la lama era così disposta che avrebbe attraversata la regione del cuore: essa avrebbe dapprima leggermente graffiata la stoffa della mia veste e poi sarebbe di nuovo tornata indietro a ripetere quel debole graffio, e poi di nuovo, e poi ancora... e ancora... e nonostante l'ampiezza dell'oscillazione - la quale s'apriva per una trentina, se non di più, di piedi - e la fischiante forza della sua discesa, la quale sarebbe stata sufficiente anche ad atterrare quelle ferree muraglie, la lama del pendolo non avrebbe potuto far altro, durante alcuni lunghi minuti, che lacerarmi il vestito. M'arrestai a questo pensiero giacché non osavo spingermi oltre. E mi concentrai in quello con ostinazione, come se, arrestandomi a pensare lì, avessi potuto fermare lì anche la lama, nella sua discesa. Io facevo ogni sforzo, per pensare al suono che avrebbe emesso la lama al momento di tagliare il panno della veste, e posi mente ancora al brivido che produce lo sfregamento della stoffa. E non smisi di pensare a tutte queste sciocchezze fintantoché non mi sentii allegare i denti.
Giù... la lama scendeva uniformemente, sempre più giù. Io provavo un piacere spasmodico al paragone che facevo tra la velocità laterale e quella invece dall'alto in basso. A destra, e poi a sinistra, ma alla larga, ma di lontano, mentre urlava e fischiava come un'anima dannata e poi... poi mi veniva rasente al cuore, e aveva, allora, il passo felpato e furtivo della tigre! Io urlavo e ridevo alterno, secondo che una differente immagine mi possedesse il cervello.
Giù... con ineluttabile certezza... sempre più giù! Essa oscillava, ormai a soli tre pollici dal mio petto! Con uno sforzo violento, infuriato, tentai di liberarmi tutt'intero il braccio sinistro che aveva giuoco soltanto dalla mano al gomito, giacché io potevo soltanto portare la mano dal recipiente del cibo fino alla bocca, ma non potevo spingerla oltre. Ove fossi pervenuto a spezzare i lacci al di sopra del gomito, avrei afferrato il pendolo e avrei anche tentato di fermarlo. Ma sarebbe stato lo stesso che fermare una valanga.
Giù... senza fermarsi mai... sempre, inevitabilmente più giù. Io ero soffocato dall'affanno e mi torcevo a ogni vibrazione e mi rattrappivo, come in preda a convulsioni, ad ogni oscillazione.
Gli occhi seguivano disperati il pendolo nel suo modo ascendente e discendente, vanamente smaniando. Essi si chiudevano in uno spasimo al momento della discesa; e quantunque la morte sarebbe stata un sollievo - oh, quale incredibile sollievo! - io tremavo in ogni mia fibra nel mentre che calcolavo quale minimo abbassamento della macchina sarebbe stato sufficiente a precipitarmi sul petto quell'ascia affilata e lucente. Ed era la SPERANZA a farmi tremare in ogni mia fibra, a farmi trarre indietro con tutto l'essere mio. Ed era la SPERANZA, la quale trionfa anche sul patibolo e discorre all'orecchio dei condannati a morte fin nelle segrete dell'Inquisizione.
Notai, infine, che sarebbero occorse soltanto dieci o dodici oscillazioni, perché l'acciaio venisse a contatto col mio vestito e, con tale considerazione, mi penetrò, nell'animo, la calma spietata e gremita dei disperati. E per la prima volta dopo molte ore, dopo molti giorni, forse, io PENSAI. Ero legato con una fascia di un solo, unico pezzo. Su qualsiasi parte della legatura fosse piombato, il primo colpo della falce l'avrebbe senza dubbio allentata; e sarebbe stato possibile allora, alla mia mano sinistra, di svolgerla del tutto dal mio corpo? E nondimeno pensai come sarebbe diventata pericolosa, in tal caso, la vicinanza dell'acciaio. La minima scossa avrebbe potuto essere fatale. Ed era possibile che gli inventori e agenti del supplizio non avessero preveduto e quindi anche provveduto acciocché quella possibilità non si potesse dare? E la fascia, mi attraversava, essa, nel punto in cui il pendolo avrebbe percorso la mia persona?
Nel timore di vedermi sparire anche quella debole ultima - come poteva essere, se non l'ultima? - speranza, io levai la testa tanto che potessi vedere chiaramente sul mio petto. E vidi che la fascia mi legava le membra e il corpo in tutti i sensi, TRANNE CHE NEL PERCORSO DELLA FALCE DISTRUTTRICE.
Avevo appena lasciato ricadere il capo nella posizione in cui esso era, prima che m'attraversasse la mente quel ch'io non saprei definire se non l'altra metà del pensiero indefinito di liberazione che ho già richiamato di sopra, e del quale mi era balenata prima una sola metà, mentre portavo il cibo alle labbra che mi ardevano. Ora era presente, invece, l'idea nella sua interezza - un po' confusa, ragionevolmente appena, appena definita - ma intera. Così che io mi posi immediatamente, e con la nervosa energia della disperazione, a tentare di metterla in atto.
Il suolo attorno al tavolato sul quale ero disteso, formicolava di topi. Essi erano eccitati, audaci, affamati, e i loro occhietti rossi erano fissi su di me quasi che non attendessero altro che la mia immobilità perché io divenissi loro preda. "A qual cibo sono stati abituati in quel pozzo!" dissi tra me.
Nonostante tutti i miei sforzi per impedirglielo, essi avevano divorato tutt'intero, salvo un piccolissimo resto, il mio cibo. La mia mano aveva contratto una sorta d'abituale movimento d'andirivieni verso il piatto, e la incosciente e meccanica uniformità del movimento le aveva tolta ogni efficacia. Le immonde bestie, per la loro voracità... mi ficcavano spesso i loro dentini aguzzi nelle dita ma intanto, con i resti della carne unta e piccante, io stropicciai forte la legatura fin dove potessi arrivare. Ritirai, poi, la mano dal suolo e restai immobile, trattenendo quasi il fiato.
Le voraci bestie furono dapprima spaventate dal mutamento, dall'improvviso stare dei movimenti della mia persona, e indietreggiarono come in allarme, e molti, anzi, se ne tornarono dentro al pozzo. Ma ciò fu per un solo istante. Né avevo fatti vani calcoli sulla loro voracità. Poiché io restavo immobile, qualcuno, più ardito degli altri, saltò sul telaio e annusò la fascia che mi teneva. Parve che quello fosse come un segnale prestabilito per una invasione generale. Altri sorci si precipitarono, in quella, fuori della gola del pozzo.
S'attaccarono al legno, gli diedero la scalata e saltarono sul mio corpo a centinaia. Il movimento regolare del pendolo sembrava che non li molestasse affatto. Essi evitavano i suoi colpi e lavoravano con lena sulla fascia unta. E si spingevano, intanto, brulicavano, e si stipavano di continuo su di me. Si divincolavano sulla mia gola: le loro labbra gelate venivano in cerca delle mie, così che io ero a metà soffocato dalla loro pesante pressione, nel mentre che un ribrezzo innominabile mi sollevava il petto, ed un gelo inesorabile m'agghiacciava il cuore.
Io sentivo, però, che tra qualche momento, la lotta sarebbe finita. Sentivo, infatti, distintamente, senza che potessi avere dei dubbi, che la fascia si stava allentando. Sentivo che essa era già stracciata in qualche punto. E con una fermezza più che umana, mi mantenevo IMMOBILE. I miei calcoli non erano sbagliati. Non era stato invano che io avevo sofferto una tal pena. Sentii, infine, CHE IO ERO LIBERO. La fascia pendeva, a grosse bande, dal mio corpo. Ma il pendolo aveva già sfiorato il mio petto, aveva già lacerata le mia veste. Aveva raggiunta e tagliata anche la camicia. Esso fece due oscillazioni nel mentre che un dolore estremamente acuto mi fece vibrare ogni diramazione del sistema nervoso. Ma l'istante della mia liberazione era giunto. A un gesto che io feci, al momento giusto, con la mano, i miei liberatori se ne fuggirono, a torme, per ogni dove. Con un moto calmo, ma fermo e risoluto - lento, obliquo, arretrando - scivolai dalla stretta morsa delle fasce, lungi dal taglio della falce. Per il momento, almeno, IO ERO LIBERO.
Libero e, insieme, negli artigli dell'Inquisizione! Ero appena disceso dal mio letto d'orrore sull'impiantito della segreta, allorché il moto dell'infernale macchina s'arrestò di colpo, ed io la vidi attratta su da una forza invisibile, verso il soffitto.
Quell'ammonimento mi ripiombò nella più cieca disperazione. Ogni mio movimento era spiato; non poteva esservi più alcun dubbio in proposito. Libero! Oh! io ero sfuggito alla morte attraverso una orribile forma d'agonia, soltanto per essere votato a qualcosa di peggiore che non fosse la morte, a prezzo di un'altra. A tal pensiero, io guardai attorno alle lastre di ferro che m'imprigionavano. E così mi accorsi che un qualche strano cambiamento era avvenuto nella disposizione di esse. Durante alcuni lunghi minuti mi persi, così, dietro astrazioni fantastiche e in supposizioni che mi diedero un brivido sottile. Fu in quei momenti, infatti, che mi accorsi, per la prima volta, da dove provenisse la luce sulfurea che rischiarava la cella. Essa era originata da una fessura non più larga d'un mezzo pollice, la quale girava attorno attorno alla base delle pareti della segreta, le quali, a quel modo, apparivano e lo erano, difatti, completamente staccate dal suolo. Tentai di guardare attraverso quella fessura ma, come si può facilmente supporre, non riuscii a veder nulla.
Nell'atto che feci per rialzarmi, il mistero del mutamento avvenuto nella cella mi si disvelò tutt'assieme. Ho già detto che i colori delle figure sulle pareti, benché i contorni ne fossero distinti, apparivano confusi e imprecisi. Questi colori avevano assunto e sempre più andavano assumendo, un abbagliante e intenso splendore, il quale dava un aspetto a quelle fantasiose e demoniache figurazioni che avrebbe scosso un sistema nervoso ben più saldo del mio. Le occhiate di innumerevoli demoni convergevano su di me e mi guardavano con una vivacità sinistra da tutte le direzioni - di là dove prima non c'era che tenebra fonda - e splendevano della lugubre fiamma d'un incendio ch'io tentai inutilmente di supporre irreale.
IRREALE! Non mi veniva forse, nell'atto di respirare, il puzzo del ferro rovente alle narici? Un soffocante vapore si sparse allora per la segreta, mentre un puzzo più intenso si sprigionava da quegli innumerevoli occhi fissi sulla mia agonia. Ma quei dipinti erano fatti col sangue, e risplendevano nei suoi grumi! Io affannavo e ricercavo disperatamente il fiato. Sulle intenzioni dei miei carnefici non c'era, ormai, più alcun dubbio. I più irriducibili, i più demoniaci degli uomini! Mi ritrassi dal metallo che ardeva, verso il centro della cella. Al pensiero dell'incendio che mi aspettava, l'idea della frescura, per contro, del pozzo, mi scese nell'anima come un balsamo. Accorsi al suo orlo fatale ed aguzzai lo sguardo nelle sue profondità. La luce su per la volta infiammata rifletteva nei suoi più segreti recessi. E nondimeno, per il mancamento d'un istante, il mio cervello si rifiutò di capire quel che vedeva. La visione, quindi, a forza, penetrò nell'animo e si stampò a caratteri di fuoco sulla mia ragione che vacillava. Oh, datemi la voce! Datemi la voce ch'io possa parlare! Orrore! Qualunque orrore piuttosto che quello! Con un urlo balzai lungi dalla gola del pozzo e mi nascosi il volto tra le mani. E amaramente piansi.
Il calore, intanto, cresceva e cresceva. Guardai verso l'alto un'ultima volta e rabbrividii come per un accesso di febbre. Un nuovo mutamento era intervenuto nella segreta e riguardava, questa volta, la sua FORMA. Come prima, mi sforzai, invano, dapprincipio, di capirne il senso. Ma non dovevo rimanere troppo a lungo nel dubbio. La vendetta dell'Inquisizione era stata affrettata dallo studio stesso che io avevo messo nell'evitarla. Non m'era più concesso, ora, di prendere a scherzo il Re medesimo dei Terrori.
L'ambiente era quadrato, prima. Ora vedevo chiaramente che esso aveva due angoli acuti e, per contro, due ottusi. La terrificante differenza aumentava... aumentava con feroce rapidità, e nel contempo udivo un sordo lagno, un cupo borbottare. In un istante la cella aveva mutato la forma in quella d'una losanga. Ma la trasformazione non s'arrestò a questo. Ed io non desideravo né speravo che vi si arrestasse. Avrei voluto stringermi al petto le mura infuocate come se fossero state una veste acconcia alla mia eterna pace. La morte! Qualunque morte, ripetei a me stesso, ma non quella del pozzo! Stolto ch'io ero! Perché non capivo ch'era proprio nel POZZO che quelle pareti di fuoco volevano spingermi? E la losanga, nel mentre, si stringeva sempre di più e con tale rapidità che non m'era concesso il tempo per pensare. Il suo punto centrale, naturalmente, ove avesse raggiunta la sua maggiore larghezza, coincideva con il pozzo. Indietreggiai, ma le pareti mi respingevano, senza tuttavia toccarmi, sempre più irresistibilmente in avanti. E arrivò l'istante in cui il mio corpo arso e convulso non ebbe più luogo per i propri piedi, sul pavimento della segreta. Io non lottavo più e la mia anima agonizzante parve esalarsi in un supremo urlo di disperazione!
Sentivo che stavo vacillando sull'orlo! Voltai gli occhi...
Ed ecco un rimbombo lontano e discorde di voci umane. Ed ecco uno scoppio, come lo squillo di una moltitudine di tube insieme. Ed ecco l'aspro rollar di mille tuoni. E le mura incandescenti si ritrassero spegnendosi, lente. E un braccio afferrò il mio in una morsa di ferro nell'istante in cui stavo per precipitare svenuto nell'abisso. Era il braccio del generale Lassalle. L'esercito francese era entrato in Toledo. L'Inquisizione era alla mercè dei suoi nemici.
Il gatto nero
Per la narrazione stravagantissima eppure quanto mai domestica che sono sul punto di vergare, non mi aspetto né sollecito né fede.
Pazzo sarei davvero ad aspettarmela, in un caso in cui i miei sensi stessi respingono la propria testimonianza. Eppure non sono un pazzo, e con ogni certezza non sogno. Ma domani muoio, e oggi vorrei togliermi dall'anima un gran peso. Il mio scopo immediato è di mettere a conoscenza del mondo, in modo semplice e succinto, e senza commenti, una serie di puri avvenimenti casalinghi. Nelle conseguenze avute, questi avvenimenti mi hanno atterrito, torturato, distrutto. Ma non mi proverò a esporle. In me hanno destato non altro che orrore; a molti parranno meno terribili dei grotteschi da baraccone. D'ora in poi, forse, si troverà qualche intelletto più calmo, più logico e assai meno eccitabile del mio, che nelle circostanze da me specificate con tanta paura non vedrà nulla di più di un'ordinaria successione di cause ed effetti normalissimi.
Sin dall'infanzia mi feci notare per la mia indole docile e umana.
La mia tenerezza di cuore era anzi così spinta da fare di me lo zimbello dei miei compagni. Avevo un particolare attaccamento per gli animali, e i miei genitori mi assecondavano regalandomi una gran quantità di bestiole addomesticate. Con queste passavo la maggior parte del mio tempo, e non ero mai così felice come quando le cibavo o accarezzavo. Questo tratto peculiare del mio carattere andò crescendo in me col crescere della mia persona, e giunto che fui a virilità divenne per me una delle principali fonti di piacere. A chi abbia nutrito affetto per un cane fedele e sagace, non ho certo bisogno di affannarmi a spiegare natura o intensità della soddisfazione così procurabile. Nell'amore disinteressato e generoso di una bestia c'è qualcosa che va diritto al cuore di chi ha avuto frequenti occasioni di mettere alla prova la dozzinale amicizia e labile fedeltà del semplice UOMO.
Io mi sposai presto, e fui lieto di trovare in mia moglie un'indole non aliena dalla mia. Osservando la mia predilezione per gli animali da casa e da salotto, non perdeva occasione di procurarmi quelli delle specie più piacevoli. Avemmo così uccelli, pesci dorati, un cane di razza, conigli, una scimmietta e un GATTO.
Quest'ultimo era un animale di notevoli proporzioni e bellezza, tutto nero e dotato di intelligenza sbalorditiva. A tale proposito, mia moglie, incline in cuor suo alla superstizione, faceva continue allusioni all'inveterata credenza popolare che considera tutti i gatti neri streghe travestite. Non che prendesse mai tale idea SUL SERIO, e se io ne parlo adesso è soltanto perché mi è capitato di ricordarmene.
Pluto - era questo il nome del gatto - era il mio animaletto favorito e compagno di giochi. Io solo gli davo da mangiare, e lui mi seguiva dovunque mi recassi in casa. A stento anzi riuscivo ad impedirgli di seguirmi per le strade.
In questo modo la nostra amicizia durò parecchi anni, durante i quali (e arrossisco al confessarlo) temperamento e carattere ebbero a subire in me - sotto l'azione del Dèmone Intemperanza - un radicale peggioramento. Di giorno in giorno mi facevo più lunatico, più irritabile, più irriguardoso per i sentimenti degli altri. Mi lasciavo andare a espressioni scorrette verso mia moglie; e finii per usarle violenza materiale. Naturalmente i miei favoriti risentirono del mutamento d'animo: poiché non soltanto li trascuravo, ma li maltrattavo. Per Pluto però serbavo ancora tanto riguardo da frenarmi in fatto di maltrattamenti, mentre non mi facevo scrupolo alcuno di maltrattare i conigli, la scimmia o anche il cane quando il caso o l'affetto me li mettevano tra i piedi. Ma la mia malattia si aggravò - quale mai malattia è pari all'Alcool? - e infine anche Pluto, che invecchiando si andava facendo un po' petulante, anche Pluto cominciò a provare gli effetti del mio malumore.
Una sera, rincasando in preda a forte ubriachezza da uno dei locali che frequentavo in città, credetti di notare che il gatto mi evitava. Lo afferrai; e allora, spaventato della mia violenza, esso mi ferì lievemente alla mano con un morso. Si impadronì subito di me una furia demoniaca. Non mi riconoscevo più. Sembrava che l'anima mia originaria fosse fuggita via dal corpo; e una malignità più che diabolica, accesa dal gin, mi fece vibrare in ogni fibra. Estrassi un temperino dal taschino del panciotto, lo aprii, ghermii la povera bestiola per la gola e con la lama deliberatamente le cavai un occhio dall'orbita! Arrossisco, brucio, rabbrividisco al mettere per iscritto quest'infame atrocità.
Quando la ragione ritornò al mattino - svaporati nel sonno i fumi dell'orgia notturna - provai un senso misto d'orrore e rimorso per il delitto di cui mi ero macchiato; ma era tutt'al più un sentimento debole ed equivoco, e l'anima non ne fu sfiorata. Di nuovo mi buttai agli eccessi, e ben presto affogai nel vino ogni ricordo del mio atto.
Frattanto il gatto pian piano guarì. L'orbita vuota del suo occhio, è vero, era spaventosa a vedersi, ma ogni dolore fisico sembrava scomparso. L'animale girava per casa come al solito, ma logicamente fuggiva terrorizzato al mio avvicinarsi. Tanto mi rimaneva ancora dell'antico cuore, che a tutta prima mi afflisse questa evidente antipatia da parte di una creatura che mi aveva voluto così bene. Ma questo sentimento cedette ben presto all'irritazione. E poi, quasi a mia definitiva e irrevocabile rovina, sopraggiunse lo spirito della PERVERSITA'. Di questo spirito la filosofia non tiene conto alcuno. Eppure, quanto sono certo che l'anima mia vive, sono sicuro che la perversità sia fra gli impulsi primitivi del cuore umano una delle invisibili facoltà primarie, o sentimenti, che imprimono un indirizzo al carattere dell'Uomo. A chi mai non è capitato cento volte di commettere un'azione vile o insulsa per la sola ragione che sapeva di NON doverla commettere? Non abbiamo noi la perpetua inclinazione, a dispetto del nostro miglior giudizio, di violare ciò che è LEGGE solo perché tale la riconosciamo? Questo spirito di perversità, dico, venne a rovinarmi per sempre. Fu questa insondabile brama dell'anima di DANNEGGIARE SE STESSA, di far violenza alla propria natura, di commettere il male per il male, che mi spinse a continuare e poi portare a compimento la tortura da me inflitta alla bestiola innocente. Una mattina, a sangue freddo, le infilai un cappio al collo e la impiccai a un ramo d'albero; la impiccai con gli occhi pieni di lacrime e col più amaro rimorso in cuore, la impiccai PERCHE' sapevo che non mi aveva fatto nulla di male; la impiccai PERCHE', sapevo che così facendo commettevo un peccato, un peccato mortale che avrebbe compromesso l'anima mia indistruttibile fino al punto di porla - se ciò fosse possibile - fin oltre la portata dell'infinita misericordia del Dio di pietà e terrore.
La notte della giornata in cui commisi quest'atto crudele, mi svegliò dal sonno il grido: "Al fuoco!". I tendaggi del mio letto erano in fiamme. La casa divampava tutta. Fu a stento che mia moglie, una domestica ed io sfuggimmo all'incendio. La distruzione fu completa. Tutta la mia sostanza fu divorata, e da allora in poi mi rassegnai alla disperazione.
Io sono superiore alla debolezza di voler assodare una susseguenza di causa ed effetto fra il disastro e l'atrocità. Ma ora sto specificando una catena di fatti, e non voglio trascurarne possibilmente nemmeno un anello. All'indomani dell'incendio, perlustrai le macerie. I muri, a eccezione di uno solo, erano crollati; e tale eccezione consisteva in un muro divisorio, non molto spesso, che sorgeva circa nel mezzo della casa. Contro di esso poggiava a suo tempo la testata del mio letto; e qui l'intonaco resistette in gran parte all'azione del fuoco, fatto che attribuii alla data recente in cui era stato tinteggiato.
Intorno a questo muro si era radunata una fitta folla, e molte persone mostravano di esaminarne una certa parte con attenzione minuta e assai intensa. Le parole "strano!", "singolare!" e altre del genere eccitarono la mia curiosità. Mi avvicinai e vidi, quasi scolpita a bassorilievo sulla bianca superficie, la figura di un gigantesco GATTO. L'impressione era così precisa che aveva del meraviglioso. L'animale aveva una corda al collo.
Al primo scorgere quest'apparizione - poiché non potevo considerarla da meno - meraviglia e terrore furono in me estremi.
Ma infine la riflessione mi venne in aiuto. Il gatto, ricordai, era stato impiccato in un giardino adiacente alla casa.
All'allarme dell'incendio, questo giardino era stato subito invaso dalla folla e alcuni dei suoi componenti dovevano aver staccato l'animale dall'albero per gettarlo, attraverso una finestra aperta, in camera mia. Questo, probabilmente, per svegliare me. Il crollo di altri muri aveva spiaccicato la vittima della mia crudeltà contro la parete, sino a impregnarne l'intonaco fresco; e poi la calcina sotto l'azione delle fiamme, combinata con l'ammoniaca della carogna, aveva creato l'effige come la vidi io.
Sebbene così spiegassi prontamente alla mia ragione, se non proprio alla mia coscienza, lo strabiliante fatto appena descritto, esso non mancò di fare profonda impressione alla mia fantasia. Per mesi e mesi non potei liberarmi del fantasma del gatto; e in questo periodo riaffiorò nel mio spirito un sentimento che sembrava, e non era, rimorso. Giunsi a rimpiangere la perdita dell'animaletto, e a guardarmi intorno, nei locali innominabili che ora abitualmente frequentavo, per cercarne un altro della sua stessa specie, e di aspetto più o meno simile, con cui sostituirlo.
Una sera, mentre sedevo mezzo intontito in una sentina d'infamia, la mia attenzione fu improvvisamente attirata da un certo oggetto nero, adagiato in cima a una delle immense botti di gin e rum che costituivano la mobilia quasi esclusiva del locale. Da vari minuti fissavo la cima di questa botte, e la mia sorpresa scaturì dal fatto che non avessi scorto prima l'oggetto sovrastante. Mi accostai e lo toccai. Era un gatto nero molto grosso; grosso quanto Pluto, e a lui somigliantissimo per ogni verso, tranne uno.
Pluto non aveva un solo pelo bianco; ma questo gatto aveva una estesa benché indefinita chiazza bianca che gli copriva quasi per intero il petto.
Al contatto della mia mano, esso subito si alzò, facendo sonoramente le fusa, mi si soffregò contro, e apparve arcicontento della mia attenzione. Era dunque proprio questa la creatura di cui andavo in cerca. Proposi subito l'acquisto al padrone del locale, ma costui non rivendicò alcun diritto - non ne sapeva nulla - non l'aveva mai visto prima.
Io continuai a far carezze, e quando mi accinsi a rincasare l'animale si mostrò desideroso di accompagnarmi. Glielo permisi senz'altro; e ogni tanto mi chinavo a coccolarlo strada facendo.
Quando esso raggiunse la casa, vi si ambientò subito, e divenne là per là un grande favorito di mia moglie.
Per parte mia, mi sentii ben presto nascere antipatia nei suoi riguardi. Era proprio l'inverso di quanto avevo previsto; ma - non so come o perché avvenisse - il suo evidente affetto per me non faceva che disgustarmi e seccarmi. A poco a poco, questi sentimenti ostili assursero all'asprezza dell'odio. Mi diedi a evitare l'animaletto; un certo senso di vergogna e il ricordo del mio precedente atto di crudeltà mi impedivano di fargli del male fisico. Per varie settimane mi astenni dal colpirlo o arrecargli comunque violenza; ma a lenti gradi - insensibilmente - giunsi a considerarlo con aborrimento inesprimibile e a fuggirne in silenzio l'odiosa presenza, come un fiato di peste.
Ciò che senza dubbio rinfocolò in me l'odio per la bestiola fu il fatto di scoprire, la mattina dopo che l'ebbi portato a casa, che al pari di Pluto anch'essa era stata privata di un occhio.
Tuttavia tale circostanza non fece altro che renderla più cara a mia moglie, la quale, come ho già detto, possedeva ad alto grado quell'umanità di sentimenti che era stata una volta il mio tratto caratteristico, e mi aveva procurato i piaceri più semplici e puri.
Ma con la mia avversione per questo gatto sembrava aumentare di pari passo la sua predilezione per me. Seguiva i miei passi con una tenacia che sarebbe arduo far comprendere al lettore. Dovunque sedessi, si accoccolava sotto la mia sedia o mi saltava sulle ginocchia, coprendomi delle sue aborrite carezze. Se mi alzavo per camminare, mi si metteva tra i piedi rischiando così di farmi ruzzolare, oppure mi piantava nel vestito gli artigli lunghi e aguzzi per arrampicarmisi sul petto. E allora, pur sentendo la voglia di ucciderlo sul colpo, mi trattenevo dal farlo, in parte per il ricordo del mio vecchio crimine, ma soprattutto - sarò sincero - per un'invincibile PAURA che la bestia mi incuteva.
Non era proprio una paura di mali fisici: eppure non saprei altrimenti come definirla. Quasi mi vergogno di ammettere, sì, anche in questa cella da criminale, mi vergogno quasi di ammetterlo che il terrore e l'orrore suscitati in me dall'animale avevano trovato incentivo in una delle più folli chimere immaginabili. Più di una volta mia moglie aveva richiamato la mia attenzione sul carattere della chiazza di peli bianchi di cui ho parlato, e che costituiva l'unica differenza visibile fra la strana bestia e quella da me massacrata.
Il lettore ricorderà che questa chiazza, sebbene estesa, era in origine assai indefinita; ma passo passo - a gradi quasi impercettibili, che per molto tempo la mia ragione si adoperò a respingere come fantasia bizzarra - aveva finito per assumere una rigorosa nettezza di contorni. Era adesso la raffigurazione di un oggetto che rabbrividisco a nominare - e per questo soprattutto aborrivo e temevo il mostro, e me ne sarei sbarazzato SE AVESSI OSATO - era adesso, dico, l'immagine di una cosa orrenda, malaugurata: della FORCA! Oh, luttuoso e terribile meccanismo di Orrore e Delitto, di Agonia e Morte!
E ora davvero ero disperato di una disperazione che la semplice Umanità non conosce. Ed era UN ESSERE BRUTO a ordirmi: a ME, uomo fatto a immagine di Dio, tanto insopportabile affanno! Ahimè! né di giorno né di notte conobbi più la benedizione del riposo! Di giorno l'animale non mi lasciava solo un momento, e di notte mi svegliavo di soprassalto da sogni di indicibile paura per trovarmi sulla faccia l'alito caldo della bestia, e il suo gran peso, un Incubo incarnato che non mi potevo scuotere di dosso, gravante per sempre sul MIO CUORE. Sotto la pressione di tormenti come questi, il fioco residuo di bene che avevo in me finì per soccombere.
Pensieri malvagi divennero i soli abitatori della mia intimità; i più neri e malvagi. Il mio temperamento già così lunatico si acuì fino a odiare tutto e tutti; mentre i repentini, frequenti e incontrollabili scoppi di una furia alla quale mi abbandonavo ora ciecamente trovavano, ahimè, in mia moglie, aliena com'era da lamentele, la vittima più consueta e paziente.
Un giorno essa mi accompagnò, per qualche faccenda domestica, nella cantina del vecchio edificio che la povertà ci costringeva ad abitare. Il gatto mi seguì per le ripide scale, e facendomi quasi capitombolare mi esasperò fino alla follia. Brandendo alta un'ascia, e scordando nella collera il timore infantile che mi aveva finora fermato la mano, vibrai all'animaletto un colpo che certo gli sarebbe risultato istantaneamente fatale se fosse calato come volevo io. Ma questo colpo fu arrestato dalla mano di mia moglie. Aizzato dalla sua interferenza a una rabbia più che demoniaca, liberai il braccio dalla sua presa e le affondai l'ascia nel cervello. Cadde morta sul posto senza un gemito.
Compiuto questo orribile assassinio, mi accinsi seduta stante, e con piena coscienza, all'impresa di occultare il cadavere. Sapevo bene di non poterlo asportare dalla casa, di giorno o di notte, senza il rischio di essere osservato dai vicini. Molti disegni mi affollarono la mente. A un dato momento pensai di tagliare il cadavere in minuti pezzi e distruggerli col fuoco. Poi invece decisi di scavargli una tomba nel pavimento della cantina. Ancora, ventilai tra me e me l'idea di gettarlo nel pozzo del cortile, di imballarlo in una cassa come fosse una merce qualsiasi, con le solite formalità, e chiamare un facchino che lo portasse via.
Infine mi balenò un espediente che consideravo molto migliore di questi. Decisi di murarlo in cantina, come si vuole che i monaci medioevali murassero le loro vittime.
A uno scopo simile la cantina si prestava benissimo. Aveva muri poco compatti, e il rozzo intonaco di cui erano stati recentemente spalmati da cima a fondo non aveva potuto indurirsi per via dell'atmosfera umida. Inoltre una parete presentava una sporgenza, dovuta a un falso camino o focolare, che era stata riempita così da assomigliare al resto della cantina. Non dubitai minimamente di poter smuovere i mattoni in questo punto per poi inserirvi il cadavere e murare tutto come prima in modo che occhio umano non riuscisse a scoprirvi indizio alcuno.
E in tale calcolo non mi ingannavo. Mediante una grossa sbarra di ferro sloggiai facilmente i mattoni, e deposto attentamente il corpo contro la parete interna ve lo rizzai in tale posizione, mentre con poca fatica rimisi tutto a posto come prima.
Procuratomi un po' di calcina, sabbia e pelo, con ogni precauzione possibile, preparai un intonaco indistinguibile dal vecchio, e con esso diedi una passata meticolosa all'ammattonato nuovo.
Quand'ebbi finito, mi sentii sicuro che tutto andava bene. Il muro non dava il minimo segno di ritocco. La spazzatura fu raccolta da terra con la massima cura possibile. Mi guardai attorno con aria trionfante, e mi dissi: "Qui almeno la mia fatica non è stata vana".
Il passo successivo fu di cercare la bestia che aveva provocato tanta malvagità; poiché mi ero infine fermamente deciso a metterla a morte. Se avessi potuto incontrarla al momento, sul suo destino non avrebbero potuto esserci dubbi; ma a quanto pareva lo scaltro animale si era allarmato della mia violenta collera precedente, e con l'umore che avevo adesso si guardava bene dal farsi vivo.
Impossibile descrivere o immaginare il profondo, beato senso di sollievo che l'assenza dell'odiato animale mi suscitò in petto.
Non comparve durante la notte e così per una notte almeno, dacché era entrato in casa, io dormii saporitamente e tranquillo; sì, DORMII pur col fardello dell'omicidio sull'anima.
Passarono il secondo giorno e il terzo, e ancora non si vedeva il mio tormentatore. Ancora una volta respirai da uomo libero. Il mostro, terrorizzato, era fuggito per sempre da casa mia! Non l'avrei rivisto più! La mia felicità era suprema! Ben poco mi turbava la colpa del mio misfatto. Si erano fatte alcune indagini, ma avevano ricevuto pronta risposta. Era stata predisposta anche una perquisizione, ma naturalmente nulla si poteva scoprire.
Guardai alla mia felicità futura come cosa assicurata.
Il quarto giorno dell'assassinio, venne in casa senza preavviso una squadra di poliziotti, che procedettero a una nuova rigorosa investigazione dei locali. Sicuro però dell'introvabile nascondiglio che avevo prescelto, non provavo il minimo imbarazzo.
I funzionari mi ordinarono di accompagnarli nella perquisizione.
Non lasciarono inesplorato nessuna nicchia o angolo. Finalmente, per la terza o quarta volta, scesero in cantina. In me non tremava un muscolo. Il cuore mi batteva calmo come quello di chi dorma un sonno innocente. Percorsi la cantina da un capo all'altro. Mi ripiegai le braccia sul petto, e girellai disinvolto. Quelli della polizia erano più che convinti, e si disposero ad andarsene. La gioia era troppo forte perché potessi contenerla. Smaniavo dalla voglia di dire almeno una parola, in segno di trionfo, e raddoppiare in loro la certezza della mia innocenza.
"Signori," dissi alfine, mentre il gruppo risaliva le scale, "sono felice di aver placato i vostri sospetti. Vi auguro salute e un po' più di cortesia. Tra parentesi, signori miei, questa, questa è una casa molto ben costruita," (nella smania di buttar là parole disinvolte, non sapevo quasi che cosa dicessi), "direi anzi una casa costruita in maniera ECCELLENTE. Questi muri - ve ne andate, signori? - questi muri sono solidamente fabbricati"; e qui, per pura frenesia di fare una bravata, picchiai forte con un bastone che avevo in mano proprio su quella parte dell'ammattonato che dietro di sé celava il cadavere della mia povera moglie.
Ma possa Iddio proteggermi e salvarmi dalle zanne dell'Arcidiavolo! Il riverbero dei miei colpi si era appena smorzato, che mi rispose una voce dall'interno della tomba; con un grido dapprima attutito e rotto come il singhiozzo di un bimbo, e poi rapidamente acuito fino a diventare un lungo urlo sonoro e ininterrotto, assolutamente anomalo e inumano: un ululato, un grido lamentoso, metà d'orrore e metà di trionfo, come avrebbe potuto sorgere solo dall'inferno, dalle gole dei dannati nel loro spasimo congiunto all'esultanza dei demoni.
Dei miei pensieri è follia parlare. Svenendo, barcollai per andare ad appoggiarmi alla parete opposta. Per un attimo il gruppo di poliziotti sulla scala rimase immobile, in preda a estremo, sacro terrore. Subito dopo una dozzina di braccia vigorose lavoravano al muro, che cadde di schianto. Il cadavere, già putrefatto in gran parte e incrostato di sangue rappreso, apparve eretto agli occhi degli spettatori. Sulla testa, le rosse fauci spalancate e l'occhio singolo in fiamme, si appollaiava la bestia orrenda che con le sue arti mi aveva sedotto all'assassinio e, con la sua voce accusatrice, consegnato al boia. Avevo murato vivo il mostro nella tomba.
La cassa oblunga
Alcuni anni fa prenotai la traversata da Charlestone (nella Virginia Meridionale) alla città di New York, sul postale ' Indipendenza ', comandato dal capitano Hardy. Avremmo dovuto salpare il quindici del mese di giugno, tempo permettendo. Il quattordici salii a bordo per sistemare alcuni oggetti nella mia cabina.
Là venni a sapere che avremmo avuto a bordo moltissimi passeggeri fra cui un gran numero di signore.
Nell'elenco le persone di mia conoscenza erano parecchie e, fra gli altri nomi, fui lieto di scoprire quello di Mister Cornelio Wyatt, un giovane artista, per il quale nutrivo sentimenti di profonda amicizia; era stato mio compagno di studi all'Università di C., dove eravamo sempre insieme. Aveva il vero temperamento del genio, ed era un misto di misantropia, di sensibilità e d'entusiasmo; a tali pregi, poi, univa il cuore più ardente e fedele che abbia mai battuto nel petto di un uomo.
Osservai che tre cabine erano intestate a suo nome, e, scorrendo di nuovo la lista dei passeggeri, vidi che aveva prenotato la traversata per sé, la moglie e due sorelle. Le cabine erano abbastanza spaziose e fornite ciascuna di due lettini, l'uno sopra l'altro. Tali lettini, certo, erano eccessivamente stretti, da non bastare per più di una persona; ma dopo tutto non riuscivo a comprendere come mai, per quattro persone, fossero prenotate tre cabine.
A quell'epoca mi trovavo in una di quelle cupe disposizioni di spirito che rendono un uomo anormalmente curioso d'inezie, e confesso, non senza vergogna, che, intorno a questa storia della cabina in più, feci una gran quantità di grossolane e assurde congetture.
Naturalmente, la cosa non mi riguardava, ma non per questo tentai di risolvere l'enigma con minore ostinazione. Alla fine giunsi ad una conclusione che mi fece meravigliare di non esserci arrivato prima: "Si tratta di una domestica, naturalmente," mi dissi, "come sono stato sciocco a non pensar prima ad una soluzione così ovvia!".
E allora di nuovo guardai la lista, ma vidi chiaramente che nessuna domestica doveva accompagnare il gruppo, anche se, in realtà, in un primo tempo si fosse pensato di condurne una a bordo; infatti le parole "... e domestica" erano state dapprima scritte e poi cancellate.
"Oh! Sarà per i bagagli, certamente," dissi allora a me stesso; "qualche cosa che non desidera sia messo nella stiva, che vorrà tenere sott'occhio - ah, ecco, ci sono! - un dipinto o qualcosa di simile, e questo deve essere l'oggetto che ha contrattato con Niccolino, l'ebreo italiano." Questa idea mi appagò, e, per il momento, calmai la mia curiosità.
Conoscevo benissimo le due sorelle di Wyatt, che erano ragazze graziosissime e intelligentissime. Invece non avevo mai visto sua moglie che egli aveva sposato da poco; l'avevo però sentito parlare di lei con le sue solite maniere entusiastiche e descriverla come una donna di una bellezza, di un'intelligenza e di un'istruzione eccezionali.
Perciò ero veramente curioso di fare la sua conoscenza.
Il giorno in cui visitai la nave (il quattordici del mese), anche Wyatt e la sua compagna la visitavano - così m'informò il capitano - e io rimasi a bordo un'ora in più di quanto avevo stabilito, nella speranza di essere presentato a sua moglie; ma, a questo punto giunse un biglietto di scuse: la signora Wyatt era un poco indisposta e non sarebbe salita a bordo che il giorno dopo, all'ora della partenza.
L'indomani mi stavo recando da casa verso il molo, senonché Hardy m'incontrò e mi disse che "date le circostanze" (una frase stupida, ma comoda), "egli pensava che l'' Indipendenza ' non avrebbe salpato l'àncora per un paio di giorni ancora, e che, quando tutto fosse stato pronto, avrebbe mandato da me qualcuno ad avvertirmi". La cosa mi parve strana, perché spirava dal Sud una brezza costante; ma poiché "le circostanze" non si rivelavano per quanto cercassi con molta perseveranza di farle uscire dal mistero, non mi restò da far altro che tornarmene a casa a digerire la mia impazienza con tutto comodo. Passò circa una settimana senza che ricevessi l'atteso messaggio del capitano.
Alfine giunse e io corsi a bordo immediatamente; vi era una gran folla di passeggeri e da per tutto il trambusto che è la caratteristica della partenza di una nave. Il gruppo dei Wyatt arrivò circa dieci minuti dopo di me; vi erano le due sorelle, la moglie e l'artista, quest'ultimo in una delle sue abituali crisi di misantropia. Ma mi ci ero troppo abituato per prestarvi particolare attenzione. A sua moglie non mi presentò nemmeno, costringendo a tale dovere di cortesia sua sorella Miriam, una ragazza assai gentile e intelligente, che con poche affrettate parole ci fece conoscere.
La signora Wyatt era accuratamente velata; e quando sollevò il velo rispondendo al mio inchino, confesso che rimasi profondamente sorpreso. Ma sarei rimasto sorpreso assai di più se una lunga esperienza non mi avesse consigliato di non credere con troppa fiducia ai grandi entusiasmi del mio amico artista quando si abbandonava alla descrizione della grazia femminile.
Quando il tema era la bellezza, sapevo bene con quale facilità egli si lanciasse nelle regioni del puro idealismo.
La verità è che io non potevo non considerare la signora Wyatt come una donna del tutto comune; se non era proprio brutta, credo che non fosse molto lontana dalla bruttezza. Era vestita, però, con gusto squisito, e poi, ne ero sicuro, doveva essersi cattivato il cuore del mio amico con le grazie più durature dell'intelletto e dell'anima.
Non disse che poche parole ed entrò subito nella sua cabina con il signor Wyatt.
A questo punto si risvegliava il mio spirito inquisitivo. Non vi era alcuna domestica; questo era un fatto ormai accertato; perciò mi diedi a cercare i bagagli in soprannumero. Dopo qualche tempo, giunse al molo un carro con sopra una cassa di pino oblunga che sembrava fosse l'unica cosa che si attendesse dato che, dopo il suo arrivo, salpammo e, in breve, uscimmo dal porto diretti al largo.
La cassa in questione era, come ho detto, oblunga; misurava in lunghezza sei piedi, in larghezza due e mezzo; la osservai attentamente perché mi piace essere esatto. Tale forma invero era ' caratteristica '; e appena l'ebbi vista, mi compiacqui d'aver colto nel segno; ero giunto alla conclusione, come si ricorderà, che i bagagli in soprannumero del mio amico artista sarebbero stati costituiti da quadri, o, almeno, da un quadro; infatti sapevo che aveva trattato per parecchie settimane con Niccolino; e adesso ecco qui una cassa che, a giudicare dalla forma, non poteva contenere, con tutta probabilità, nient'altro che una copia dell''Ultima Cena ' di Leonardo: una copia di questa stessa ' Ultima Cena ', eseguita a Firenze da Rubini il giovane, avevo saputo che era da qualche tempo in possesso di Niccolino. Giudicai quindi che il problema era risolto; pensando all'acume di cui avevo dato prova sogghignai soddisfatto. Era la prima volta che Wyatt mi nascondeva un segreto della sua arte; ma, questa volta, era chiaro che intendeva giocarmi, portando clandestinamente a New York un bel quadro, proprio sotto il mio naso, convinto che io non ne sapessi nulla. Quindi risolsi prima o poi di beffarlo ben bene.
Una cosa però m'imbarazzava un poco; la cassa non era entrata nella cabina in soprannumero, bensì era stata depositata in quella di Wyatt, e là, per di più, rimaneva sul pavimento ingombrando quasi tutta la cabina, senza dubbio con grave incomodo dell'artista e di sua moglie; tanto più che il catrame, o il colore con cui era stata ricoperta di vistose lettere maiuscole, emanava un odore che la mia fantasia mi faceva supporre disgustoso. Sul coperchio erano marcate della parole: "Miss Adelaide Curtis, Albany, New York. Mittente: Cornelio Wyatt, Esq.
Non capovolgere. Fragile".
Io sapevo che Miss Adelaide Curtis di Albany era la madre della moglie dell'artista, ma poi considerai l'indirizzo come un trucco congegnato apposta per me; ed ero naturalmente sicuro che la cassa e il suo contenuto non sarebbero mai andati oltre lo studio del mio amico misantropo, situato in Chambers Street a New York.
I primi tre o quattro giorni il tempo fu bello, quantunque avessimo il vento in prua, poiché, appena perduta di vista la costa, girammo in direzione nord. I passeggeri erano quindi eccitati e socievoli; ma fra essi devo eccettuare Wyatt e le sue sorelle che continuavano a mostrarsi rigidi e (non potevo non pensare) villani verso il resto dei passeggeri. Del comportamento di Wyatt non mi curavo tanto, quantunque fosse assorto anche più del solito, e, anzi, addirittura ' funebre '; alla sua eccentricità ero preparato. Ma per le sorelle non riuscivo a trovare una scusa; durante la maggior parte del viaggio rimasero nelle loro cabine come recluse, e, quantunque le sollecitassi più volte vivamente, rifiutarono ogni contatto con qualsiasi persona che si trovava a bordo. La signora Wyatt dal canto suo era assai più gentile; vale a dire era ciarliera, e a bordo essere ciarlieri non è raccomandazione da poco.
Divenne esageratamente amica della maggior parte delle signore e, con mia profonda meraviglia, mostrò una disposizione inequivocabile a civettare con ' gli uomini '. Ne eravamo tutti assai divertiti: e quasi non so come spiegarmi. La verità è che presto mi accorsi che si rideva molto di più di lei che con lei.
Gli uomini ne parlavano poco; ma le signore, dopo breve tempo, sentenziarono che "era una buona donna, d'aspetto quasi indifferente, maleducata e, senza dubbio, volgare". La grande meraviglia era come mai Wyatt fosse rimasto preso nella trappola di un simile matrimonio.
La ricchezza era per quasi tutti la soluzione del problema, ma io sapevo che non era così poiché Wyatt mi aveva detto che sua moglie non gli aveva portato un dollaro, né aveva speranza di doverne ricevere da qualsiasi fonte.
L'aveva sposata, almeno così m'aveva detto, per amore, soltanto per amore, e di tale amore sua moglie era più che degna. Confesso che, pensando a tali considerazioni da parte del mio amico, mi sentivo indescrivibilmente imbarazzato. Possibile che gli stesse dando di volta il cervello? E che altro avrei potuto pensare? Lui, così raffinato, così intellettuale, così incontentabile; dotato di una percezione così squisita nel cogliere il minimo difetto, di un senso così acuto per la bellezza! Certamente, la signora sembrava avesse per lui un attaccamento speciale - in particolare quando egli era assente - se si rendeva ridicola con l'affermare ogni momento che questo e quest'altro le era stato detto dal "suo amato consorte Mister Wyatt".
La parola ' consorte ' era eternamente, per usare una delle sue delicate espressioni, eternamente sulla punta della sua lingua.
Frattanto, tutti a bordo osservavano che egli la evitava nel modo più palese, e per lo più si rinchiudeva solo nella sua cabina, dove, in realtà, si sarebbe potuto dire che viveva sempre, lasciando a sua moglie piena libertà di divertirsi come meglio credesse in mezzo alla gente che frequentava la sala centrale.
Dopo quanto avevo veduto e udito, la mia conclusione fu che l'artista per qualche capriccio del destino, o forse in un accesso di passione entusiastica e chimerica, si fosse indotto a unirsi a una persona affatto inferiore a lui, e che poi fosse pervenuto alla conseguenza naturale di tutto ciò, un completo e rapido disgusto.
Lo compiangevo con tutto il cuore, ma tuttavia non potevo perdonargli la sua diffidenza per me riguardo all'' Ultima Cena '; per questo, decisi di vendicarmi.
Un giorno egli salì in coperta, ed io, prendendogli un braccio, secondo la mia abitudine, cominciai a passeggiare con lui su e giù; il suo tetro umore però (che consideravo, date le circostanze, affatto naturale) non mi parve migliorato; pronunciò poche parole con accento cupo e con visibile sforzo. Tentai alcune facezie, ed egli fece un debole tentativo di sorridere. Poveretto!
Pensando a ' sua moglie ', mi meravigliavo che avesse il coraggio di fingere addirittura un po' di allegria. Alla fine tentai un attacco diretto; decisi di cominciare con una serie di velate allusioni o insinuazioni intorno alla cassa oblunga, tanto per fargli capire, a poco a poco, che non ero proprio lo zimbello o la vittima del piccolo imbroglio che aveva così ben ordito. La mia prima osservazione fu una specie di scoprimento delle batterie; dissi qualcosa sulla forma singolare di ' quella cassa '; e, così dicendo, ebbi un sorriso d'intesa, e, ammiccando, gli puntai un dito sulle costole.
Il modo in cui Wyatt accolse questa innocua facezia mi convinse, di colpo, che era pazzo: prima mi guardò come se gli fosse impossibile comprendere lo spirito della mia osservazione, ma via via che il significato d'essa sembrava entrargli nel cervello, i suoi occhi parevano protendersi dalle occhiaie; poi si fece scarlatto, quindi spaventosamente pallido, e infine, come se ciò che avevo insinuato lo esilarasse tremendamente, scoppiò in una sonora e violenta risata, che durò, in un continuo crescendo, per una decina di minuti, e mi lasciò completamente sbigottito. Alla fine, cadde pesantemente lungo disteso sul ponte, e quando mi precipitai per rialzarlo, aveva tutto l'aspetto di un ' morto '.
Chiesi aiuto e, con molta difficoltà, riuscimmo a richiamarlo in vita; ma, siccome anche dopo essere tornato in sé, continuava a pronunciare parole incoerenti, gli facemmo un salasso e lo mettemmo a letto. La mattina seguente, le condizioni di salute del corpo erano buone, dello spirito, naturalmente, non posso dire nulla.
Durante il resto della navigazione lo evitai, così mi consigliava il capitano, che condivideva la mia opinione della pazzia del mio amico e che inoltre mi suggerì di non far parola del fatto con nessuno.
Immediatamente dopo tale accesso di Wyatt, si verificarono parecchie circostanze che contribuirono ad accentrare la mia curiosità; e, tra le altre, questa: avendo i nervi eccitati per aver bevuto tè troppo forte che m'impediva di dormire tranquillamente, trascorsi due notti quasi insonni. Ora, la mia cabina dava sulla sala centrale, o stanza da pranzo, come tutte quelle di uomini soli a bordo. Le tre camere di Wyatt facevano parte delle cabine di poppa e dalla sala centrale le separava soltanto una sottile porta che non veniva mai chiusa a chiave neppure di notte. Ora, poiché avevamo il vento con noi e questo era assai forte, la nave s'inclinava notevolmente; e ogni volta che il fianco destro era sottovento, la porta scorrevole si apriva e rimaneva aperta, e nessuno pensava di chiuderla. La mia cuccetta era in posizione tale, che quando la mia cabina era aperta (la lasciavo sempre così per via del caldo) ed era aperta anche la porta scorrevole di cui ho parlato, potevo vedere distintamente in fondo verso poppa e proprio in quella parte dove stavano le cabine del signor Wyatt.
Ebbene, durante le due notti (non consecutive) che rimasi sveglio, vidi chiaramente la signora Wyatt verso le undici uscire cautamente dalla cabina di Wyatt ed entrare in quella in soprannumero dove poi rimase sino allo spuntar del giorno, quando il marito la chiamò per farla tornare da lui. Era dunque chiaro che virtualmente vivevano separati; in attesa di un divorzio più duraturo, occupavano camere separate; questo (pensai) era il mistero della cabina in più.
Vi fu ancora un'altra circostanza che mi interessò moltissimo.
Durante le due notti insonni di cui ho parlato, subito dopo la scomparsa della signora Wyatt nell'altra cabina, fui attirato da certi singolari rumori in quella di suo marito.
Dopo averli ascoltati per qualche tempo con profonda attenzione, alla fine riuscii a spiegarne la natura. Erano i rumori che faceva l'artista aprendo con una leva e un martello la cassa oblunga; i colpi del martello poi, a quanto sembrava, dovevano essere attutiti quasi completamente da qualche sostanza, lana o cotone, che ne avvolgeva la testa.
In tal modo nella mia fantasia distinsi il preciso istante in cui egli sollevava delicatamente il coperchio; credetti perfino di poter determinare il momento in cui lo toglieva del tutto e quello in cui lo posava sul lettino mentre egli cercava di deporvelo piano, non essendovi posto sul pavimento. A ciò fece seguito un silenzio assoluto, e non udii nulla, né la prima né la seconda notte, fin quasi all'alba; eccezion fatta per un lieve suono, come di singhiozzi, o un mormorio così soffocato che era quasi impercettibile, se non era addirittura prodotto dalla mia immaginazione.
Dico che sembrava simile a un singhiozzo o a un sospiro, ma, naturalmente, non poteva essere né l'uno né l'altro e credo dovesse essere piuttosto un ronzio dei miei orecchi. Senza dubbio, Wyatt, secondo il suo solito, stava abbandonandosi a una delle sue ubbie, si lasciava trasportare da uno dei suoi accessi d'entusiasmo artistico; aveva aperto la cassa oblunga per offrire alla propria vista il tesoro che racchiudeva; in questo però non c'era nulla che dovesse farlo ' singhiozzare '.
Ripeto quindi che doveva trattarsi semplicemente di uno scherzo della mia fantasia, sovreccitata dal forte tè del buon capitano Hardy. Poco prima dell'alba, tutte e due le notti, udii distintamente Wyatt rimettere il coperchio della cassa oblunga e piantare i chiodi al loro posto per mezzo del martello imbottito; fatto ciò, egli uscì dalla cabina completamente vestito, e andò a chiamare la signora Wyatt.
Eravamo in navigazione da sette giorni ed ormai a largo di Capo Hatteras, quando un tremendo vento ci assalì.
Eravamo però abbastanza preparati poiché il tempo da qualche giorno era minaccioso. Fu fatto tutto il necessario per affrontare la tempesta, sia sopra che sotto coperta; e siccome il vento aumentava, mettemmo in panna con due mani di terzaruolo alla randa di mezzana e al trinchetto. In tale assetto procedemmo quarantott'ore abbastanza sicuri. La nave si rivelò eccellente sotto molti punti di vista e non imbarcò tanta acqua da doverci preoccupare.
Al termine di tale periodo però, il fortunale era divenuto uragano, e la nostra vela di poppa era ridotta in brandelli; di conseguenza, ci trovammo talmente spesso nel mezzo delle ondate che ricevemmo prodigiosi colpi di mare. In tale accidente perdemmo tre uomini che furono gettati fuori bordo, la cucina e quasi tutto il parapetto di sinistra. Non appena riacquistato l'uso della ragione, prima che la controranda andasse a brandelli, alzammo una vela di stallo di fortuna e con questa reggemmo abbastanza bene alcune ore poiché in tal modo la nave prendeva il mare di prora molto più saldamente di prima.
Tuttavia la tempesta continuava e non dava alcun cenno di smettere. Si trovò che il sartiame era disposto male e molto forzato; e il terzo giorno di vento, verso le cinque del pomeriggio, il nostro albero di mezzana, in una rollata improvvisa più forte, cadde sopra bordo. Per un'ora e più, il rollio della nave frustrò ogni nostro tentativo di liberarci dell'albero e, prima che riuscissimo a farlo, il carpentiere venne ad annunciarci che nella stiva c'erano quattro piedi d'acqua. Per colmo di sventura, ci accorgemmo che le pompe erano ostruite e quasi del tutto inutili.
A bordo non vi era altro che confusione e disperazione, ma fu fatto uno sforzo per alleggerire la nave gettando fuori bordo tutto ciò che potemmo prendere dal carico e tagliando i due alberi che rimanevano. Alfine ci riuscimmo, ma eravamo sempre nell'impossibilità di usufruire delle pompe; e intanto l'acqua che entrava aumentava il livello. Verso il tramonto la violenza della tempesta era sensibilmente diminuita e poiché anche il mare si era un poco calmato, avemmo qualche speranza di poterci salvare con le scialuppe.
Alle otto pomeridiane le nubi si squarciarono sotto l'infuriare del vento e avemmo il vantaggio di una luna piena, una fortuna che servì a rincuorare i nostri spiriti depressi.
Con una fatica incredibile alla fine riuscimmo a gettar fuori sul fianco della nave la scialuppa a vela senza gravi incidenti; in questa si accalcò tutto l'equipaggio e la maggior parte dei passeggeri; questo primo gruppo si allontanò subito, e, dopo una fortunosa navigazione, il terzo giorno dopo il naufragio giunse finalmente in salvo a Ocracoke Inlet.
Rimanevamo ancora a bordo quattordici passeggeri e il capitano, che decisero di affidare la loro sorte all'imbarcazione di salvataggio di poppa. La calammo senza difficoltà, quantunque solo un miracolo le impedisse di affondare nel momento in cui sfiorò l'acqua. Quando poté essere caricata vi entrarono il capitano e sua moglie, il signor Wyatt e familiari, un ufficiale messicano con la moglie e quattro bambini e infine io e un servo negro.
Com'è naturale, non vi era posto per nient'altro che gli strumenti assolutamente indispensabili, alcune provviste e le sole vesti che indossavamo. Nessuno aveva nemmeno pensato di portare in salvo qualcosa. Immaginatevi quindi lo stupore di tutti quando, allontanatici dalla nave di poco, il signor Wyatt si levò in piedi sulla poppa e chiese tranquillamente al Capitano Hardy che la barca tornasse indietro a prendere la sua cassa oblunga!
"Sedete, Mister Wyatt," rispose il capitano, con una certa durezza; "ci rovescerete tutti in acqua se non state tranquillo!
Il bordo va quasi sotto ormai!".
"La cassa!" gridò Mister Wyatt, continuando a stare in piedi; "la cassa, ripeto! Capitano Hardy, non potete, non DOVETE rifiutare.
Pesa pochissimo, non pesa nulla, nulla! In nome di vostra madre che vi ha dato la vita, in nome del cielo! per la salvezza della vostra anima, vi supplico di tornare indietro a prendere la cassa!".
Per un istante il capitano sembrò vinto dall'ardore di quella implorazione, ma poi si riprese e disse semplicemente:
"Signor Wyatt, voi siete pazzo. Io non posso darvi ascolto.
Sedete, vi dico, o farete rovesciare la barca! Fermo! Tenetelo!
Prendetelo! Vuol saltare fuori! Ecco, lo sapevo! E' finito!".
Infatti, mentre il capitano pronunciava queste parole, il signor Wyatt saltò fuori dalla barca, e poiché eravamo ancora sottovento del relitto della nave, con uno sforzo quasi sovrumano riuscì ad afferrare una corda penzolante. Un momento dopo era già a bordo e si precipitava freneticamente verso le cabine.
Nel frattempo, eravamo stati spinti verso la poppa della nave, e non essendo più sottovento, ci trovammo alla mercè di un mare tremendo che ci spingeva sempre. Compimmo uno sforzo per tornare indietro, ma la barchetta era come una piuma nella violenza della tempesta. Si vide subito che il destino dell'artista era ormai suggellato. Mentre la nostra distanza dal relitto aumentava rapidamente, il pazzo (poiché non potevamo considerarlo che tale) fu visto tornare in coperta, dove, con uno sforzo gigantesco, trascinò la cassa oblunga. Mentre lo contemplavamo attoniti, passò rapidamente parecchi giri di una corda di tre pollici prima intorno alla cassa, poi intorno al proprio corpo. L'istante successivo, tanto il suo corpo che la cassa erano in mare dove scomparivano immediatamente e per sempre.
Indugiammo un poco tristemente con gli sguardi fissi sul luogo della scena; poi ci allontanammo. Il silenzio durò ininterrotto per un'ora. Alla fine arrischiai un'osservazione.
"Avete visto, Capitano, come sono affondati improvvisamente? Non è stato molto strano? Confesso d'aver avuto qualche debole speranza che finisse con il salvarsi quando l'ho visto legare il suo corpo alla cassa e gettarsi in mare".
"Naturalmente sono andati a fondo," rispose il Capitano; "e con la rapidità di una fucilata. Torneranno presto a galla, però, 'ma non prima che il sale si sia disciolto'." "Il sale!" esclamai.
"Sssst!" fece il Capitano, indicando la moglie e le sorelle del defunto. "Parleremo di queste cose in un momento più opportuno".
Ci toccò soffrir molto, e a stento potemmo salvarci; ma la fortuna non ci fu meno favorevole che ai nostri compagni della scialuppa a vela. E finalmente, dopo quattro giorni di gravi disagi, sbarcammo più morti che vivi sulla spiaggia di fronte all'isola di Roanoke.
Restammo là una settimana, non troppo maltrattati dai pirati, e alla fine riuscimmo ad ottenere un passaggio per New York.
Circa un mese dopo la perdita dell''Indipendenza ', incontrai per caso a Broadway il capitano Hardy. Naturalmente la nostra conversazione cadde sul disastro e specialmente sulla triste fine del povero Wyatt.
E così appresi i particolari che seguono.
L'artista aveva prenotato il passaggio per sé, la moglie, due sorelle e una domestica. Sua moglie era davvero, com'egli l'aveva descritta, una graziosissima e compitissima donna. La mattina del quattordici giugno ( il giorno che io avevo visitato la nave per la prima volta) la signora si era improvvisamente ammalata ed era morta. Il giovane marito era quasi impazzito dal dolore, ma imperiose circostanze gli impedirono di rimandare il viaggio a New York; era necessario portare alla madre di lei la salma dell'adorata moglie; d'altra parte era ben noto il pregiudizio universalmente diffuso che gli avrebbe impedito di far ciò apertamente; infatti, i nove decimi dei passeggeri avrebbero abbandonato la nave, piuttosto che fare il viaggio con un cadavere.
In tale dilemma, il capitano Hardy stabilì che la salma, dopo essere stata parzialmente imbalsamata e chiusa in una cassa di dimensioni convenienti, fosse portata a bordo come merce. Della morte della signora non si doveva far parola; e poiché era risaputo che Mister Wyatt aveva prenotato il posto anche per lei, fu necessario che qualcuno dovesse impersonarla durante il viaggio; ciò che fu persuasa a fare senza difficoltà la cameriera della defunta. La cabina in più, che in origine era stata prenotata per la ragazza, mentre la signora era ancora in vita, fu allora semplicemente conservata; e in essa, naturalmente, dormiva ogni notte la falsa moglie. Durante il giorno, poi, la ragazza sosteneva, con tutta l'abilità di cui era capace, la parte della signora, la cui persona com'era stato rigorosamente accertato, era sconosciuta a bordo a qualsiasi passeggero.
I miei errori avevano avuto origine, abbastanza logicamente, dalla precipitazione, curiosità ed eccessiva impulsività del mio temperamento. Ma adesso mi accade di rado di dormire tranquillamente la notte: per quanto faccia, ogni notte mi si presenta un volto, ogni notte ai miei orecchi risuona un'isterica, interminabile risata.
Il ritratto ovale
Il castello in cui il mio cameriere personale si era avventurato a entrare forzando una porta anziché permettermi, gravemente ferito com'ero, di passare la notte all'addiaccio, era una mole cupa insieme e grandiosa, di quelle che da tanto tempo adombrano gli Appennini col loro cipiglio così ben descritto dalla fantasia della signora Radcliffe. Stando a tutte le apparenze era stato recentissimamente abbandonato in via provvisoria. Noi ci insediammo in uno degli appartamenti più piccoli e meno lussuosi, sito in una torricella fuori mano. Aveva addobbi pregevoli, ma laceri e consunti dall'età. Alle pareti erano appesi arazzi e trofei e panoplie d'ogni genere, nonché, in numero straordinario, animatissimi quadri moderni adorni di sontuose cornici dorate.
Questi quadri, che tappezzavano i muri non solo sulle superfici principali, ma anche in molte nicchie rese necessarie dalla bizzarra architettura del castello; questi quadri avevano suscitato in me un profondo interesse determinato forse dal mio incipiente delirio; cosicché ordinai a Pedro di chiudere le massicce imposte della stanza - poiché era calata già la notte - di accendere i rami di un alto candelabro posto a capo del mio letto e di aprire, scostandole al massimo, le frangiate cortine di velluto nero che avvolgevano il letto. Tutto questo perché volevo potermi abbandonare, se non al sonno, almeno alla contemplazione dei quadri alternata alla lettura di un volumetto, trovato sotto il guanciale, che ne offriva critica e catalogo.
A lungo - a lungo lessi - e con devoto fervore contemplai. Le ore volavano rapide e gloriose, e fu mezzanotte. La posizione del candelabro mi dava fastidio, e sporgendo la mano con difficoltà per non disturbare il sonno del mio cameriere lo collocai in modo da illuminare il libro più in pieno.
Ma quest'atto produsse un effetto completamente imprevisto. I raggi delle numerose candele (poiché ce n'erano molte davvero) andarono a investire una nicchia che una colonna del letto aveva finora tenuto in ombra assoluta. Scorsi così in una luce viva un quadro che prima mi era del tutto sfuggito: un ritratto di fanciulla in pieno sboccio. Diedi al quadro un'occhiata frettolosa e poi chiusi gli occhi. Perché lo facessi non fu chiaro dapprima nemmeno a me; ma mentre le palpebre mi rimanevano chiuse, mi andavo mentalmente interrogando per scoprirne la ragione. Era stato un modo impulsivo per guadagnar tempo al pensiero - accertarmi che la vista non mi avesse ingannato - calmare e frenare la mia immaginazione disponendola a uno sguardo più lucido e sicuro. Di lì a pochi momenti tornavo a fissare il dipinto.
Che ora vedessi giusto non potevo né volevo dubitare; poiché il primo bagliore delle candele su quella tela pareva aver dissipato il sognante stupore che mi pervadeva i sensi, per riportarmi di colpo alla veglia cosciente.
Era, come ho detto, un ritratto di fanciulla. Solo un mezzo busto, eseguito con la tecnica dello sfumato che si chiama ' vignette ', molto simile allo stile delle celebri teste di Sully. Braccia, seno e finanche estremità della raggiante capigliatura si fondevano impercettibilmente con l'ombra vaga ma densa che formava lo sfondo. La cornice era ovale, riccamente dorata e filigranata alla moresca. Come oggetto d'arte, nulla poteva essere più ammirevole di quel dipinto. Ma né la sua fattura né l'immortale bellezza del viso potevano spiegare la subitanea veemenza dell'emozione che mi aveva assalito. E meno che mai poteva darsi che la mia immaginazione, emergendo d'un balzo dal dormiveglia, avesse scambiato la testa per quella di una persona viva. Vidi subito che le peculiarità del disegno, dello sfumato e della cornice dovevano aver dissipato di colpo simile idea, prevenendone anche un momentaneo perdurare. Riflettendo intensamente su questi punti, rimasi forse per un'ora, un po' seduto e un po' sdraiato, con gli occhi inchiodati sul ritratto. Finalmente, accertato il vero segreto del suo effetto, ricaddi supino fra le coltri. Avevo ravvisato la magia del dipinto in un'assoluta FEDELTA' dell'espressione AL VERO, che dopo avermi sbalordito, finì per confondermi, soggiogarmi e sgomentarmi. Con timore profondo e reverente rimisi il candelabro nella posizione di prima. Esclusa così dalla vista la causa della mia profonda agitazione, cercai ansiosamente il volume che trattava dei quadri e della loro storia. Aprendo il numero che designava il ritratto ovale, vi lessi le vaghe ma strane parole che seguono:
"Era una fanciulla di rara bellezza, e non meno gioconda che leggiadra. E malaugurata fu l'ora in cui vide, amò e sposò il pittore. Lui, appassionato, studioso, austero, già aveva una sposa nella sua Arte; lei, fanciulla di rarissima bellezza, era di una giocondità pari alla sua leggiadrìa: tutta luce e sorrisi, e scherzosa come una cerbiatta: piena d'amore e di cura per tutte le cose, odiava soltanto l'Arte come sua rivale: temendo solo tavolozza e pennelli e altri ostici arnesi che le toglievano la presenza del suo amato. Fu quindi terribile per questa signora sentir parlare il pittore del suo desiderio di ritrarre anche la propria giovane moglie. Ma essa era umile e obbediente, e per molte settimane posò nell'alta e buia camera della torricella dove solo dall'alto la luce filtrava sulla pallida tela. Ma lui, il pittore, si gloriava dell'opera sua, che proseguiva di ora in ora e di giorno in giorno. Ed era un uomo passionale, selvaggio e balzano, che si perdeva in fantasticherie; così da NON VEDERE che la luce spettrale di quella torre solitaria minava salute e spirito della sua giovane sposa, condannata a languire in modo visibile a tutti tranne che a lui. Eppure essa insisteva nel sorriso, senza lamenti, vedendo che il pittore (artista famoso) traeva, dal proprio attivo impegno, un piacere fervido e ardente e lavorava giorno e notte per dipingere colei che tanto lo amava, ma che giornalmente perdeva animo e forze. E in verità alcuni che videro il ritratto parlarono della sua somiglianza a voce bassa, come di un grande portento, che comprovasse non meno la maestrìa del pittore che il suo profondo amore per la donna così insuperabilmente ritratta. Ma alla fine, avvicinandosi l'opera alla sua conclusione, nessuno fu più ammesso nella torricella; poiché il pittore si era invasato del suo lavoro, e raramente stornava gli occhi dalla tela, quand'anche per guardare il viso di sua moglie. E non RIUSCIVA a vedere che i colori da lui spalmati sulla tela erano attinti alle guance di chi gli sedeva accanto. E quando, trascorse molte settimane, pochissimo restava da fare tranne una pennellata sulla bocca e un grano di colore all'occhio, lo spirito della signora guizzò di bel nuovo come la fiamma della lucerna. E allora la pennellata fu applicata, e messo a segno il colore; e per un attimo il pittore stette rapito davanti all'opera compiuta; ma subito, mentre ancor guardava, tremò e impallidì, e attonito esclamando a gran voce: "Questa è proprio la VITA stessa!" si volse repentinamente a guardare l'amata: ESSA ERA MORTA!
I delitti della Rue Morgue
"Quale canzone cantassero le sirene, o quale nome assumesse Achille quando si nascose tra le donne per quanto problemi sconcertanti, non sono al di là di ogni congettura".
Sir Thomas Browne
Le facoltà mentali che definiamo analitiche, sono, di per sé, poco suscettibili di analisi. Le apprezziamo unicamente nei loro effetti. Sappiamo fra l'altro che, per chi le possiede in misura straordinaria, costituiscono sempre una fonte di vivissimo godimento. Come l'uomo forte esulta delle sue doti fisiche, dilettandosi di quegli esercizi che chiamano in causa i suoi muscoli, così l'analista si compiace di quell'attività mentale che DISTRICA. Egli trae piacere da qualsiasi occupazione, anche la più banale, purché metta in azione il suo talento. E' appassionato di enigmi, di rebus, di geroglifici, nel risolvere i quali da prova di ACUMEN che può apparire soprannaturale a un'intelligenza comune. I risultati che egli consegue applicando l'essenza, l'anima stessa del metodo, hanno in realtà tutta l'aria dell'intuizione.
La facoltà di risoluzione è forse molto rinforzata dallo studio della matematica, e in particolar modo dal ramo più nobile di essa che, ingiustamente, e solo a causa del processo a ritroso delle sue operazioni, è stata definita ANALISI, come se lo fosse PER ECCELLENZA. Eppure calcolare non è di per sé analizzare. Un giocatore di scacchi, per esempio, esegue il primo procedimento senza ricorrere al secondo. Ne segue un'interpretazione completamente errata degli effetti che il gioco degli scacchi ha sulla struttura mentale dell'individuo. Non intendo qui scrivere un trattato, ma semplicemente introdurre, con delle osservazioni, fatte molto a casaccio, un racconto un po' strano; colgo quindi l'occasione per sostenere che le facoltà più elevate dell'intelligenza riflessiva sono messe alla prova più a fondo e con maggiore utilità dal gioco più modesto della dama piuttosto che dall'elaborata frivolezza degli scacchi. In quest'ultimo gioco, dove i pezzi si muovono con mosse diverse e BIZZARRE, secondo dei valori vari e variabili, ciò che è soltanto complesso viene scambiato (errore piuttosto comune) per ciò che è profondo.
Si richiede qui la massima capacità d'attenzione. Distrarsi per un attimo significa commettere una svista da cui deriverà un danno o una sconfitta. Poiché le mosse possibili non sono soltanto molteplici, ma anche complesse, le occasioni per simili sviste si moltiplicano, e nove volte su dieci vince la partita non il giocatore più acuto, ma quello che sa maggiormente concentrarsi.
Nel gioco della dama, invece, dove il movimento è UNICO e consente poche variazioni, le probabilità di distrazioni sono minori, e dal momento che la semplice attenzione viene impegnata solo relativamente, i risultati ottenuti da entrambi gli avversari sono attribuibili soltanto a una maggiore dose di ACUMEN. Per toglierci dall'astratto: immaginiamo una partita a dama dove i pezzi siano ridotti a solo quattro dame, e dove naturalmente non ci sia da aspettarsi alcuna svista. E' chiaro che qui la vittoria sarà decisa (dal momento che i giocatori si trovano su un piano di parità) da una mossa ' recherchée ', risultato di un eccezionale sforzo mentale. Non potendo valersi dei consueti stratagemmi, l'analista s'insinua nello spirito dell'avversario, si identifica con esso, e non di rado vede così, a colpo d'occhio, l'unica mossa (a volte assurdamente semplice) mediante la quale può indurlo a commettere un errore o affrettare un calcolo sbagliato.
Da molto tempo si è notata l'influenza che lo ' whist ' esercita su ciò che viene definita capacità di calcolo; e si sa che uomini dotati di eccezionale intelligenza, mentre disdegnavano come frivoli gli scacchi, ricavano da questo gioco un piacere apparentemente inspiegabile. Senza dubbio non c'è nulla del genere che riesca ad impegnare altrettanto profondamente la facoltà dell'analisi. Il miglior giocatore di scacchi della cristianità non sarà nulla di più del miglior giocatore di scacchi; ma il grado di eccellenza nello whist implica una probabilità di successo in tutte quelle imprese tanto più importanti in cui una mente umana si trova a fronteggiarne un'altra. Per grado di eccellenza intendo quella perfezione che presuppone la conoscenza di TUTTI gli espedienti del gioco da cui si possono trarre vantaggi legittimi. Questi non sono soltanto molteplici, ma multiformi, e si celano sovente in abissi di pensiero del tutto impenetrabili all'intelligenza ordinaria. Osservare con attenzione significa ricordare distintamente; e sotto questo aspetto il giocatore di scacchi riuscirà molto bene nello whist perché sa concentrarsi; d'altra parte le regole di Hoyle (basate sul puro e semplice meccanismo del gioco) sono in genere sufficientemente chiare a tutti. Così, avere una memoria incisiva e attenersi al regolamento di gioco sono due requisiti che sembrano definire il buon giocatore per eccellenza. Ma è oltre i limiti delle regole che l'abilità dell'analista si manifesta. In silenzio egli fa tutte le sue osservazioni e deduzioni; altrettanto forse fanno i suoi avversari; ma la differenza nella portata delle indicazioni così ottenute non consiste tanto nella validità della deduzione quanto nella qualità dell'osservazione. Quel che è necessario sapere è che cosa si deve osservare. Il nostro giocatore non si pone limiti, né, per il fatto che il gioco è l'oggetto primo della sua concentrazione, egli manca di trarre deduzioni da fattori estranei alla partita. Scruta l'espressione del suo compagno, confrontandola attentamente con quella di tutti i suoi avversari.
Osserva il modo in cui ciascuno ordina le proprie carte, contando sovente un atout dopo l'altro e un punto dopo l'altro dalle occhiate che via via vi lanciano quelli che ne sono in possesso.
Nel corso del gioco non si lascia sfuggire le minime alterazioni dei volti, traendo le sue prime considerazioni in base al loro atteggiarsi ad espressioni di sicurezza, di sorpresa, di trionfo o di dispetto. Dal modo di raccogliere un'alzata giudica se la persona che la prende ha o no la possibilità di combinarne un'altra. Riconosce la carta che viene giocata per ingannare dal modo con cui essa viene gettata sul tavolo. Una parola buttata là per caso o pronunciata inavvertitamente; una carta caduta o scoperta accidentalmente che venga quindi nascosta con nervosismo o con indifferenza; il conteggio delle alzate, l'ordine in cui si succedono; imbarazzo, esitazione, prontezza o ansia - tutto serve alla sua percezione apparentemente intuitiva per trarre indicazioni sullo stato effettivo delle cose. Dopo che sono state giocate le prime due o tre mani, egli conosce alla perfezione le carte di cui ciascuno dispone, e da quel momento può buttar giù le sue seguendo un piano così preciso come se il resto della compagnia giocasse a carte scoperte. Il potere di analisi non dovrebbe essere confuso con la semplice ingegnosità; poiché mentre l'analista è necessariamente ingegnoso, l'uomo ingegnoso è sovente notevolmente incapace di analisi. La capacità di ricostruzione o di combinazione, attraverso cui si manifesta comunemente la ingegnosità, e alla quale i frenologi hanno assegnato (a torto, direi) un organo separato, considerandola una facoltà primordiale, è stata riscontrata tante volte in persone il cui livello intellettivo sfiorava - per il resto - l'idiozia, da attirare l'attenzione di tutti gli scrittori di psicologia. Tra le ingegnosità e l'abilità analitica esiste in effetti una differenza ancor più notevole di quella che corre fra la fantasia e l'immaginazione, benché di un genere strettamente analogo. Si constaterà difatti che l'uomo ingegnoso è sempre pieno di fantasia, mentre l'uomo veramente ricco di immaginazione non è mai altro che analitico.
Il racconto che segue costituirà per il lettore una specie di commento a quanto si è andato fin qui dicendo.
Fu a Parigi, dove mi trattenni per tutta la primavera e parte dell'estate del 18.., che feci la conoscenza di un certo Monsieur C. Auguste Dupin. Questo giovane apparteneva a un'ottima, anzi ad un'illustre famiglia, ma una serie di disgrazie l'aveva ridotto in uno stato tale di povertà da spegnere in lui ogni energia, tanto che aveva smesso di lottare per una posizione in società e di preoccuparsi di ricostituire il nostro patrimonio. Grazie alla clemenza dei suoi creditori aveva potuto trattenere per sé una piccolissima parte dei suoi beni; e, con la rendita che questi gli fruttavano, riusciva, per mezzo di una inflessibile economia, a procurarsi il necessario per vivere, senza darsi pensiero del superfluo. La sua unica debolezza erano i libri, cosa tutt'altro che difficile da procurarsi a Parigi.
Ci incontrammo la prima volta in un'oscura libreria di Rue Montmartre, dove il fatto di essere entrambi, per caso, alla ricerca dello stesso libro di considerevole rarità e interesse, ci rese subito amici. Ci rivedemmo di sovente da allora. Mi interessò estremamente la breve storia della sua famiglia che egli mi raccontò fin nei minimi dettagli con tutto quel candore di cui è capace un francese quando si tratta di parlare di sé. Rimasi anche meravigliato nel constatare quanto fosse vasto il campo delle sue letture; e soprattutto sentii il mio spirito infiammarsi a contatto con la forza travolgente e la vivida freschezza della sua immaginazione. Dato quel che mi interessava scoprire allora in Parigi, ebbi la sensazione che la compagnia di un uomo simile mi sarebbe stata preziosa oltre ogni dire, e francamente glielo confidai. Combinammo alla fine di abitare insieme per tutta la durata del mio soggiorno in città; e poiché la mia situazione finanziaria non era così disperata come la sua, potei addossarmi le spese dell'affitto e dell'arredamento in uno stile che armonizzasse con la malinconia un po' estrosa , caratteristica del nostro temperamento, di una casa grottesca, rosa dal tempo, rimasta a lungo disabitata a causa di certe superstizioni che trascurammo di indagare, e che sorgeva, semidiroccata ormai, in una zona solitaria e squallida del Faubourg St.-Germain.
Se la gente fosse venuta a conoscenza delle nostre abitudini in quella casa, certo ci avrebbe considerato dei pazzi, anche se, forse, pazzi innocui. Il nostro isolamento era assoluto. Non ricevevamo visite. Mi ero anzi preoccupato di tenere segreto alle mie amicizie di vecchia data il luogo del nostro ritiro; e in quanto a Dupin, erano ormai molti anni che non conosceva e non era più conosciuto da nessuno a Parigi. Esistevamo soltanto per noi stessi.
Una delle stranezze del mio amico (come diversamente potrei definirle?) consisteva nell'amare la Notte per se stessa; ed io mi lasciai andare a questa sua ' bizarrerie ', come a tutte le altre, piegandomi ai suoi capricci fantastici con assoluto ' abandon '.
La tenebrosa dea non era sempre con noi, ma noi potevamo ricrearla artificialmente. Al primo accenno d'alba accostavamo tutte le pesanti imposte della vecchia casa, accendendo un paio di candele, fortemente profumate, che spandevano soltanto una pallida luce spettrale. Con il loro aiuto, schiudevamo l'anima nostra ai sogni, leggendo, scrivendo o conversando, finché l'orologio ci annunziava l'ora della vera Oscurità. Allora uscivamo per le strade, sottobraccio, riprendendo gli argomenti discussi in giornata, o gironzolando di qua e di là fino a tarda notte, perseguendo, tra le luci accecanti e le ombre della città popolosa, quello stato mentale di esasperato eccitamento che solo ci può venire da un'osservazione tranquilla.
In quelle occasioni non potei fare a meno di notare e ammirare in Dupin "anche se a questo mi aveva preparato la sua eccezionale capacità intellettiva) una sviluppatissima abilità analitica.
Sembrava anche che dall'esercizio di questa facoltà, se non proprio dall'ostentazione di essa, egli traesse grande piacere, come d'altronde egli stesso non esitava a confidarmi. Con una piccola risatina sommessa si vantava con me del fatto che la maggior parte degli uomini gli si presentava con delle finestre spalancate sul petto, ed era pronto a convalidare tali spiegazioni con delle prove dirette e sbalorditive della conoscenza profonda che aveva di me. In quei momenti i suoi modi erano freddi e distanti; gli occhi inespressivi, mentre la voce, di solito caldamente vellutata, si inaspriva in un tono acuto che sarebbe parso petulante se non fosse stato per la determinazione e l'assoluta chiarezza della pronuncia. Osservandolo in questi particolari stati d'animo, mi sorprendevo sovente a meditare sull'antica filosofia dell'anima bipartita, divertendomi all'idea di un duplice Dupin: uno creativo e l'altro analizzatore.
Non si deve pensare, da quanto ho detto, che io stia rivelando un mistero o costruendo un romanzo. Quello che ho descritto in questo francese era soltanto il risultato, l'effetto di un'intelligenza eccitata e forse ammalata. Ma un esempio varrà meglio di ogni altra cosa ad illustrarvi la natura delle sue osservazioni nei momenti ai quali ho accennato.
Passeggiavamo una notte per una lunga strada sudicia nelle vicinanze del Palais Royal. Immersi entrambi nei nostri pensieri, non avevamo profferito sillaba da almeno un quarto d'ora.
All'improvviso Dupin ruppe il silenzio con queste parole:
"E' davvero molto piccolo, e sarebbe più adatto per il Théâtre des Variétés".
"Non c'è dubbio," risposi meccanicamente, non rendendomi conto al primo momento (tanto ero preso dalle mie riflessioni) della straordinaria esattezza con cui il mio interlocutore si era riagganciato al filo delle mie meditazioni. Me ne sovvenni un istante dopo, e il mio sbalordimento fu profondo.
"Dupin," dissi, gravemente, "questo è più di quanto riesca a capire. Devo ammettere che mi avete sbalordito, e sono quasi tentato di non credere ai miei sensi. Come avete potuto indovinare che stavo pensando a...?" E qui m'interruppi, per accertarmi definitivamente se sapesse davvero a chi stavo pensando.
"... a Chantilly," finì Dupin, "ma perché v'interrompete? Stavate rilevando fra di voi che la sua bassa statura lo rende inadatto a recitare tragedie".
E questo era stato per l'appunto l'oggetto delle mie riflessioni.
Chantilly era un ex-ciabattino della Rue St.-Denis, il quale, pazzo per il teatro, si era cimentato nel ' rôle ' di Serse, nell'omonima tragedia di Crébillon, e i suoi sforzi erano stati oggetto di scherno generale.
"Ditemi, per amor del cielo," esclamai, "quale metodo - se pure metodo c'è - vi ha permesso di scandagliare il mio pensiero su questo argomento".
Effettivamente ero anche più sorpreso di quanto fossi disposto ad ammettere.
"E' stato il fruttivendolo," rispose il mio amico, "a portarvi alla conclusione che quel rappezza-suole non aveva statura sufficiente per Serse et id genus omne".
"Il fruttivendolo!... Mi stupite... Non conosco nessun fruttivendolo".
"L'uomo che vi ha urtato quando abbiamo imboccato questa strada...
sarà circa un quarto d'ora fa".
Mi ricordai infatti che un fruttivendolo, che reggeva sul capo un enorme cesto di mele, mi aveva quasi buttato per terra, per sbaglio, mentre passavamo dalla Rue C... nella via dove adesso ci trovavamo; ma che cosa avesse a che vedere questo con Chantilly proprio non mi riusciva di capire. Non c'era un briciolo di ' charlatanerie ' in Dupin.
"Ora vi spiegherò," mi disse, "e perché possiate capire ogni cosa con chiarezza, cominceremo col riesaminare l'ordine di successione dei vostri pensieri dal momento in cui vi ho parlato fino a quello della ' rencontre ' col fruttivendolo in questione. Gli anelli principali di questa catena si saldano in questa successione:
Chantilly, Orion, Dottor Nichols, Epicuro, la stereotomia, il selciato, il fruttivendolo".
Sono poche le persone che non si siano divertite, in qualche periodo della loro vita, a ripercorrere i passi compiuti dalla loro mente per arrivare a certe determinate conclusioni. E' un'occupazione che ha in sé molti motivi di interesse; e colui che l'esperimenta per la prima volta si stupisce dell'incoerenza e della distanza, apparentemente incolmabile, che corre tra il punto di partenza e quello d'arrivo. Quale non fu dunque la mia meraviglia quando mi sentii dire dal francese quel che vi ho riportato e quando fui costretto a riconoscere che le sue parole corrispondevano a verità. Dupin continuò:
"Avevamo parlato di cavalli, se ben ricordo, prima di lasciare la Rue C... Fu questo il nostro ultimo argomento. Mentre attraversavamo la strada per imboccare questa via, un fruttivendolo con una grande cesta in bilico sul capo, superandoci di gran fretta, vi spinse sopra un mucchio di pietre da pavimentazione accatastate in un punto in cui il marciapiede è in riparazione. Siete inciampato in una delle pietre sparse all'intorno, siete scivolato storcendovi leggermente la caviglia, avete assunto un'aria seccata o perlomeno rannuvolata, avete borbottato qualche parola, vi siete voltato indietro a guardare il mucchio di sassi e poi avete ripreso a camminare in silenzio. Non prestavo soverchia attenzione a quanto facevate; ma ultimamente l'osservazione è diventata per me una specie di mania.
"Avete tenuto abbassati gli occhi per terra, lanciando sguardi indispettiti alle buche e ai solchi del marciapiede (per cui conclusi che stavate ancora pensando alle pietre), finché giungemmo al vicoletto Lamartine, che è stato lastricato in via sperimentale con dei blocchi saldati e sovrapposti. Qui notai che il vostro viso si rasserenava e da un movimento delle vostre labbra mi convinsi che stavate mormorando la parola 'stereotomia' termine che si applica con una certa affettazione a questo tipo di lastricato. Sapevo che non avreste potuto pronunciare tra voi il vocabolo 'stereotomia' senza essere portato a pensare agli atomi e di conseguenza alla teoria di Epicuro; e poiché quando discutemmo questo argomento non molto tempo fa vi accennai al fatto davvero singolare, anche se praticamente ignorato, che le vaghe ipotesi di questo illustre greco fossero state confermate dalla più recente cosmogonia nebulare, mi parve che non avreste potuto fare a meno di alzare gli occhi verso la grande nebulosa d'Orione e mi apprestai con una certa sicurezza a vedervelo fare. Voi guardaste in alto; e fui allora certo di aver seguito esattamente il corso del vostro pensiero. Ma in quella spietata ' tirade ' contro Chantilly, pubblicata ieri sul ' Musée ' l'articolista, alludendo ironico e malevolo al cambiamento di nome del calzolaio all'atto di calzare il coturno, citò un verso latino sul quale abbiamo sovente discusso. Mi riferisco a quel verso che dice:
Perdidit antiquum litera prima sonum.
"Vi avevo spiegato che questo si riferiva a Orione, che in passato si scriveva Urione; e per certe particolarità pungenti connesse alla spiegazione ero certo che non l'avreste dimenticato. Era evidente perciò che non avreste mancato di riaccostare le due idee di Orione e Chantilly. E che effettivamente le associaste lo capii dalla natura del sorriso che vi aleggiò sulle labbra. Pensavate al sacrificio del povero ciabattino. Fino allora avevate camminato tutto ricurvo ma ora notai che vi erigevate in tutta la vostra statura. Fui certo a questo punto che stavate riflettendo sull'altezza di Chantilly. Fu allora che interruppi il corso dei vostri pensieri per osservare che era proprio un omino, quel Chantilly, e che avrebbe figurato meglio al Théâtre des Variétés".
Poco tempo dopo, scorrendo l'edizione della sera della ' Gazette des Tribunaux ', la nostra attenzione fu attratta da questo articolo di cronaca.
SENSAZIONALE DELITTO. - Verso le tre di questa mattina, gli abitanti del quartiere St.-Roch furono destati da un susseguirsi di urla terrorizzanti provenienti apparentemente dal quarto piano di una casa situata in Rue Morgue, notoriamente abitata soltanto da Madame L'Espanaye e da sua figlia, Mademoiselle Camîlle L'Espanaye. Dopo qualche minuto, perso nel vano tentativo di entrare nel caseggiato per via normale, il portone veniva forzato con una sbarra, e un gruppetto di vicini, una decina circa, vi fecero irruzione insieme a due gendarmi. Nel frattempo le grida erano cessate; ma, mentre gli accorsi salivano precipitosamente la prima rampa di scale, si udirono due o più voci aspre impegnate in un violento alterco che parevano provenire dal piano superiore della casa. Ma nel momento in cui fu raggiunto il secondo pianerottolo anche questi rumori cessarono e tutto ripiombò nel più profondo silenzio. Il gruppo si divise irrompendo nelle diverse stanze. Arrivati a una vasta stanza sul retro del quarto piano (la cui porta, chiusa dall'interno, dovette essere forzata), agli occhi dei presenti si offrì uno spettacolo tale da agghiacciarli d'orrore oltre che di sbalordimento.
L'appartamento era tutto sottosopra, i mobili rotti e scaraventati in ogni direzione. C'era un unico letto, e da questo era stato divelto il pagliericcio e gettato nel mezzo del pavimento. Su una sedia era posato un rasoio, macchiato di sangue. Nel caminetto c'erano due o tre lunghe e folte ciocche di capelli grigi, anch'esse intrise di sangue, che parevano essere strappate dalle radici. Sul pavimento furono rinvenuti quattro napoleoni, un orecchino di topazio, tre grandi cucchiai d'argento, tre più piccoli di métal d'Alger, e due borse, contenenti quasi quattromila franchi in oro. I cassetti di un bureau, posto d'angolo, erano aperti ed erano stati evidentemente saccheggiati, nonostante contenessero ancora svariati oggetti. Una piccola cassaforte in ferro venne trovata sotto il pagliericcio (non sotto il letto). Era aperta, con la chiave ancora nella serratura. Non conteneva che lettere di vecchia data e altre scartoffie di trascurabile importanza.
Non veniva scoperta traccia alcuna di Madame L'Espanaye; ma essendo stata notata una quantità insolita di fuliggine nel camino, si procedeva a un esame della cappa, e (orribile a dirsi!) ne veniva tratto, a testa all'ingiù, il cadavere della figlia, che era stato forzato in quella posizione per un buon tratto su per la angusta apertura. Il corpo era ancora caldo. Osservandolo si riscontrarono molte escoriazioni provocate senza dubbio dalla violenza con cui era stato spinto su per il camino e successivamente liberato. Il viso presentava numerose e profonde graffiature, e la gola lividi violacei e marcate impronte di unghie, come se la disgraziata vittima fosse stata strangolata.
Dopo una minuziosa perlustrazione condotta per ogni angolo della casa che non portò però a nessuna ulteriore scoperta, il gruppo di persone si diresse a un piccolo cortile lastricato sul retro della casa, dove giaceva il cadavere della vecchia signora, con la gola tagliata tanto selvaggiamente che, nel tentativo fatto per sollevare la salma, la testa si staccò nettamente dal busto. Sia il corpo che la testa erano orribilmente mutilati, il primo specialmente era così sfigurato da non serbare quasi più traccia di parvenza umana.
A quanto ci risulta non è ancora stato scoperto il minimo indizio che possa gettare luce su questo orrendo mistero.
All'indomani il giornale portava in aggiunta questi particolari.
LA TRAGEDIA DELLA RUE MORGUE. - Molte persone sono state interrogate in relazione a questo incredibile e mostruoso affare (la parola ' affaire ' non ha ancora assunto per i francesi quel significato di trascurabile importanza che ha da noi), ma nulla è trapelato che potesse servire a svelarne il mistero. Riportiamo qui sotto tutte le informazioni ricavate nel corso delle deposizioni.
Pauline Dubourg, lavandaia, depone di conoscere entrambe le vittime da tre anni per aver prestato loro i suoi servizi durante tutto quel periodo. La vecchia signora e sua figlia parevano vivere in ottimi rapporti, molto affezionate l'una all'altra.
Pagavano puntualmente. Non saprebbe dire come e con quali mezzi di sussistenza vivessero. Credeva che Madame L. si guadagnasse da vivere predicendo la buona ventura. Si mormorava che avesse da parte qualche risparmio. Dichiara di non aver mai incontrato nessuno in casa quando vi andava per consegnare o ritirare la biancheria. Era sicura che non tenessero persone di servizio.
Pareva che, fatta eccezione per il quarto piano, non vi fossero mobili in nessun'altra parte della casa.
Pierre Moreau, tabaccaio, depone d'aver venduto abitualmente per quasi quattro anni piccole quantità di tabacco e di polvere da annusare a Madame L'Espanaye. E' nato nel quartiere e vi ha sempre abitato. La defunta e sua figlia occupavano da più di sei anni la casa dove sono stati rinvenuti i loro cadaveri. Precedentemente vi aveva abitato un gioielliere che subaffittava il piano superiore a varie persone. La casa era di proprietà di Madame L. Scontenta dell'abuso che il suo inquilino faceva dei locali, vi si era trasferita lei stessa, rifiutandosi di affittare gli altri piani.
La vecchia signora era un po' ritardata mentalmente. Il testimone aveva visto la figlia cinque o sei volte in tutto, in circa sei anni. Le due donne facevano vita estremamente ritirata, e si diceva che avessero denaro. Aveva sentito dire dai vicini che Madame faceva la chiromante, ma non ci credeva. Non aveva mai visto nessuno varcare il loro portone, tranne la vecchia signora e sua figlia, un fattorino un paio di volte, e un medico forse una decina di volte.
Molte altre persone del quartiere hanno deposto in questo senso.
Di nessuno è stato detto che frequentasse la casa. Non si sapeva se Madame L. e sua figlia avessero ancora qualche parente in vita.
Le imposte delle finestre sulla facciata venivano aperte di rado.
Quelle che davano sul retro rimanevano sempre chiuse tutte, tranne quelle della grande stanza del quarto piano. La casa era un bell'edificio, non molto antico.
Isidore Musèt, gendarme, depone di essere stato chiamato a quell'indirizzo verso le tre del mattino, e di aver trovato davanti al portone un gruppo di circa venti o trenta persone che cercavano di entrare. Infine si era riusciti a forzarlo con una baionetta, non con una spranga. Non era stato difficile aprirlo trattandosi di una porta a due battenti, priva di spranga, sia in alto che in basso. Le urla si ripeterono finché il portone venne sfondato, poi cessarono di colpo. Parevano emesse da qualcuno (o da più persone) che stesse soffrendo pene atroci, erano forti e prolungate, non brevi e rapide. Fu il testimone a far strada verso i piani superiori. Raggiunto il primo pianerottolo, sentì levarsi due voci in un'aspra e violenta lite, una era una voce rauca, l'altra molto più acuta, di un tenore davvero strano. Poté percepire alcune parole pronunziate dalla prima, che indubbiamente apparteneva a un francese. Era certo che si non si trattasse di una voce di donna. Riuscì a distinguere le parole ' sacré ' e ' diable '. La voce stridula era quella di uno straniero ma non saprebbe dire se si trattasse di una voce di uomo o di donna. Non era riuscito ad afferrare quel che veniva detto, ma gli pareva che la lingua parlata fosse lo spagnolo. Lo stato della camera e dei cadaveri venne descritto come noi l'abbiamo riferito ieri. Henri Duval, un vicino di professione orefice, depone di essersi trovato fra quelli che per primi entrarono nella casa. Conferma (in linea di massima) la deposizione di Musèt. Appena ebbero forzato il portone lo richiusero per impedire l'accesso alla folla che, nonostante l'ora tarda, si era andata rapidamente assembrando. La voce stridula, secondo l'affermazione di questo teste, apparteneva a un italiano. Certamente non a un francese. Non poteva affermare che si trattasse di una voce maschile; avrebbe potuto essere di donna. Non conosceva l'italiano. Non era riuscito a distinguere le parole, ma dall'intonazione era certo che chi parlava doveva essere un italiano. Conosceva Madame L. e sua figlia. Aveva parlato sovente con entrambe. Era convinto che la voce stridula non appartenesse né all'una né all'altra vittima.
... Odenheimer, restaurateur. Si è presentato spontaneamente a testimoniare. Non sapendo parlare francese è stato interrogato a mezzo di un interprete. E' nato ad Amsterdam. Passava davanti alla casa nel momento in cui riecheggiarono quelle grida. Erano urla prolungate e alte, paurose e strazianti. Fu uno di quelli che entrarono nella casa. Confermava le deposizioni precedenti su tutti i punti meno uno. Era certo che la voce stridula fosse quella di un uomo, di un francese. Non riuscì tuttavia a distinguere le parole pronunciate. Erano forti e rapide, sconnesse, come se fossero state proferite in un accesso di paura oltre che di collera. La voce era aspra, non tanto stridula quanto aspra. Non l'avrebbe proprio definita stridula. La voce roca ripeté più volte "sacré", "diable" e una volta "mon Dieu".
Jules Mignaud, banchiere, della ditta Mignaud e Figli, Rue Deloraine. E' il maggiore dei Mignaud. Madame L'Espanaye aveva una piccola fortuna. Aveva aperto un conto nella sua banca nella primavera dell'anno... (otto anni prima). Effettuava sovente dei depositi di piccole somme. Non aveva mai prelevato nulla fino a tre giorni prima della sua morte quando era venuta a ritirare personalmente una somma di quattromila franchi. L'ammontare era stato pagato in oro e mandato a casa a mezzo d'un fattorino.
Adolphe Le Bon, fattorino di Mignaud e Figli, depone di aver accompagnato il giorno suddetto, verso mezzogiorno, Madame L'Espanaye fino alla sua abitazione con i quattromila franchi riposti in due borse. All'aprirsi della porta gli si parò innanzi Mademoiselle che gli tolse dalle mani una delle borse mentre la vecchia signora prendeva in consegna l'altra. Dopo un inchino di saluto si congedò. Non scorse nessuno per strada a quell'ora. E' un vicolo laterale, pochissimo frequentato.
William Bird, sarto, depone di essere stato fra le persone che penetrarono all'interno della casa. E' inglese. Vive a Parigi da due anni. Fu uno dei primi a lanciarsi per le scale. Udì le voci alzarsi nell'alterco. La voce roca apparteneva a un francese. Poté distinguere qualcuna delle parole pronunciate, ma al momento non se le ricorda tutte. Udì distintamente "sacré" e "mon Dieu". In quel momento c'era un rumore come di più persone impegnate in una lotta - un rumore di zuffa e di scalpiccii. La voce stridula era forte, molto più forte di quella roca, e certo non era quella di un inglese. Sembrava quella di un tedesco. Avrebbe potuto essere una voce di donna. Non conosce il tedesco.
Quattro dei sopra citati testi, riconvocati, hanno deposto che la porta della camera in cui fu rinvenuto il cadavere di Mademoiselle L. era chiusa dall'interno quando arrivò il gruppo di persone. Il silenzio era assoluto, non un gemito, non un rumore di nessun genere. Forzata la porta, non si vide nessuno nella stanza. Le finestre, sia quella della stanza che dà sul retro della casa quanto quella che si apre sulla facciata, erano chiuse e saldamente assicurate dall'interno. Una porta di comunicazione tra le due camere era chiusa, ma non a chiave. La porta che mette in comunicazione la stanza che dà sulla facciata con il corridoio era chiusa a chiave, con la chiave all'interno. Uno stanzino prospiciente la casa, al quarto piano, all'estremità del corridoio, era aperto, con l'uscio accostato. Questa stanza rigurgitava di vecchi letti, di scatole, e così via. Tutti questi oggetti vennero scrupolosamente rimossi e esaminati. Non c'è un centimetro di angolo di casa che non sia stato minuziosamente perquisito. Si spazzarono anche i camini con delle scope. La casa consisteva di quattro piani più le soffitte (mansardes). Un lucernario sul tetto era inchiodato molto saldamente e lasciava supporre di non essere stato aperto da anni. Il tempo trascorso tra il momento in cui si udirono le voci alzarsi nella lite e quello in cui fu forzata la porta, varia secondo le deposizioni dei vari testi. Alcuni lo calcolano in tre minuti, altri lo prolungano fino a cinque. La porta fu aperta con difficoltà.
Alfonzo Garcio, impresario di pompe funebri, dichiara di abitare in Rue Morgue. E' spagnolo. Fu tra quelli che irruppero nella casa. Non salì ai piani superiori. E' impressionabile, e temeva le conseguenze di un forte turbamento. Sentì le voci nell'alterco. La voce roca era quella di un francese. Non poté capire cosa dicesse.
La voce acuta apparteneva a un inglese, ma giudica dall'intonazione.
Alberto Montani, pasticcere, depone di essere stato uno dei primi a salire le scale. Sentì le voci in questione. La voce roca era quella di un francese. Distinse diverse parole. Colui che parlava sembrava rimproverare qualcuno. Non riuscì a comprendere quel che diceva la voce stridula. Parlava velocemente e a scatti. Pensa che fosse la voce di un russo. Conferma le altre testimonianze in linea generale. E' un italiano. Non ha mai conversato con un russo.
Diversi testi, qui riconvocati, hanno deposto che tutti i camini delle stanze del quarto piano erano troppo stretti per permettere il passaggio di un essere umano. Per ' scope ' intendevano quelle spazzole cilindriche che vengono usate dagli spazzacamini. Quelle spazzole vennero fatte passare attraverso tutte le tubature della casa. Non ci sono passaggi sul retro che potessero offrire a qualcuno una via di scampo mentre il gruppo di accorsi saliva ai piani superiori. Il corpo di Mademoiselle L'Espanaye era così saldamente incastrato nel camino che ci vollero gli sforzi combinati di quattro o cinque persone per estrarvelo.
Paul Dumas, medico, depone di essere stato chiamato ad esaminare i cadaveri verso l'alba. Al suo arrivo erano entrambi composti sul pagliericcio del letto nella camera dove era stata rinvenuta Mademoiselle L. Il cadavere della ragazza presentava molte ecchimosi ed escoriazioni. Il fatto che fosse stato forzato su per il camino giustificava sufficientemente le sue condizioni. Appena sotto il mento si riscontravano diversi graffi profondi, oltre a una serie di lividure che erano evidentemente impronte di dita. Il viso era spaventosamente livido, e gli occhi sporgevano all'infuori. La lingua era stata parzialmente morsicata. Una larga ecchimosi fu scoperta alla bocca dello stomaco, causata, all'apparenza, dalla pressione di un ginocchio. Secondo il signor Dumas, Mademoiselle L'Espanaye era stata strangolata da una o più persone ignote. Il cadavere della madre era orrendamente sfigurato. Tutte le ossa della gamba e del braccio destro erano più o meno fratturate. La tibia sinistra, come pure le costole del fianco sinistro, si presentavano scheggiate in più punti. Il corpo, spaventosamente illividito, era tutto ricoperto di contusioni. Non era possibile stabilire come fossero stati vibrati i colpi. Una pesante mazza di legno, o una grossa sbarra di ferro, una sedia, qualsiasi tipo di arma, grande, pesante e contundente, avrebbe potuto conseguire risultati simili se manovrata da un uomo di forza eccezionale. Nessuna donna avrebbe potuto inferire colpi simili con nessun'arma. La testa della vittima, quando il teste la vide, era completamente staccata dal busto, e a sua volta sfracellata. La gola era stata evidentemente recisa con qualcosa di molto tagliente: con tutta probabilità un rasoio.
Alexandre Etienne, chirurgo, fu chiamato con M. Dumas ad esaminare i cadaveri. Conferma la deposizione e il parere medico di M.
Dumas.
Nient'altro di importante è emerso, nonostante siano state interrogate diverse altre persone. Un assassinio così misterioso e tanto intricato nei particolari non era mai stato finora commesso a Parigi, se pur si tratta di assassinio. La polizia si dibatte nelle tenebre più fitte, fatto davvero insolito in situazioni di questo genere. Non è stata comunque scoperta sinora nemmeno l'ombra di una traccia.
L'edizione serale del giornale pubblicava che nel quartiere St.- Roch si viveva tuttora in uno stato di grande agitazione, che i locali in questione erano stati minuziosamente ispezionati una seconda volta, e che altri testi erano stati chiamati a deporre, ma tutto senza alcun risultato. Un'aggiunta comunicava però che Adolphe Le Bon era stato arrestato e tradotto in carcere, anche se nessuna prova era emersa contro di lui, all'infuori dei fatti già riportati.
Dupin appariva vivamente interessato allo svolgimento di questo caso, perlomeno così dedussi dal suo atteggiamento perché egli si astenne da qualsiasi commento. Fu soltanto dopo aver appreso che Le Bon era stato arrestato, che mi chiese la mia opinione sul delitto.
Non potei che limitarmi a convenire con tutta Parigi che la faccenda costituiva un mistero insolubile. Non vedevo nessun mezzo mediante il quale poter risalire fino all'assassino.
"Non dobbiamo giudicare dei mezzi," disse Dupin, "da questa parvenza d'indagine. La polizia parigina, tanto celebrata per il suo ACUMEN, è scaltra, ma nulla di più. Non adotta nessun metodo d'investigazione che non sia quello suggerito dal momento. Ostenta un vasto spiegamento di misure, ma, non di rado, queste sono così poco adatte agli scopi che si prefigge da farci rammentare di Monsieur Jourdain che ordinava la sua Robe-de-chambre, pour mieux entendre la musique. I risultati così conseguiti sono spesso sorprendenti, ma, per la maggior parte imputabili semplicemente alla diligenza e all'attività dei suoi funzionari. Venendo a mancare queste qualità, tutti i suoi piani falliscono. Vidocq, per esempio, aveva buona intuizione e grande perseveranza, ma, mancando di una disciplina mentale, veniva sviato continuamente dall'intensità stessa delle sue investigazioni. La sua visione si sfocava per vicinanza eccessiva dell'oggetto. Era magari in grado di scorgere con una chiarezza non comune due o tre punti, ma così facendo, perdeva la visione del problema nel suo insieme. Anche l'eccessiva profondità può essere dunque un difetto. Non sempre la verità è in fondo a un pozzo. In effetti, per quel che riguarda le questioni più importanti, sono convinto che essa sia invariabilmente superficiale. Profonde sono le valli dove noi l'andiamo a cercare, ma è sulle vette delle montagne che la si può trovare. Gli aspetti e le origini di questo tipo di errore si trovano caratteristicamente rappresentati nella contemplazione dei corpi celesti. Guardare una stella con un'occhiata, e guardarla di lato, volgendo verso di essa le pareti esterne della rétina (che, più delle interne, sono sensibili alle deboli impressioni della luce), significa contemplarla distintamente, significa poter apprezzare al massimo grado la sua luminosità, luminosità che si affievolisce a misura che volgiamo su di essa tutta la nostra vista. Un maggior numero di raggi investe effettivamente l'occhio in questo secondo caso, ma è il primo modo di visione che ci consente una percezione più raffinata. Una profondità non necessaria turba e indebolisce il pensiero; e un esame troppo prolungato, troppo concentrato o diretto potrebbe far svanire dal firmamento la stessa Venere.
"In quanto a questo delitto, conduciamo un'inchiesta per conto nostro, prima di formulare un qualsiasi parere in merito. Una piccola indagine ci procurerà un po' di svago," (pensai che non fosse il termine più appropriato al caso, ma non feci commenti), "e poi una volta Le Bon mi ha reso un servizio di cui gli sono ancor oggi grato. Andiamo a vedere l'appartamento coi nostri occhi. Conosco G..., il prefetto di polizia, e non mi sarà difficile ottenere il permesso necessario".
Il permesso fu ottenuto e senza indugi ci recammo in Rue Morgue.
E' questa una delle miserabili strade che corrono fra Rue Richelieu e Rue St.-Roch. Ci arrivammo che era tardo pomeriggio, poiché questo quartiere dista di parecchio da quello in cui noi abitavamo. Trovammo facilmente la casa, perché c'erano ancora molte persone che dal marciapiede opposto guardavano in su verso le imposte chiuse, curiosando oziosamente. Era una delle tante case come se ne vedono a Parigi, con un portone, e su un lato di questi uno sgabuzzino a vetri con una finestra scorrevole, fungente da ' loge de concierge '. Prima di entrare, risalimmo la strada, imboccammo un vicolo, e quindi, svoltando di nuovo, uscimmo sul retro della casa; intanto Dupin esaminava non solo l'edificio, ma le immediate vicinanze con un'attenzione così minuziosa di cui non riuscivo a spiegarmi la ragione. Ritornando sui nostri passi ci portammo di nuovo sul davanti della casa, suonammo, e, dopo aver mostrato il nostro lasciapassare, fummo introdotti dagli agenti di servizio. Salimmo di sopra, nella camera dove era stato trovato il corpo di Mademoiselle L'Espanaye, e dove tuttora venivano tenuti i due cadaveri. Come d'uso la stanza era stata lasciata nel disordine in cui la si era rinvenuta. Non scorsi nulla oltre a quello che la ' Gazette des Tribunaux ' aveva descritto. Dupin esaminò attentamente ogni cosa, compresi i corpi delle vittime. Passammo quindi nelle altre stanze e nel cortiletto, sempre scortati da un gendarme. Questo esame ci tenne occupati fino a sera, quando ci congedammo. Prima di rincasare il mio amico si fermò un momento alla redazione di un quotidiano.
Ho detto che le manie del mio amico erano molteplici e che ' je le mènageais '; poiché questa espressione non ha equivalenti in inglese. Ecco che ora, per esempio, era in uno stato d'animo per cui preferì evitare qualsiasi discorso che avesse per oggetto il delitto, fino al mezzogiorno circa dell'indomani. Fu allora che mi chiese all'improvviso se avessi notato qualcosa di particolare sul luogo dove era stato commesso il delitto.
Il suo modo di enfatizzare la parola ' particolare ' mi fece rabbrividire senza che ne capissi il perché.
"No, nulla di speciale," dissi, "perlomeno non più di quanto abbiamo visto entrambi pubblicato sui giornali".
"Temo che la ' Gazette, ' rispose Dupin, "non abbia pienamente afferrato l'insolito orrore della faccenda. Ma non occupiamoci dei commenti oziosi della stampa. Pare a me che questo mistero sia considerato insolubile proprio per la ragione che lo dovrebbe far considerare di facile soluzione, vale a dire per l'elemento ' outré ' che gli è caratteristico. La polizia è messa in imbarazzo dall'apparente assenza di motivo, non dal delitto in se stesso, ma dalla sua atrocità. E' anche disorientata dall'apparente impossibilità di conciliare le voci udite nell'alterco con il fatto che nessuno fu trovato di sopra ad eccezione di Mademoiselle L'Espanaye già cadavere e che non c'erano vie d'uscita che potessero sfuggire all'attenzione del gruppetto di accorsi in atto di salire le scale. Il terribile disordine della stanza; il cadavere issato, a testa in giù, su per il camino; la spaventosa mutilazione del corpo della vecchia signora; tutte queste considerazioni, insieme con quelle che ho appena menzionate ed altro che non occorre ricordare, sono bastate a paralizzare le forze dell'ordine, sviando completamente il tanto celebrato ACUMEN degli agenti. Essi hanno commesso l'errore grossolano ma comune di confondere l'insolito con l'astruso. Ma è attraverso queste deviazioni dal piano dell'ordinario, che la ragione si fa strada, se pur ci riesce, alla ricerca della verità. In indagini sul tipo di quelle che stiamo ora conducendo, non ci si dovrebbe tanto chiedere 'che cosa è avvenuto', quanto 'che cosa è avvenuto che non sia mai accaduto prima'. Infatti la facilità con la quale arriverò o sono arrivato a districare questo mistero, è in rapporto diretto con quello che agli occhi della polizia appare come l'elemento insolubilità".
Fissai il mio interlocutore con attonito sbalordimento.
"Ora sto aspettando," continuò, guardando verso la porta del nostro appartamento, "ora sto aspettando una persona che, anche se probabilmente non è l'esecutore materiale di questa strage, deve esservi in qualche modo implicato. Della parte peggiore dell'assassinio commesso, è, con tutta probabilità, innocente.
Spero che la mia supposizione non sia errata; perché è su questa tesi che mi baso per risolvere l'intero enigma. Costui può arrivare qui, in questa stanza, da un momento all'altro. E' vero che potrebbe anche non venire, ma è più probabile il contrario. Se viene bisognerà trattenerlo. Qui ci sono le pistole, ed entrambi sappiamo come usarle all'occasione".
Presi le pistole, quasi senza rendermi conto di quel che facevo e stentando a credere a quel che udivo, mentre Dupin continuava, come in un soliloquio. Ho già parlato del fare distaccato che assumeva in momenti simili. Le sue parole erano rivolte a me, ma la sua voce, pur rimanendo bassa, aveva quell'intonazione che si prende di solito quando si debba parlare a qualcuno che ci è molto lontano. Gli occhi, privi d'espressione, fissavano soltanto la parete.
"Che le voci alzantesi in alterco," disse, "udite dalle persone che salivano le scale, non fossero le voci delle due donne, è stato esaurientemente dimostrato attraverso le deposizioni. Questo ci toglie ogni dubbio circa la possibilità che la vecchia signora abbia prima ucciso la figlia e si sia quindi soppressa. Accenno a questo punto soltanto per amore di metodo; poiché la forza di Madame L'Espanaye sarebbe stata nettamente sproporzionata al compito di spingere il cadavere della figlia su per il camino nella posizione in cui è stato rinvenuto; e il genere di ferite riscontrate sulla sua persona escludono nel modo più assoluto la tesi del suicidio. Il delitto quindi è stato commesso da una terza persona, o da più persone e furono le voci di queste che il gruppetto di accorsi sentì levarsi nella lite. Passiamo adesso ad esaminare non il complesso delle testimonianze forniteci su queste voci, ma ciò che in esse vi è di singolare. Non avete notato niente di strano voi?" Risposi che mentre tutti i testi si erano trovati d'accordo nel ritenere che la voce roca apparteneva a un francese, si era invece riscontrata molta diversità di opinioni circa quella stridula, o, come qualcuno l'aveva definita, aspra.
"Questo è quel che venne testimoniato," disse Dupin, "ma non riflette ancora la singolarità della deposizione. Voi non avete osservato nulla di particolare. Eppure c'era qualcosa da osservare. I testi, come avete notato, furono tutti concordi per quel che riguarda la voce roca; su questo particolare erano unanimi. Ma circa la voce stridula, lo strano consiste non tanto nel contraddirsi in questione, quanto nel fatto che, tentando di descriverla, un italiano, un inglese, uno spagnolo, un olandese e un francese, ne parlassero tutti come della voce di uno STRANIERO.
Ciascuno di loro è certo che non si tratti della voce di un suo connazionale. Ciascuno la confronta non alla voce di un individuo di una certa nazionalità la cui lingua gli sia conosciuta, ma esattamente al contrario. Il francese ritiene che la voce sia di uno spagnolo, e 'avrebbe potuto distinguere qualche parola SE AVESSE CONOSCIUTO LO SPAGNOLO'. L'olandese afferma trattarsi della voce di un francese; ma troviamo dichiarato che 'non comprendo il francese', questo testimone è stato interrogato a mezzo di un interprete. L'inglese pensa che la voce appartenga a un tedesco, e 'non conosce il tedesco'. Lo spagnolo 'è sicuro' che sia la voce di un inglese, ma 'giudica unicamente dall'intonazione' perché 'non conosce l'inglese'. L'italiano ritiene che appartenga a un russo, ma 'non ha mai conversato con un russo'. Un secondo francese smentisce addirittura il primo, e sostiene con fermezza trattarsi della voce di un italiano, ma, 'non conoscendo quella lingua', ne è, al pari dello spagnolo, 'convinto dalla intonazione'. Ora, doveva pur essere stranamente insolita quella voce per dar luogo a deposizioni tanto discordanti, se, nel suo accento, cittadini di cinque grandi stati europei non riuscivano a distinguere nulla di familiare! Si potrebbe pensare alla voce di un asiatico o di un africano. Ora, né africani né asiatici abbondano a Parigi; ma senza rigettare questa ipotesi, mi limiterò a richiamare la vostra attenzione su tre punti. La voce è definita da uno dei testi 'aspra più che stridula'. Da altri due è descritta 'rapida e sconnessa'. Nessuna parola, nessun suono assomigliante a parola, venne afferrata da alcun testimone".
"Non so," continuò Dupin, "che impressione posso aver prodotto fin qui sulla vostra mente; ma non esito ad affermare che anche solo da questa parte della deposizione - quella relativa alle due voci, la roca e la stridula - si possono trarre delle deduzioni legittime, sufficienti di per sé a sollevare un dubbio che potrebbe dare un preciso indirizzo agli ulteriori sviluppi nell'indagine di questo mistero. Ho parlato di ' deduzioni legittime ', ma con questo non ho espresso chiaramente il mio pensiero. Volevo implicare che le deduzioni sono le sole esatte, e che il sospetto deriva inevitabilmente da esse come unico risultato possibile. Di quale sospetto si tratti però, non intendo dirlo per ora. Desidero soltanto che ricordiate che - per quanto mi concerne - è stato sufficientemente efficace per dare una forma definitiva, una esatta direzione alle mie investigazioni nella mia camera.
"Trasportiamoci ora con l'immaginazione in quella stanza. Che cosa vi cercheremo innanzi tutto? La via d'uscita seguita dagli assassini. E' superfluo dire che né io né voi crediamo ad interventi soprannaturali. Madame e Mademoiselle L'Espanaye non sono state assassinate da spiriti. Gli esecutori del misfatto erano esseri in carne e ossa e sono fuggiti materialmente. E allora, in che modo? Per fortuna esiste un'unica possibilità di ragionamento su questo punto, ed è un modo questo che deve condurci ad una conclusione ben definita. Esaminiamo, una per una, le diverse vie d'uscita. E' evidente che mentre gli accorsi salivano su per le scale, gli assassini si trovavano nella stanza dove fu rinvenuta Mademoiselle L'Espanaye, o almeno nella camera attigua. Sono quindi solo due stanze in cui dobbiamo cercare le possibili vie d'uscita. La polizia ha esaminato i pavimenti, i soffitti e il mattonato delle pareti in tutte le direzioni.
Nessuna uscita segreta avrebbe potuto sfuggire al loro esame. Ma non fidandomi dei loro occhi, ho voluto constatare di persona. Non vi era proprio nessuna uscita segreta. Entrambe le porte che si aprono dalle stanze sul corridoio erano chiuse ermeticamente, con le chiavi all'interno. Passiamo ai camini. Questi, sebbene presentino una certa larghezza lungo un tratto di una decina di piedi al di sopra del focolare, non permetterebbero il passaggio nemmeno a un grosso gatto per il rimanente della loro lunghezza.
"Provata l'assoluta impossibilità di fuggire attraverso queste vie, non ci rimangono che le finestre. Da quelle della stanza che dà sulla facciata nessuno avrebbe potuto fuggire senza essere veduto dalla folla raccoltasi nella strada. Gli assassini devono essere dunque passati da quelle della camera sul retro. Ora, giunto a questa conclusione in modo così inconfutabile, non è degno di noi, in quanto esseri dotati di raziocinio, respingerla sulla base di un'impossibilità apparente. Ci resta solo da provare che questa apparente ' impossibilità ' non è in realtà tale.
"Nella stanza ci sono due finestre. Una di esse non è ostruita da alcun mobile, ed è tutta visibile. L'estremità inferiore dell'altra è nascosta dalla testata del letto massiccio che vi è appoggiata contro. La prima è stata trovata chiusa saldamente dall'interno. Ha resistito ai ripetuti sforzi di coloro che hanno tentato di aprirla. Sull'intelaiatura, a sinistra, era stato praticato un grosso foro, in cui si trovò conficcato fino quasi alla capocchia un grosso chiodo. Esaminando l'altra finestra vi si trovò conficcato nello stesso modo un chiodo simile al primo; e anche qui fallì l'energico tentativo fatto per aprire quest'altro telaio. Così la polizia si confermò nella certezza che la fuga non poteva essere avvenuta in queste direzioni. E, di conseguenza, si pensò che fosse del tutto inutile estrarre i chiodi e aprire le finestre.
"Il mio esatto esame fu un po' più minuzioso, proprio per la ragione a cui ho accennato: perché era su questo punto, lo sapevo, che bisognava dimostrare che le impossibilità apparenti tali non erano in realtà.
"Procedetti con questo ragionamento ' a posteriori '. Gli assassini erano fuggiti attraverso una di queste finestre. In questo caso non avevano potuto rinchiudere le finestre dall'interno, come furono trovate; considerazione questa che, per la sua evidenza, fece bloccare ogni ulteriore esame della polizia in questa direzione. Eppure le finestre erano chiuse. Dunque dovevano avere la possibilità di chiudersi automaticamente. Era giocoforza arrivare a questa conclusione. Mi avvicinai alla finestra non ostruita dalla mobilia, con qualche difficoltà ne estirpai il chiodo e tentai di aprirla. Come avevo previsto, resistette a tutti i miei sforzi. Compresi soltanto che doveva esserci una molla nascosta; e questa conferma della mia idea mi convinse che, almeno, la mia ipotesi era esatta, anche se le circostanze relative ai chiodi continuavano a rimanere misteriose.
Una scrupolosa ricerca mi rivelò ben presto il congegno nascosto.
Premetti la molla, e, soddisfatto, rinunciai a sollevare il saliscendi.
"Rimisi il chiodo al suo posto e l'osservai attentamente. Una persona che fosse uscita dalla finestra avrebbe potuto rinchiuderla, e la molla sarebbe così scattata, ma non avrebbe potuto rimettere a posto il chiodo. La conclusione era evidente e ancora una volta veniva a restringere il campo delle mie ricerche.
Gli assassini dovevano esser fuggiti attraverso l'altra finestra.
Supponendo allora che le molle di entrambi i saliscendi fossero uguali, come del resto era probabile, doveva esserci una differenza nei chiodi, o perlomeno nel modo in cui erano stati incastrati. Salito sul pagliericcio del letto, ispezionai attentamente, al di sopra della testata, la seconda finestra.
Passando la mano dietro il letto, trovai facilmente la molla e la schiacciai. Anche questo congegno, come avevo supposto, era in tutto e per tutto identico all'altro. Passai quindi ad esaminare il chiodo. Era robusto come il primo, e apparentemente conficcato nel legno allo stesso modo, ribattuto fin quasi alla capocchia.
"Voi penserete che sia rimasto perplesso, ma così facendo dareste prova di avere frainteso la natura delle mie intenzioni. Per usare un'espressione cara agli sportivi, non sono uscito una sola volta 'fuori pista'. Non avevo perso la mia traccia nemmeno per un attimo. Non mancava che un anello alla mia catena. Avevo sviscerato il segreto fino al suo ultimo stadio, rappresentato dal CHIODO. Questo, come vi ho detto, era sotto tutti gli aspetti uguale al suo compagno dell'altra finestra; ma tale fatto non significava nulla (nonostante potesse sembrare determinante) di fronte alla considerazione che qui, a questo punto, terminava la traccia. 'Ci deve essere qualcosa che non va,' mi dissi, 'in quel chiodo'. Lo toccai e la capocchia, con circa un quarto di pollice del gambo, mi restò fra le mani. Il resto del chiodo era rimasto nel buco, dove era stato spezzato. La frattura sembrava di vecchia data (poiché i bordi erano incrostati di ruggine), e pareva essere stata provocata da un colpo di martello che aveva in parte conficcato la testa del chiodo nella parte alta del saliscendi inferiore. Rimisi quindi con cura la capocchia nella cavità da cui l'avevo tolta, e la rassomiglianza con un vero chiodo fu perfetta; la crepa era invisibile. Premendo la molla, alzai delicatamente la finestra di qualche pollice; la testa del chiodo si alzò con essa rimanendo ben salda nel suo incavo. Richiusi la finestra, e di nuovo la rassomiglianza con un chiodo fu assoluta.
"Fino a questo punto l'enigma era stato sciolto. L'assassino era fuggito dalla finestra che dava sul letto. Scendendo automaticamente dopo la sua uscita (o forse anche chiusa di proposito), essa era stata bloccata per mezzo della molla; ed era stata la tenuta della molla ad essere scambiata dalla polizia per l'azione del chiodo, il che aveva fatto loro ritenere superflue ulteriori ricerche.
"Il problema successivo riguarda la discesa. A questo riguardo avevo già condotto soddisfacenti indagini durante il giro fatto con voi intorno al caseggiato. A circa cinque piedi e mezzo dalla finestra in questione corre un cavo da parafulmine. Da questo cavo sarebbe impossibile a chiunque raggiungere la finestra, e tanto meno penetrarvi all'interno. Notai tuttavia che le imposte del quarto piano erano del tipo che i falegnami parigini chiamano 'ferrades' - sono scuri che ben raramente vengono usati oggigiorno, ma che sono frequenti nelle antiche case di Lione e Bordeaux. Hanno la forma di una comune porta (a battente unico), con la sola differenza che la parte superiore è a inferriata oppure lavorata a graticcio e offre pertanto un eccellente appiglio alle mani. Nel nostro caso sono larghe tre buoni piedi e mezzo. Quando le vedemmo dal retro della casa, erano entrambe semiaperte, formavano cioè un angolo retto con il muro. E' probabile che anche la polizia, al pari di me, abbia esaminato il resto del caseggiato; ma, in questo caso, guardando le ferrades nel senso della larghezza (come devono aver fatto) deve essere loro sfuggita l'entità di questa ampiezza o, comunque, devono aver trascurato di tenerla nella debita considerazione. Infatti, una volta convintisi che nessuna uscita era possibile da questa parte, era naturale che vi svolgessero un'ispezione piuttosto superficiale. Però io capii subito che l'imposta della finestra situata dietro al letto, quando fosse stata spalancata completamente, si sarebbe trovata a circa due piedi dal cavo del parafulmine. Era anche evidente che, facendo uso di un eccezionale grado di agilità e di coraggio, si sarebbe potuto, dal cavo, entrare attraverso la finestra. A una distanza di due piedi e mezzo (sempre supponendo che l'imposta fosse completamente spalancata) un ladro avrebbe potuto aggrapparsi saldamente al traliccio dell'inferriata. Lasciando quindi andare la presa del cavo, puntando fermamente i piedi contro il muro, e compiendo un grande balzo, avrebbe potuto far oscillare l'imposta fino a chiuderla, e, se supponiamo che in quel momento la finestra si trovasse aperta, proiettarsi perfino dentro alla stanza.
"Vorrei che vi soffermaste particolarmente sul fatto che ho parlato di un grado eccezionalmente inconsueto di agilità come requisito indispensabile per riuscire in un'impresa così ardua e difficile. E' mia intenzione dimostrarvi, in primo luogo, che era possibile compierla: ma in secondo luogo e SOPRATTUTTO, desidero attirare la vostra attenzione sul carattere straordinario, quasi soprannaturale di quella agilità che avrebbe potuto portare ad effetto l'impresa.
"Direte senza dubbio, ricorrendo al linguaggio legale, che 'per provare le mie affermazioni' dovrei sottovalutare l'agilità richiesta dal caso piuttosto che insistere a volerla mettere in piena evidenza. Questo sarebbe il processo seguito dalla legge, ma non proprio quello della mia ragione. Il mio fine ultimo è semplicemente la verità. Il mio scopo immediato è di condurvi a combinare questa agilità eccezionalmente insolita di cui ho parlato, con quella voce molto strana, stridula (o aspra) e sconnessa, sulla cui nazionalità non ci furono due persone che riuscissero a mettersi d'accordo, e nei cui suoni non si è riusciti a identificare nemmeno una sillaba".
A queste parole un'idea vaga, informe di quel che Dupin intendeva dire mi balenò nella mente. Mi pareva di essere sull'orlo della comprensione, senza peraltro la capacità di capire, come gli uomini a volte si trovano sul punto di ricordare, senza poter per tanto riuscire a far riemergere il ricordo dall'oblìo.
Il mio amico proseguì.
"Avrete notato," disse, "che ho spostato il problema dalla via d'uscita alla via d'entrata. Era mia intenzione suggerire l'idea che sia una che l'altra sono state effettuate alla stessa maniera nello stesso punto. Ritorniamo ora all'interno della stanza.
Esaminiamo lo stato in cui fu trovata. I cassetti del comò, si è detto, sono stati saccheggiati, anche se molti capi di vestiario vi si trovassero tuttora. Questa conclusione è assurda. E' una semplice supposizione e nulla più, e per giunta molto sciocca.
Come possiamo sapere se gli articoli trovati nei cassetti non rappresentassero l'intero contenuto di questi ultimi? Madame L'Espanaye e sua figlia conducevano una vita molto ritirata... non vedevano nessuno... uscivano raramente... non avevano certo bisogno di cambiarsi sovente d'abito. Quelli trovati non erano per qualità inferiori a qualsiasi altro capo che le signore potessero possedere. Ora, se un ladro aveva rubato qualcosa, perché non si era preso il meglio... perché non aveva trafugato tutto? Insomma, perché avrebbe dovuto abbandonare quattromila franchi in oro per caricarsi un fagotto di biancheria? L'oro fu lasciato. Quasi tutta la somma a cui accennò Monsieur Mignaud, il banchiere, fu rinvenuta in borse sul pavimento. Vi prego pertanto di scacciare dalla mente l'idea avventata del ' movente ', spuntata nel cervello degli agenti di polizia in seguito a quelle deposizioni che accennano ad una consegna di denaro sulla porta di casa.
Coincidenze dieci volte più straordinarie di questa (consegna del denaro, e assassinio commesso entro tre giorni dall'avvenuto ricevimento), accadono a ciascuno di noi in ogni momento della nostra vita senza attirare neppure momentaneamente l'attenzione.
Di solito le coincidenze sono dei gravi inciampi sul cammino di quella classe di pensatori educati a ignorare la teoria delle probabilità, quella teoria alla quale gli oggetti più insigni dell'umana ricerca devono le più insigni illustrazioni. Nel nostro caso, se l'oro fosse scomparso, il fatto di essere stato consegnato tre giorni prima avrebbe dato adito a qualcosa di più di una semplice coincidenza. Avrebbe costituito una conferma a quest'ipotesi del movente. Ma, da come sono andate effettivamente le cose, se supponiamo che l'oro sia stato il motivo di questa carneficina, dobbiamo anche pensare che il suo esecutore fosse un idiota così titubante da rinunciare e all'oro e al movente insieme.
"Ora, tenendo bene a mente i punti su cui ho richiamato la vostra attenzione, - quella voce strana, l'insolita agilità e la stupefacente assenza di motivo di un assassinio come questo stranamente selvaggio - passiamo a esaminare la strage stessa.
Abbiamo una donna strangolata con le mani e introdotta per la cappa del camino a testa all'ingiù. Gli assassini comuni non uccidono in questo modo. E meno che mai si disfanno così della vittima. Nel modo con cui il cadavere è stato incastrato nel camino, converrete che c'è qualcosa di eccessivamente ' outré ':
qualcosa del tutto incompatibile con il concetto che di solito noi ci facciamo relativamente alle azioni umane, anche quando supponiamo che gli autori siano uomini fra i più depravati.
Pensate poi quanta forza ci deve essere voluta per spingere con tanta violenza il corpo su per il camino attraverso un'apertura da cui a malapena poterono disincagliarlo gli sforzi combinati di diverse persone!
"Occupiamoci ora degli altri indizi attestanti l'impiego di una forza così prodigiosa. Nel caminetto c'erano delle ciocche folte - molto folte - di capelli umani grigi. Sapete bene quanta forza occorra per strappare a questo modo dalla testa in una sola volta anche soltanto venti o trenta capelli. Avete visto le ciocche in questione, al pari di me. Le radici (vista atroce) erano raggrumate con dei frammenti di cuoio capelluto: segno inconfondibile della forza straordinaria esercitata a divellere forse mezzo milione di capelli in un sol colpo. Non soltanto la gola della vecchia signora era stata tagliata: la testa era letteralmente recisa dal busto: e l'arma era un semplice rasoio.
Voglio che vi soffermiate anche sulla BRUTALE ferocia di questi atti. Non parlerò delle ecchimosi riscontrate sul corpo di Madame L'Espanaye. Monsieur Dumas e il suo insigne collega Monsieur Etienne, hanno dichiarato che vennero inflitte da qualche oggetto contundente; e fin qui questi signori sono nel vero. Lo strumento ottuso era evidentemente il pavimento di pietra del cortiletto su cui la vittima è piombata cadendo dalla finestra dietro al letto.
Questa idea, per semplice che possa sembrare ora, non venne in mente alla polizia per la stessa ragione per cui sfuggì l'ampiezza delle imposte: perché la faccenda dei due chiodi aveva loro impedito, nel modo più assoluto, di prendere in considerazione l'eventualità che le finestre fossero mai state aperte.
"Se ora, in aggiunta a tutte queste considerazioni si riflette attentamente sullo strano disordine della camera, si arriva al punto di combinare l'idea di una sorprendente agilità, di una forza sovrumana, di una brutale ferocia, di una strage senza movente, di una ' grotesquerie ' d'orrore assolutamente incompatibile con la natura umana, e di una voce che risuona straniera alle orecchie di uomini di diversa nazionalità, e priva di qualsiasi sillabazione distinta o intelligente. Che conclusione se ne può dunque dedurre? Che impressione ho fatto sulla vostra mente?" Mi sentii percorrere da un brivido mentre Dupin mi rivolgeva la sua domanda.
"Deve essere stato un pazzo," dissi, "a compiere questo delitto; qualche pazzo furioso fuggito da una Maison de Santé nelle vicinanze".
"In un certo senso," rispose, "la vostra idea ha un qualche fondamento. Ma le voci dei pazzi, anche se in preda alle crisi più furiose, non sono mai state paragonabili a quella voce singolare udita sulle scale. I pazzi sono pur di una data personalità, e il loro linguaggio, anche se si esprimono con parole sconnesse, conserva sempre una coerenza di sillabazione. Inoltre i capelli di un pazzo non sono come quelli che vedete ora in mano mia. Ho strappato questo ciuffetto di peli dalle dita rigidamente serrate di Madame L'Espanaye. Ditemi che cosa ne pensate".
"Dupin," esclamai completamente sconvolto, "ma questi capelli sono stranamente insoliti... non sono capelli UMANI".
"Non ho detto che lo siano," replicò, "ma prima di decidere su questo punto, vorrei che osservaste lo schizzo che ho tracciato su questo pezzo di carta. E' un fac-simile di quanto è stato descritto in una deposizione come 'ecchimosi violaceee e marcate impronte di unghie', sulla gola di Mademoiselle L'Espanaye, e in un'altra (dei Signori Dumas e Etienne), una 'serie di lividure, evidentemente dovute a impronte di dita'.
"Noterete," continuò il mio amico, svolgendo il foglio sul tavolo che ci stava davanti, "che questo disegno dà l'idea di una presa forte e salda. Non appare nessun segno di allentamento. Ciascun dito ha tenuto, probabilmente fino alla morte della vittima, la spaventosa stretta in cui si era all'inizio affondato nelle carni.
Cercate ora di far coincidere le vostre impronte, tutte insieme, con quelle che qui vedete".
Mi sforzai inutilmente di farlo.
"Probabilmente non stiamo facendo la prova come dovremmo," disse.
"Il foglio di carta è spiegato su di una superficie piana, mentre la gola umana è cilindrica. Qui c'è un ceppetto di legno la cui circonferenza corrisponde più o meno a quella di un collo.
Avvolgetevi attorno il disegno e ritentate l'esperimento".
Così feci, ma la difficoltà riuscì ancora più evidente di prima.
"Questa," dissi, "non è un'impronta di mano umana".
"Adesso leggete questo brano di Cuvier," disse Dupin.
Era una relazione minuziosa sull'anatomia e le caratteristiche generali del grande orang-utang fulvo delle isole Indo-Orientali.
Sono abbastanza note a tutti la statura gigantesca, la selvaggia ferocia e le attitudini imitative di questi mammiferi. Di colpo afferrai tutto l'orrore del delitto.
"La descrizione delle dita," dissi, quando ebbi finito di leggere, "concorda perfettamente con questo disegno. Nessun animale tranne un orang-utang, della specie qui descritta, avrebbe potuto lasciare delle impronte sul tipo di quelle che avete qui disegnato. Anche questa ciocca di peli fulvi presenta delle caratteristiche identiche a quelle attribuite all'animale di Cuvier. Ma quel che non riesco assolutamente a capire sono i particolari di questo orrendo mistero. Inoltre due erano le voci udite nell'alterco, e di queste una apparteneva indiscutibilmente a un francese".
"E' vero; e ricorderete un'espressione attribuita a questa voce da quasi tutti i testimoni, l'espressione: 'mon Dieu!'. Queste due parole, date le circostanze sono state giustamente interpretate da uno dei testi (Montani, il pasticcere), come un'esclamazione di rimostranza o di supplica. Su di esse quindi ho riposto principalmente le mie speranze di risolvere l'intero enigma. Un francese era a conoscenza del delitto. E' possibile, - anzi è più che probabile, - che sia innocente per quel che riguarda la partecipazione ai fatti di sangue che sono stati commessi. Può darsi che l'orang-utang gli sia sfuggito. Può darsi che lo abbia seguito fino a quella stanza, senza peraltro poterlo ricatturare a seguito delle spaventose circostanze che seguirono. L'animale è ancora libero. Non svilupperò ulteriormente queste ipotesi, - ché non ho il diritto di definirle altrimenti, - dal momento che la consistenza di ragionamento su cui sono basate è a malapena sufficiente per renderle percepibili alla mia mente, e dato che non potrei pretendere di tradurle in termini comprensibili all'intelletto di un altro. Chiamiamole dunque congetture, e parliamone come tali. Se il francese in questione è davvero, come suppongo, innocente di quell'atrocità, questo annuncio che tornando a casa ieri sera, ho lasciato alla redazione di ' Le Monde ' (un giornale che si occupa di questioni marittime e molto letto dai marinai), ce lo porterà qui a casa".
Mi porse un giornale su cui lessi:
"CATTURATO nel Bois de Boulogne, all'alba del... corrente (la mattina del delitto), un grosso orang-utang fulvo della specie del Borneo. Il proprietario (che si sa essere un marinaio appartenente a una nave maltese), potrà rientrarne in possesso dopo che lo avrà identificato in modo soddisfacente e rimborsato le spese di cattura e mantenimento. Rivolgersi al n. . ., Faubourg St.-Germain . . . terzo piano".
"Come avete fatto," chiesi, "a sapere che l'uomo è un marinaio e appartiene a una nave maltese?" "Non è che lo sappia," rispose Dupin, "non ne sono CERTO. Qui però c'è un pezzettino di nastro che dalla forma e dall'unto che lo ricopre è servito evidentemente a legare i capelli in una di quelle lunghe ' queues ' di cui i marinai vanno pazzi. Per giunta pochi che non siano marinai riescono a fare questo nodo che è caratteristico dei maltesi. Ho raccolto il nastro ai piedi del cavo del parafulmine. Non poteva appartenere a nessuna delle vittime. Ma se, dopo tutto, mi fossi sbagliato nel concludere, deducendo, da questo nastro, che il francese è un marinaio appartenente a una nave maltese, non avrei provocato nessun danno dicendo quel che ho detto nell'annuncio. Se sono in errore, egli si limiterà a supporre che sono stato sviato da qualche circostanza su cui egli non si prenderà la briga di indagare. Ma se ho ragione allora guadagno un punto molto importante. Testimone oculare, anche se innocente del delitto, il francese sarà naturalmente in dubbio se rispondere all'annuncio; se richiedere l'orang-utang. Ragionerà così: 'Sono innocente; sono povero; il mio orang-utang ha un gran valore - una vera fortuna per uno che si trovi nelle mie condizioni - perché dovrei perderlo per paura di un pericolo, paura che potrebbe essere infondata? Eccolo qui, a portata di mano. E' stato ritrovato nel Bois de Boulogne - a grande distanza dal luogo della strage. Chi potrebbe mai sospettare che sia stata una bestia a commettere un tal delitto?
La polizia è disorientata, non è approdata alla benché minima traccia. Anche nella possibilità che risalissero fino all'animale, non potrebbero provare che sono a conoscenza del delitto, o imputarmene colpevole perché ne sono al corrente. Soprattutto SONO CONOSCIUTO. Colui che ha fatto pubblicare l'annuncio mi definisce come il possessore dell'animale. Non so con certezza fino a che punto egli sappia. Il non reclamare una proprietà di così grande valore, quando si sa che essa mi appartiene, attirerebbe come minimo i sospetti sull'animale. Sarei un ingenuo se facessi convergere l'attenzione della polizia o su di me o sulla scimmia.
Risponderò all'annuncio, mi riprenderò l'orang-utang, e lo terrò chiuso finché sia sbollito l'interesse per questa faccenda'".
In quel momento udimmo un passo su per le scale.
"State pronto con le pistole," mi disse Dupin, "ma non usatele e state attento a non mostrarle finché non vi farò un segnale".
Il portone d'ingresso era stato lasciato aperto, e il visitatore era entrato senza suonare salendo qualche gradino delle scale. Ora però parve esitare. Dopo qualche istante lo sentimmo scendere.
Dupin fece per precipitarsi alla porta, ma ecco che quello riprese a salire. Questa volta non tornò più indietro, ma proseguì con decisione e bussò alla porta della nostra stanza.
"Avanti!", gridò Dupin, in un tono allegro e affabile.
Entrò un uomo. Era indubbiamente un marinaio - alto, forte, muscoloso, con una cert'aria spavalda nell'aspetto, tutt'altro che antipatica. Il viso, molto abbronzato, era nascosto per più di una buona metà dai baffi e dal ' mustacchio '. Aveva con sé un grosso bastone di quercia, ma pareva questa l'unica sua arma. S'inchinò goffamente, e salutò con un "buona sera" in un francese che, nonostante risentisse dell'accento di Neuchâtel, indicava ancora sufficientemente l'origine parigina.
"Accomodatevi, amico," disse Dupin, "immagino che siate venuto per l'orang-utang. Parola mia, quasi quasi ve lo invidio; un superbo esemplare, senza dubbio di grande pregio. Quanti anni credete che abbia?" Il marinaio trasse un lungo respiro, con l'aria di chi venga alleggerito di un peso insopportabile, e poi rispose, in un tono fattosi sicuro:
"Non saprei... ma non può avere più di quattro o cinque anni. Lo tenete qui?" "Oh no; non siamo attrezzati per tanto. Si trova in una scuderia di Rue Dubourg, qui vicino. Potrebbe rilevarlo domani mattina.
Immagino sarete in grado di comprovarne la legittima proprietà".
"Certo, signore".
"Mi dispiacerà separarmene," disse Dupin.
"Non vi sarete preso tutto questo disturbo per niente, signore, ve lo assicuro," disse l'uomo. "Chi ci ha mai pensato? Sono dispostissimo a pagare una ricompensa per la cattura dell'animale... qualcosa, beninteso, nei limiti del ragionevole".
"Bene," rispose il mio amico, "bene; questo è senza dubbio molto bello. Fatemi pensare! Che posso chiedervi? Oh, ecco, la mia ricompensa sarà questa. Mi darete tutte le informazioni di cui siete in possesso a proposito del delitto della Rue Morgue".
Dupin pronunciò le ultime parole con voce molto bassa e con la massima calma. Sempre con altrettanta tranquillità, si avviò verso la porta, la chiuse e si mise la chiave in tasca. Si tolse quindi una pistola dalla tasca interna della giacca deponendola, senza il minimo cenno di agitazione, sulla tavola.
Il marinaio arrossì come se fosse sul punto di soffocare. Balzò in piedi e afferrò il suo bastone; ma dopo un attimo si lasciò cadere sulla sedia, tremando violentemente, con una espressione cadaverica sul volto. Non disse una parola. Lo commiserai dal più profondo del cuore.
"Amico mio," disse Dupin gentilmente, "vi allarmate senza ragione, credetemi. Non vogliamo farvi del male. Vi assicuro sul mio onore di gentiluomo che non intendiamo arrecarvi alcun danno. So benissimo che non avete commesso le atrocità della Rue Morgue. Non potrete tuttavia negare di esservi in qualche modo implicato. Da quanto vi ho già detto, avrete capito che ho avuto delle informazioni su questa faccenda, da fonti che neanche vi immaginate. Ora le cose stanno così. Voi non avete fatto nulla che avreste potuto evitare, nulla di certo, che vi renda colpevole.
Non vi siete nemmeno reso imputabile di furto, quando invece avreste potuto rubare impunemente. Non avete nulla da nascondere né avete motivo per nascondere nulla. D'altra parte siete tenuto a confessare tutto quel che sapete per non venir meno a ogni principio d'onore. Un innocente è stato messo in prigione sotto l'accusa di aver commesso quel delitto di cui voi potete svelare l'autore".
Il marinaio aveva frattanto ripreso gran parte della sua presenza di spirito mentre Dupin pronunciava queste parole; ma la sua baldanza iniziale era del tutto svanita.
"E allora che Dio mi aiuti," disse, dopo una breve pausa. "Vi dirò quanto so di questa faccenda; ma non mi aspetto che crediate nemmeno la metà di quel che vi racconterò; sarei un vero pazzo se ci sperassi. Eppure SONO innocente, e mi toglierò questo peso dal cuore, anche se dovesse costarmi la vita".
Questo è quanto, in definitiva, ci disse. Recentemente aveva fatto un viaggio nell'Arcipelago Indiano. Un gruppetto di uomini, di cui egli faceva parte, era sbarcato a Borneo, e si era inoltrato nell'interno in gita di piacere. Lui e un suo compagno avevano catturato l'orang-utang. Alla morte del camerata l'animale era divenuto di sua esclusiva proprietà. Dopo molti guai causati dalla ferocia intrattabile dell'animale durante il viaggio di ritorno, era riuscito alla fine a sistemarlo al sicuro nel suo alloggio di Parigi, dove, per non attirare su di sé l'imbarazzante curiosità dei vicini, lo teneva relegato con cura finché non fosse guarito da una ferita alla zampa procuratagli a bordo da un scheggia del ponte. Suo progetto ultimo era quello di venderlo.
Tornando a casa la notte del delitto, o per meglio dire all'alba di quel giorno, da una bisboccia di marinai, aveva trovato la belva nella sua camera da letto, in cui aveva fatto irruzione da un ripostiglio adiacente dove il marinaio l'aveva rinchiuso, ritenendolo al sicuro. Col rasoio in mano e completamente insaponato , era seduto davanti ad uno specchio e tentava di radersi, come probabilmente aveva visto fare al suo padrone spiandolo dal buco della serratura del ripostiglio. Terrorizzato alla vista di un'arma tanto pericolosa nelle mani di un animale così feroce e abilissimo nell'usarla, l'uomo era rimasto per qualche momento in dubbio sul da farsi. Si era però abituato a calmare l'animale, anche nei suoi accessi più furiosi, ricorrendo a una frusta, e a questa pensò di affidarsi ora. Ma alla vista di questa l'orang-utang spiccò un gran balzo verso la porta, si precipitò giù per le scale, e di qui, attraverso una finestra, disgraziatamente aperta, si lasciò cadere nella strada.
Il francese lo inseguì disperato; la scimmia, sempre col rasoio in mano, si fermava di tanto in tanto per guardare indietro e motteggiare il suo inseguitore finché questi non le era quasi vicino. Poi riprendeva a fuggire. In questo modo l'inseguimento si trascinò a lungo. Le strade erano immerse in un profondo silenzio, poiché erano quasi le tre del mattino. Nel passare da un vicolo sul retro della Rue Morgue, l'attenzione dell'animale fu attratta da una luce che brillava attraverso la finestra aperta della camera di Madame L'Espanaye, posta al quarto piano della casa.
Precipitandosi verso l'edificio, la scimmia notò il cavo del parafulmine, vi si inerpicò con un'agilità incredibile, afferrò l'imposta che aderiva al muro, completamente spalancata, e in questo modo si proiettò direttamente all'interno, sopra la testata del letto. L'intera faccenda non richiese più di un minuto.
L'imposta venne riaperta con un calcio dall'orang-utang nell'atto di entrare nella camera.
Il marinaio frattanto era contento e perplesso allo stesso tempo.
Nutriva ora buone speranze di catturare la belva, dal momento che non avrebbe potuto facilmente uscire dalla trappola in cui si era cacciata se non prendendo la via del cavo, dove egli avrebbe potuto facilmente intercettarla qualora fosse scesa. D'altra parte però, c'era di che preoccuparsi di quel che avrebbe potuto combinare in quella casa. Quest'ultimo pensiero indusse l'uomo a persistere nella sua caccia. Non è difficile arrampicarsi su un cavo da parafulmine , specialmente per un marinaio; ma giunto all'altezza della finestra, che si trovava, discosta, alla sua sinistra, non gli fu più possibile proseguire; tutto quello che gli riuscì di fare fu di sporgersi in modo da poter dare un'occhiata all'interno della stanza. La vista che gli si offrì per poco non gli fece abbandonare la presa dall'orrore. Fu allora che si levarono nella notte le urla spaventose che destarono bruscamente gli abitanti della Rue Morgue. Madame L'Espanaye e sua figlia, già preparate per la notte, erano evidentemente occupate a riordinare delle carte nella cassaforte a cui si è già accennato, che era stata trasportata in mezzo al pavimento. Era aperta e il suo contenuto era sparpagliato per terra. Le vittime dovevano essere sedute con le spalle rivolte alla finestra; e a giudicare dalla pausa di tempo trascorsa dall'entrata della belva al momento delle urla, sembra probabile che di essa non si accorgessero immediatamente. Lo sbattere delle imposte poteva essere stato attribuito al vento.
Quando il marinaio guardò all'interno, la bestia gigantesca aveva afferrata Madame L'Espanaye per i capelli (che erano sciolti perché se li stava pettinando) e le agitava il rasoio sul viso, imitando i gesti di un barbiere. La figlia giaceva per terra esanime; era svenuta. Le grida e il furioso dibattersi della vecchia signora (a cui nel frattempo venivano strappati i capelli dalla testa) ebbero come effetto di mutare in furore le intenzioni probabilmente pacifiche dell'orang-utang. Con una sola mossa decisa del suo braccio nerboruto l'animale quasi le staccò la testa dal busto. La vista del sangue infiammò la sua collera fino alla frenesia. Digrignando i denti, e con gli occhi fiammeggianti, si gettò sul corpo della ragazza, affondandole gli unghioni nel collo e tenendo la presa finché non la vide spirare. In quel momento il suo sguardo che vagava qua e là feroce, cadde sulla testata del letto dietro alla quale si sporgeva il viso del padrone, irrigidito dall'orrore. La furia della belva, che senza dubbio temeva ancora la frusta, si mutò istantaneamente in terrore. Consapevole di meritare una punizione, parve desideroso di cancellare le tracce della sua sanguinosa impresa, e si mise a saltare qua e là per la stanza in un parossismo di agitazione nervosa , abbattendo e fracassando i mobili sul suo cammino, e strappando il pagliericcio dal letto. Alla fine, afferrò dapprima il corpo della figlia e lo forzò su per la cappa, come venne poi ritrovato; poi quello della vecchia signora che gettò fuori subito a capofitto dalla finestra.
Quando la scimmia si appressò alla finestra con il suo sanguinoso fardello, il marinaio, atterrito, indietreggiò verso il cavo, e lasciandosi scivolare più che calandosi, fuggì a casa; spaventato dalle conseguenze che sarebbero derivate dalla strage, e ben felice di non doversi preoccupare, nel suo terrore, della sorte dell'orang-utang. Le parole udite dalle persone che salivano le scale erano le esclamazioni di orrore e paura del francese, mescolate ai selvaggi mugolii dell'animale.
Ho ben poco altro da aggiungere. L'orang-utang doveva essere fuggito dalla stanza, giù per il cavo, poco prima che la porta venisse abbattuta. Doveva aver chiuso la finestra nel momento stesso in cui la scavalcava. La belva fu poi catturata dal suo stesso proprietario, che ne ricavò una forte somma, al Jardin des Plantes. Le Bon venne rilasciato all'istante dopo la nostra esposizione dei fatti (con qualche commento di Dupin) al bureau del prefetto di polizia. Questo funzionario, sebbene fosse ben disposto verso il mio amico, non riuscì a nascondere il suo disappunto per la piega che la faccenda aveva preso, e si lasciò andare volentieri a qualche sarcasmo sulla opportunità che la gente badasse agli affari propri.
"Lasciatelo dire," disse Dupin, che non aveva ritenuto necessario replicare. "Lasciatelo sfogare: lo aiuterà ad alleggerirsi la coscienza. Ne ho abbastanza di averlo sconfitto sul suo stesso terreno. Tuttavia il fatto che egli sia fallito nella risoluzione di questo mistero non è poi così sorprendente come ritiene; poiché, a dir la verità, il nostro amico prefetto è troppo astuto per essere profondo. La sua saggezza manca di STAMEN. E' tutta testa e non ha corpo, come le figurazioni della dea Laverna, o, se volete, tutta testa e spalle, come in un merluzzo. Mi piace soprattutto per una certa magistrale definizione mercè la quale si è guadagnato la sua attuale reputazione di uomo scaltro. Alludo alla sua abilità 'de nier ce qui est, et d'expliquer ce qui n'est pas'".
F I N E
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