mercoledì 4 agosto 2010

ROBERT LOUIS STEVENSON - ** LO STRANO CASO DEL DOTTOR JEKYLL E DEL SIGNOR HYDE **- ** IL SIGNORE DI BALLANTRAE **


ROBERT LOUIS STEVENSON
LO STRANO CASO DEL DOTTOR JEKYLL E DEL SIGNOR HYDE

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I
STORIA DELLA PORTA

L'avvocato Utterson era un uomo dall'aspetto rude, non s'illuminava mai di un sorriso; freddo, misurato e imbarazzato nel parlare, riservato nell'esprimere i propri sentimenti; era un uomo magro, lungo, polveroso e triste, eppure in un certo senso amabile. Nelle riunioni di amici, quando il vino era di suo gusto, gli traspariva negli occhi qualcosa di veramente umano; qualcosa che non trovava mai modo di risultare nelle sue parole, e che si manifestava, oltre che in quella silenziosa espressione della faccia dopo una cena, più spesso ancora e più vivamente nelle azioni della sua vita. L'avvocato era severo nei riguardi di se stesso; quando si trovava solo, beveva gin, per mortificare l'inclinazione verso i buoni vini; e, sebbene il teatro lo attirasse, non aveva mai varcato la soglia di un teatro in vent'anni. Nei riguardi del prossimo era tuttavia di una grande indulgenza; talvolta si meravigliava, quasi con invidia, della forza con la quale certi animi potevano venire spinti alla malvagità; e, in ogni occasione, era disposto più ad aiutare che a disapprovare. "Io tendo all'eresia di Caino", soleva dire argutamente, "lascio che mio fratello se ne vada al diavolo come meglio gli piace". Avendo un simile carattere, gli accadeva spesso di essere l'ultimo conoscente stimato, e di esercitare l'ultima buona influenza nella vita di uomini perduti. Costoro, sinché frequentavano la sua casa, venivano trattati senza il minimo mutamento di modi.
Indubbiamente questo contegno riusciva facile al signor Utterson, poiché egli era riservato al massimo grado, e anche le sue amicizie parevano fondate su una simile dottrina di bontà. È proprio dell'uomo modesto accettare il cerchio delle amicizie, così come sono, dalle mani della sorte; questo era il caso dell'avvocato. I suoi amici erano persone del suo stesso sangue, oppure gente che conosceva da lungo tempo; i suoi affetti, come l'edera, si sviluppavano con il tempo, e non implicavano particolari qualità nel loro oggetto. Di tal genere senza dubbio doveva essere il legame che lo univa al signor Richard Enfield, suo lontano parente, uomo molto conosciuto in città. Per molti restava un mistero cosa quei due potessero trovare uno nell'altro, e quali argomenti di conversazione potessero avere in comune. Coloro che li incontravano nelle loro passeggiate domenicali riferivano che non parlavano, e parevano singolarmente tediati, e salutavano con evidente sollievo l'apparire di un comune conoscente. E tuttavia, i due uomini tenevano in gran conto quelle passeggiate, considerandole il maggiore svago della loro settimana, e non solo scartavano ogni altra occasione di divertimento, ma resistevano persino al richiamo degli affari, per goderne senza interruzione.
In uno di quei vagabondaggi accadde che passassero per una strada secondaria di un quartiere affollato di Londra. La via era piccola e quel che si dice tranquilla, ma nei giorni feriali era piena di gente affaccendata. I suoi abitanti erano tutti gente agiata, a quanto pareva, e tutti speravano con emulazione di poter stare sempre meglio, e spendevano il sovrappiù dei loro guadagni in cose futili; perciò le vetrine dei negozi si allineavano lungo la via con aria invitante, come una fila di sorridenti venditrici. Anche la domenica, quando la strada velava la maggior parte dei suoi fascini, ed era relativamente vuota e quieta, splendeva pur sempre come un fuoco in mezzo alla foresta, a paragone con gli squallidi dintorni; e, con le sue persiane dipinte di fresco, gli ottoni ben lucidati, la sua pulizia generale e la sua vivacità di colori, colpiva subito e ammaliava l'occhio del passante.
A due porte dall'angolo, sul lato sinistro della strada procedendo verso est, la linea era spezzata dall'ingresso di un cortile, e, proprio in quel punto, sporgeva sulla via un sinistro fabbricato. Era alto due piani; non presentava finestre, solo una porta al piano inferiore, e una facciata cieca con il muro scolorito al piano superiore; recava in tutto i segni di una prolungata e sordida negligenza. La porta, senza campanello né battaglio, era sudicia e screpolata. I vagabondi sonnecchiavano nel vano, e accendevano i fiammiferi sui battenti; i bimbi giocavano sui gradini, e gli scolari avevano provato il loro temperino sul legno; e per quasi una generazione nessuno era mai apparso a cacciar via gli inopportuni visitatori né a riparare le loro malefatte.
Il signor Enfield e l'avvocato passavano sull'altro lato della strada; ma, quando arrivarono davanti a quell'ingresso, il primo alzò il bastone e lo indicò:
"Avete mai notato quella porta?" chiese; il compagno rispose" affermativamente, e allora lui aggiunse: "nella mia mente è connessa a una storia molto strana".
"Davvero?" disse il signor Utterson,, con un leggero mutamento di voce " di che storia si tratta?".
"Ebbene, è così", rispose il signor Enfield: " io stavo tornando a casa da qualche posto in capo al mondo, circa alle tre di una scura mattina d'inverno, e i miei passi mi portavano attraverso una parte della città dove non c'era letteralmente nulla da vedere se non lampioni. Una strada dopo l'altra - e tutta la gente addormentata - una strada dopo l'altra - e tutte illuminate come per una processione e tutte vuote come chiese - sinché alla fine mi trovai in quello stato d'animo nel quale uno si mette in ascolto, e comincia a desiderare di scorgere una guardia. A un tratto, vidi due figure: una era un uomo piccolo, che camminava in fretta verso est, e l'altra una bimba di circa otto o dieci anni che correva il più velocemente possibile per una via traversa. Ebbene, signore, quei due come era naturale si scontrarono all'angolo; allora accadde la cosa orribile: infatti l'uomo calpestò tranquillamente il corpo della bimba e la abbandonò che gridava, lì per terra. A sentir dire questo sembra nulla, ma era terribile a vedersi. Quello non somigliava a un uomo; era come una creatura infernale. Detti in un grido, mi misi a correre, e afferrai per il colletto il mio uomo, e lo riportai là, dove già s'era formato un gruppo di gente intorno alla bimba in lacrime. Si mostrava perfettamente calmo e non opponeva resistenza, ma mi lanciò un'occhiata, un'occhiata così atroce che mi bagnò di sudore quasi avessi corso a lungo. Coloro che erano comparsi appartenevano alla famiglia della bimba; e il dottore che avevano mandato a chiamare giunse subito sul posto. Ebbene, la bimba non aveva nulla di particolare, era solo spaventata, secondo il segaossi; e qui potreste credere che tutto finisse. Ma c'era una curiosa circostanza. Sin dalla prima occhiata il mio uomo mi aveva fatto orrore. Così. pure alla famiglia della piccola, cosa che era perfettamente naturale. Ma quello che mi colpì fu il caso del dottore. Egli era il solito medico angoloso e asciutto, senza età e senza colore, con un forte accento scozzese, incapace di emozioni come una cornamusa. Ebbene, signore, provava quello che provavamo tutti noi: ogni volta che guardava il mio prigioniero, vedevo il segaossi diventare pallido dal desiderio di ucciderlo. Sapevo cosa avesse in mente, proprio come lui sapeva cosa avessi in mente io. Ma, siccome un omicidio era fuor di questione, ci comportammo come meglio si poteva; dichiarammo all'uomo che noi potevamo fare e avremmo fatto un tale scandalo dell'accaduto, da infamare il suo nome da un capo all'altro della città. Se aveva amici, o qualsiasi credito, sarebbe stato nostro compito farglieli perdere. Mentre lo minacciavamo in simile modo, tenevamo le donne lontane da lui come meglio possibile, perché apparivano selvagge come furie. Non vidi mai un cerchio di facce così piene d'odio; e l'uomo stava nel mezzo, con una specie di tetra ironica freddezza - anche lui era spaventato, si vedeva bene - ma cercava di non mostrarlo, proprio come Satana. "Se avete deciso di divulgare questo incidente" disse "io, naturalmente, non ho possibilità di difendermi. Ma un gentiluomo preferisce sempre evitare le scene. Dite il vostro prezzo." Ebbene, riuscimmo a ottenere cento sterline per la famiglia della bimba; evidentemente lui avrebbe voluto cavarsela in altro modo, ma c'era qualcosa di minaccioso nelle nostre facce, e dovette cedere. Ora si trattava di prendere il denaro; e dove credete che ci accompagnò, se non qui, davanti a questa porta? Estrasse una chiave, aprì, entrò, e subito tornò fuori con dieci sterline, d'oro e un assegno per la banca Coutts, pagabile al portatore, e firmato con un nome che ora non posso dire, benché costituisca una delle cose principali della mia storia; ma era un nome per lo meno molto conosciuto e spesso stampato. La cifra era alta; ma la firma valeva ben di più, se non era falsa. Io mi presi la libertà di osservare al mio gentiluomo che tutta la faccenda mi sembrava losca, e che in realtà un uomo non può entrare in una cantina alle quattro del mattino, e uscirne con un assegno di circa cento sterline firmato da un'altra persona. Ma lui appariva completamente a proprio agio, e sorrideva con ironia. "Tranquillizzatevi" disse "resterò con voi sinché la banca non si aprirà, e riscuoterò io stesso l'assegno." Perciò ce ne andammo tutti, il dottore, il padre della bimba, l'amico e io, e passammo il resto della notte a casa mia; il giorno seguente, dopo aver fatto colazione, ci recammo, sempre tutti insieme, alla banca. Presentai l'assegno io stesso, e dissi che avevo tutte le ragioni per credere si trattasse di un falso. Invece, l'assegno era buono".
"Perbacco!" disse il signor Utterson.
"Vedo che anche voi la pensate come me", disse il signor Enfield. "Sì, è una brutta storia. Infatti il mio uomo era un tipo con il quale nessuno dovrebbe avere a che fare, un uomo veramente dannato; e la persona che aveva emesso l'assegno era la più onesta che si potesse pensare, e (quel che è peggio) uno di quei tipi che fanno veramente del bene. Un ricatto, immagino: un uomo onesto che paga per qualche errore di gioventù. "La casa del ricatto", così ora io chiamo di conseguenza quell'edificio con quella porta. Benché anche questo, vedete, non spieghi nulla," aggiunse, e, dette queste parole, s'immerse nel silenzio.
Fu tratto dalla sua meditazione dal signor Utterson che gli domandò piuttosto bruscamente:
"E non sapete se colui che aveva emesso l'assegno vivesse in quella casa?".
"In un posto simile?" rispose il signor Enfield.
"Ma credo di avere notato il suo indirizzo; abita in una piazza, non so bene quale".
"E non avete mai domandato nulla circa... quell'edificio della porta?" chiese il signor Utterson.
"No, signore: ebbi un certo scrupolo", fu la risposta. "Sono piuttosto contrario a fare domande; è troppo nello stile del giorno del giudizio. Se tu fai una domanda, è come se lanciassi una pietra. Te ne stai tranquillo sulla sommità di una collina; la pietra rotola giù, e ne smuove tante altre; sinché qualche ottimo vecchio (l'ultima persona cui pensavi), non viene colpito sulla testa nel suo giardino, e la famiglia deve cambiare nome. No, signore, ne ho fatto una regola per me: più una cosa appare curiosa, meno io domando".
"Un'ottima regola, in verità" disse l'avvocato.
"Però io ho studiato questo luogo per conto mio", continuò il signor Enfield. "E dirò che non assomiglia gran che a una casa. Non esiste altra porta, e nessuno entra o esce da questa porta, se non, una volta ogni tanto, il signore della mia avventura. Ci sono tre finestre che guardano sul cortile, al primo piano; sotto, non ve ne sono; le finestre sono sempre chiuse, ma sono pulite. E poi c'è un camino che di solito fuma; perciò qualcuno deve abitare lì dentro. Tuttavia non è certo; perché gli edifici sono tanto stretti intorno a quel cortile, che è difficile stabilire ove uno cominci e l'altro finisca".
I due uomini continuarono a camminare per un poco in silenzio, poi il signor Utterson disse:
"Enfield, è una buona regola la vostra".
"Sì, lo credo anch'io, " rispose il signor Enfield.
"Però", continuò l'avvocato "c'è una cosa che io vorrei chiedervi: voglio domandarvi il nome di quell'uomo che calpestò la bambina".
"Ebbene", rispose il signor Enfield "non vedo che male potrebbe fare dirvelo. Si chiamava Hyde".
"Hmm!" fece il signor Utterson. "E che specie di uomo era?".
"Non è facile a descriversi. C'è qualcosa di non chiaro nel suo aspetto; qualcosa di sgradevole, anzi di veramente detestabile. Non avevo mai visto un uomo che mi ripugnasse tanto, e non ne so la ragione. Doveva avere qualche deformità; dava l'impressione di essere deforme, sebbene io non riesca a specificare la cosa. Aveva un aspetto anormale, eppure non so dire precisamente in quale senso. No, signore; non posso descriverlo, non ci riesco. E non per mancanza di memoria; infatti, vi dico che mi sembra di vederlo anche in questo momento".
Il signor Utterson fece ancora qualche passo in silenzio, evidentemente immerso in un suo pensiero.
"Siete sicuro che usasse una chiave?" chiese infine.
"Caro signore..." cominciò Enfield, molto sorpreso.
"Sì, capisco", disse Utterson " intendo come vi possa apparire strano. Il fatto è che, se non vi domando il nome dell'altro, è perché lo conosco già. Vedete, Richard, la vostra storia mi riguarda un poco. Se siete stato inesatto in qualche punto, fareste meglio a correggervi".
"Penso che avreste dovuto avvertirmi", ribatté l'altro, leggermente contrariato. "Ma io sono stato scrupolosamente esatto. L'amico aveva una chiave; e, quello che più conta, l'ha ancora. L'ho visto usarla neppure una settimana fa".
Il signor Utterson emise un profondo sospiro, ma non disse più nulla; e l'altro riprese:
"Ecco un'altra lezione; non si deve dire mai nulla. Mi vergogno della mia lingua lunga. Facciamo il patto di non parlare più di questa faccenda".
"Ben volentieri" disse l'avvocato. "Ecco la mia mano, Richard".


II
ALLA RICERCA DEL SIGNOR HYDE

Quella sera, il signor Utterson tornò nella propria casa di scapolo, di umore cupo, e sedette a cena senza alcun piacere. La domenica, aveva l'abitudine, terminata la cena, di sedere accanto al fuoco con qualche volume trattante aridi argomenti religiosi, sinché l'orologio della chiesa vicina non suonava la mezzanotte, ora alla quale l'avvocato se ne andava, tranquillo e soddisfatto, a letto. Quella sera, però, appena la tavola fu sparecchiata, prese una candela e si recò nel proprio studio. Qui aprì la cassaforte, trasse dallo scomparto più segreto un documento che recava scritto sulla busta" Testamento del Dottor Jekyll ", e sedette con il viso rannuvolato a leggerne il contenuto. Il testamento era olografo, poiché il signor Utterson, sebbene avesse accettato di custodirlo quando il documento era stato redatto, s'era rifiutato di prestare la minima assistenza alla stesura; esso stabiliva non solo che, in caso di morte di Henry Jekyll, M.D., D.C.L., L.L.D., F.R.S., eccetera, tutti i suoi beni dovessero passare nelle mani del suo " amico e benefattore Edward Hyde ", ma che in caso di "scomparsa o inspiegata assenza del dottor Jekyll per un periodo superiore a tre mesi, il suddetto Edward Hyde doveva immediatamente prendere il posto del detto Henry Jekyll, libero da qualsiasi peso e obbligo, tranne il pagamento di qualche piccola somma ai domestici del dottore".
Questo documento aveva costituito per lungo tempo una preoccupazione per l'avvocato. Lo offendeva come legale e come uomo amante dei lati sani e normali della vita, per il quale la fantasia era immoralità. Sino a quella sera, il non sapere nulla circa il signor Hyde aveva accresciuto la sua indignazione; ora,per un improvviso gioco della sorte, proprio l'avere appreso qualcosa lo indignava maggiormente. Era già stato abbastanza brutto che quel nome fosse soltanto un nome, del quale non poteva sapere nulla di più. Ma era peggio ora che quel nome cominciava a rivestirsi di detestabili attributi; e dalle vaghe e inconsistenti nebbie che avevano tanto a lungo velato gli occhi dell'avvocato balzava fuori l'improvviso, netto presentimento di qualcosa di diabolico.
"Pensavo si trattasse di una pazzia", disse, riponendo il documento nella cassaforte, "ma ora comincio a temere si tratti di un'ignominia".
Così dicendo, spense la candela, indossò il soprabito, e uscì nella direzione di Cavendish Square, quella cittadella della medicina dove il suo amico, il celebre dottor Lanyon, abitava e riceveva i suoi numerosi pazienti.
"Se qualcuno può sapere qualcosa, è proprio Lanyon", pensava.
Il solenne maggiordomo lo conosceva, venne ricevuto cortesemente. Non dovette aspettare, fu subito introdotto nella sala da pranzo, dove il dottor Lanyon stava solo, davanti al suo bicchiere di vino. Era un uomo cordiale, dall'aspetto sano, vivace e colorito, con una ciocca di capelli precocemente bianca; i suoi modi erano chiassosi ed energici. Vedendo il signor Utterson si alzò prontamente, e gli si fece incontro tendendo le mani. A un osservatore, la cordialità di quell'uomo rischiava di apparire un poco teatrale, ma era fondata su un sentimento sincero. Infatti i due erano vecchi amici, compagni di scuola e di università, ambedue rigorosamente rispettosi uno dell'altro e di se stessi, e, cosa che non accade sovente, erano effettivamente felici di poter stare insieme.
Dopo una breve conversazione generica, l'avvocato affrontò l'argomento che occupava tanto spiacevolmente la sua mente.
"Credo, Lanyon", disse, "che tu e io siamo i più vecchi amici di Henry Jekyll; no?".
"Vorrei che gli amici fossero più giovani", disse argutamente il dottore. "Si, credo che effettivamente lo siamo. Ebbene? Io lo vedo così poco, ora".
"Davvero?" chiese Utterson. "Pensavo che aveste interessi in comune".
"Ne avevamo", fu la risposta, "ma da più di dieci anni Henry Jekyll è diventato troppo stravagante per me. Cominciò ad avere idee molto strane; e, sebbene naturalmente io continui a interessarmi a lui per la nostra vecchia amicizia, lo vedo molto poco ormai. Spropositi tanto poco scientifici "aggiunse il dottore, arrossendo improvvisamente", avrebbero reso estranei tra loro anche Damone e Pizia".
Questo piccolo sfogo costituì un certo sollievo per il signor Utterson. "È stata una divergenza di vedute solo in materia scientifica", pensò; ed essendo uomo di scarsa passione studiosa (eccetto in materia di atti legali) aggiunse pure: "Nulla di più?" poi concesse all'amico qualche attimo per ricomporsi, e infine abbordò la questione per la quale si era recato lì: "Non avete mai incontrato un suo protetto, un certo Hyde?".
"Hyde?" ripeté Lanyon. "No. Non ne ho mai sentito parlare. Almeno, da quando lo conosco".
Queste furono le sole informazioni che l'avvocato portò con sé, nel grande letto scuro, nel quale si agitò sinché non passarono le ore piccole e non fu giorno. Quella notte non arrecò molto ristoro alla sua mente preoccupata che si affaticò nel buio assoluto, assillata da tante domande.
Le campane della chiesa che era così opportunamente vicina alla casa del signor Utterson suonarono le sei, e lui era sempre immerso in quel problema. Esso lo aveva colpito, sinora, nel suo solo aspetto cerebrale; ma ora anche l'immaginazione vi era impegnata, o meglio asservita; e, mentre lui giaceva nel letto e si tormentava nell'oscurità della notte e della stanza velata da tende, la storia del signor Enfield gli ripassò davanti alla mente in una serie di immagini chiare. Gli pareva di vedete le lunghe file di lampioni nella città notturna; poi la figura di un uomo che camminava rapido; poi quella di una bimba che correva, venendo dalla casa del dottore; poi i due si scontravano, e quel demonio gettava in terra la bimba, e le passava sopra senza curarsi delle sue grida. Poi vedeva una stanza in una ricca casa, dove il suo amico giaceva addormentato, e sorrideva in sogno; la porta della stanza si apriva, le tende del letto venivano scostate, il dormiente destato, e... al suo fianco stava la figura di un uomo che aveva ogni potere, e, anche a quell'ora di notte, l'amico doveva alzarsi e obbedire ai comandi. Quella persona nelle sue due fasi perseguitò l'avvocato per tutta la notte; e, se costui si assopiva di tanto in tanto, era solo per vedere quell'individuo scivolare furtivamente attraverso case addormentate, o aggirarsi rapido, sempre più rapido, sino alla vertigine, per gli ampi labirinti della città illuminata dai lampioni e a ogni angolo di strada calpestare una bimba e abbandonarla a gridare. Eppure quella figura non aveva una faccia per la quale potesse conoscerla; anche nei sogni non aveva faccia, oppure aveva una faccia che lo scherniva, e si dissolveva davanti ai suoi occhi; e fu così 'che nacque e crebbe nella mente dell'avvocato una curiosità stranamente viva e quasi irresistibile di vedere i lineamenti del vero signor Hyde. Se avesse potuto anche solo una volta metter gli occhi su di lui, pensava che il mistero si sarebbe chiarito, e insieme dissolto, come accade per tutte le cose misteriose quando vengono bene esaminate. Avrebbe capito la ragione della strana predilezione del suo amico, o meglio della sua schiavitù (chiamatela come volete) e persino delle stupefacenti clausole del testamento. Comunque doveva essere una faccia interessante a vedersi: la faccia di un uomo senza alcuna pietà: una faccia a cui era bastato mostrarsi per sollevare nel cuore dell'impassibile Enfield un impulso di tenace odio.
Da allora il signor Utterson cominciò a tener d'occhio continuamente la porta nella strada dei negozi. La mattina, prima dell'ora d'ufficio; a mezzogiorno, quando c'era molto da fare e il tempo era contato; la sera, sotto la luna velata dalle nebbie cittadine: sotto qualsiasi luce e a qualsiasi ora, nella solitudine o nella folla, l'avvocato era visibile al suo posto. "Se lui è il signor Hyde, io sarò il signor Seek", pensava.
Alla fine la sua pazienza venne ricompensata. Era una bella notte asciutta; gelo nell'aria, le strade pulite come il pavimento di una sala da ballo; i lampioni, non scossi dal vento, gettavano a intervalli regolari luce e ombra. Alle dieci di sera, con i negozi chiusi, la strada era molto solitaria, e, nonostante il brusio continuo di Londra che veniva dai dintorni, molto silenziosa. Si udivano così anche i più piccoli suoni; rumori domestici che provenivano dalle case, da una parte e dall'altra della strada; e l'avvicinarsi di un passante si preannunciava molto prima del suo apparire. Il signor Utterson era al suo posto da alcuni minuti, quando si accorse che un curioso passo leggero si stava avvicinando. Nel corso delle ronde notturne, da tempo egli si era abituato allo strano effetto con il quale i passi di una persona sola, che è ancora molto lontana, si staccano a un tratto distinti dal vasto, ronzante mormorio della città. Eppure la sua attenzione non era mai stata così vivamente e decisamente fissata; con un acuto e superstizioso presentimento di successo l'avvocato si nascose nell'ingresso del cortile.
I passi si avvicinavano rapidamente, e risuonarono subito più forti appena svoltato l'angolo della strada. L'avvocato, sporgendosi dal vano, poté ben presto vedere con quale sorta di uomo avesse a che fare. Era basso di statura e vestito in modo dimesso, e il suo aspetto, anche a quella distanza, urtò fortemente la sensibilità dell'osservatore. Ma l'individuo si diresse verso la porta, attraversando la strada per fare più presto; e, mentre si avvicinava, si tolse di tasca una chiave, come fa chi sta arrivando a casa sua.
Il signor Utterson uscì dal nascondiglio e toccò l'uomo sulla spalla, quando gli passò accanto. "Siete il signor Hyde, vero?".
Il signor Hyde fece un balzo indietro, con il respiro affannato e sibilante. Ma la paura fu solo momentanea; e, senza guardare in faccia l'avvocato, rispose abbastanza freddamente: "Sì, sono Hyde; cosa volete?".
"Vedo che state entrando in casa" rispose l'avvocato. "Io sono un vecchio amico del dottor Jekyll, sono il signor Utterson di Gaunt Street; dovete avere già sentito il mio nome; e, dato che vi ho incontrato così a proposito, ho pensato che potevate farmi entrare".
"Non troverete il dottor Jekyll; è fuori casa, "rispose il signor Hyde, introducendo la chiave nella serratura. Poi, all'improvviso, ma sempre senza alzare lo sguardo: "Come fate a conoscermi?" chiese.
"Voi, da parte vostra, volete farmi un favore?" chiese il signor Utterson.
"Con piacere", rispose l'altro, " di che si tratta?". "Vorreste lasciarmi vedere la vostra faccia?" chiese l'avvocato.
Il signor Hyde parve esitare, poi, come dopo aver riflettuto, si mise di fronte all'interlocutore con aria di sfida; i due si guardarono fissi per qualche secondo.
"Ora potrò riconoscervi", disse Utterson "e forse mi sarà utile".
"Sì" ribatté il signor Hyde "è bene che ci siamo incontrati; a proposito, eccovi il mio indirizzo". E dette il numero di una via di Soho.
"Dio buono!", si disse Utterson. Forse anche quell'altro pensava al testamento? Ma tenne questo pensiero per sé, e si limitò a borbottare, in ringraziamento per l'indirizzo.
"E ora", disse l'altro "ditemi come fate a conoscermi".
"Dalle descrizioni", fu la risposta.
"Quali descrizioni?".
"Abbiamo amici in comune", disse il signor Utterson.
"Amici in comune?" fece eco il signor Hyde, con la voce un poco rauca. "E chi sono questi amici?". "Jekyll, per esempio", disse l'avvocato.
"Lui non vi ha mai detto nulla", esclamò il signor Hyde, in un impeto d'ira "non credevo che voi poteste mentire".
"Suvvia", disse Utterson "il vostro non è un linguaggio opportuno".
L'altro scoppiò in una risata selvaggia; un attimo dopo con straordinaria destrezza aveva aperto la porta ed era scomparso nella casa.
Per un minuto l'avvocato restò lì, dove Hyde lo aveva lasciato, e pareva il ritratto dell'inquietudine. Poi cominciò a risalire la strada lentamente, fermandosi ogni due passi, con la mano sulla fronte, fortemente perplesso. Il problema che andava così considerando mentre camminava era di un genere che raramente si può risolvere. Il signor Hyde era pallido e pareva un nano, dava l'impressione della deformità, pur senza mostrare alcuna effettiva deformazione, aveva un sorriso sconcertante; si era comportato nei confronti dell'avvocato con una specie di ,crudele miscuglio di timidezza e arroganza; parlava con una voce rauca, bisbigliante e talora rotta; tutto questo deponeva contro di lui, ma, tutto sommato, non bastava ancora a spiegare lo strano disgusto, il disprezzo e la paura che incuteva al signor Utterson. "Ci deve essere qualcos'altro", disse tra sé il meditabondo avvocato. "C'è qualcosa di più, se riuscissi a scoprirla. Dio mi perdoni, ma quell'uomo non sembra una creatura umana! Ha qualcosa del troglodita, direi, o che sia la vecchia storia del dottor Fell? oppure si tratta della semplice irradiazione di un'anima malvagia che traspare e trasfigura l'involucro di argilla? Penso sia proprio così; perché, mio povero Harry Jekyll, se mai io vidi il marchio del diavolo su una faccia, è proprio su quella del vostro nuovo amico!".
Voltato l'angolo della strada, si apriva una piazza circondata da belle case antiche, ora per la maggior parte decadute dall'antica gloria, e affittate come appartamenti o camere a gente di ogni sorta e condizione: disegnatori, architetti, oscuri avvocati e agenti di losche imprese. Una di quelle case, però, la seconda dopo l'angolo, era ancora occupata tutta intera; e alla porta di questa casa, che aveva un'apparenza di ricchezza e di decoro, benché fosse ora immersa nell'oscurità, il signor Utterson si fermò a bussare. Un domestico ben vestito e anziano venne ad aprire.
"Il dottor Jekyll è in casa, Poole?" chiese l'avvocato.
"Guardo subito, signor Utterson" disse Poole, introducendo il visitatore, mentre parlava, in un'ampia e confortevole anticamera dal soffitto basso, con il pavimento di pietra, riscaldata, secondo l'uso delle case di campagna, da un grande camino acceso, e ammobiliata da ricchi armadi di quercia. "Volete aspettare qui vicino al fuoco, signore? Oppure volete che vi accenda in sala da pranzo?".
"Resto qui, grazie," rispose l'avvocato; e avanzò, appoggiandosi all'alto parafuoco. L'ampio locale, ove si trovava solo ora, costituiva la passione del suo amico dottore; e Utterson stesso ne parlava sempre come della stanza più piacevole di tutta Londra. Ma quella sera l'avvocato aveva un brivido nel sangue; la faccia di Hyde era impressa fortemente nella sua memoria; avvertiva (cosa insolita) come una nausea e un disgusto della vita; e, in quella depressione, gli pareva di leggere una minaccia nei bagliori del fuoco riflessi sulla superficie levigata degli armadi e nelle ombre che fluttuavano sul soffitto. Si vergognò del sollievo che avvertì quando Poole tornò ad annunciare che il dottor Jekyll era uscito.
"Ho visto il signor Hyde entrare dalla porta della vecchia sala anatomica, Poole", disse Utterson. "È cosa normale, in assenza del dottor Jekyll?".
"Normalissima, signor Utterson", fece il domestico. "Il signor Hyde ha la chiave".
"Sembra che il vostro padrone riponga una gran fiducia in quel giovane, Poole," riprese l'altro, pensieroso.
"Sì, signore, infatti", disse Poole "noi tutti abbiamo l'ordine di obbedirgli".
"Io non credo di avere mai conosciuto il signor Hyde, vero? " chiese Utterson.
"Oh, no, signore. Non pranza mai qui" rispose il maggiordomo. "Lo vediamo pochissimo, da questa parte della casa; per lo più viene e se ne va dal laboratorio".
"Bene, buona notte, Poole".
"Buona notte, signor Utterson".
E l'avvocato se ne andò verso casa, con il cuore molto pesante. "Povero Harry Jekyll", pensava, "mi posso sbagliare, ma temo che si trovi in cattive acque! Da giovane era una persona originale; molto tempo fa, certo; ma la legge divina non conosce cadute in prescrizione. Si, dev'essere così: il fantasma di qualche passato errore, il cancro di qualche segreto disonore e la punizione arriva, Pede claudo, dopo molti anni che la memoria ha scordato e l'amor proprio ha perdonato l'errore".
E l'avvocato, spaventato da questo pensiero, prese a ripensare al proprio passato, frugando in ogni angolo della memoria, per cercare se, per caso, lo spauracchio di qualche vecchia ingiustizia balzasse alla luce. Il suo passato era senza macchia; pochi uomini avrebbero potuto leggere il bilancio della loro vita con meno apprensione; tuttavia il signor Utterson si sentì umiliato dalle molte cose cattive che aveva commesso, e si risollevò di nuovo, con una sincera e timorosa gratitudine, al pensiero delle molte che era stato sul punto di fare e che poi aveva evitate. Allora, tornando all'argomento di prima, concepì un lampo di speranza. "Questo signor Hyde, se lo si studiasse", pensò, "dovrebbe avere segreti anche lui, e segreti terribili, a giudicare dall'aspetto; segreti al confronto dei quali anche i peggiori del povero Jekyll finirebbero per brillare come la luce del sole. Le cose non possono continuare così. Mi viene freddo a pensare a quell'individuo che s'insinua come un ladro presso il letto di Harry; povero Harry, che risveglio! E che pericolo! infatti, se quell'Hyde sospetta dell'esistenza del testamento, diventerà impaziente di ereditare. Sì, bisogna che io mi metta all'opera... purché Jekyll me lo permetta", aggiunse, "se soltanto Jekyll me lo permette". Perché ancora una volta gli apparvero davanti agli occhi, chiare e inequivocabili, le singolari clausole del testamento.


III
IL DOTTOR JEKYLL ERA PROPRIO TRANQUILLO

Quindici giorni dopo, per buona sorte, il dottore offrì uno dei suoi eccellenti pranzi a cinque o sei dei suoi vecchi amici, tutti uomini intelligenti, stimabili e ottimi conoscitori del buon vino; il signor Utterson fece in modo di rimanere ultimo, dopo che gli altri se ne furono andati. Questo non era un fatto insolito, era accaduto molte altre volte. Se Utterson era apprezzato, lo era molto. Gli ospiti amavano trattenere il taciturno avvocato, quando gli altri invitati più frivoli e loquaci erano già con il piede sulla soglia; amavano starsene un poco in compagnia di quell'uomo discreto, godendo della solitudine e riposando la mente nel ricco silenzio dell'avvocato, dopo la fatica della forzata allegria. A questa regola, non faceva eccezione il dottor Jekyll; e ora, mentre sedeva dall'altro canto del focolare (era un uomo sulla cinquantina, di ampia corporatura, ben fatto, e dal volto liscio, che rivelava qualcosa di scaltro forse, ma recava impressi tutti i segni dell'intelligenza e della gentilezza), si poteva vedere dal suo sguardo che nutriva per il signor Utterson un sincero e caldo affetto.
"Volevo parlarvi, Jekyll", cominciò quest'ultimo.
"Ricordate il vostro testamento?".
Un osservatore attento avrebbe potuto notare che quest'argomento era inopportuno; ma il dottore lo accolse allegramente.
"Mio povero Utterson", disse "non siete fortunato con un cliente come me. Non ho mai visto un uomo tanto desolato quanto lo foste voi per il mio testamento; eccetto forse quel pedante di Lanyon di fronte a quelle che chiamava le mie eresie scientifiche. Oh, lo so, è una brava persona, non arrabbiatevi, una persona eccellente, e io ho sempre l'intenzione di avvicinarlo di più; ma non per questo è meno pedante; un pedante ignorante e rumoroso. Da nessun uomo fui mai tanto deluso".
"Sapete bene che non l'ho mai approvato", continuò Utterson, trascurando di proposito questo nuovo argomento.
"Il mio testamento? Sì certamente, lo so", disse il dottore con una certa asprezza "me lo avete già detto",
"Ebbene, ora ve lo torno a dire" continuò l'avvocato. "Ho saputo qualcosa circa il giovane Hyde",
L'ampia faccia cordiale del dottor Jekyll sbiancò sino alle labbra, nei suoi occhi passò un lampo scuro.
"Non voglio sapere altro, " disse a questo è un argomento che avevamo deciso di lasciar cadere. "
"Quello che ho sentito dite è abominevole", insisté Utterson.
"Non cambia nulla. Non capite la mia situazione", ribatté il dottore, con una certa incoerenza di modi. "Io sono in una situazione penosa, Utterson; una situazione strana, molto strana. È una di quelle faccende che non si possono risolvere con le parole".
"Jekyll", disse Utterson "voi mi conoscete: sono un uomo cui si può accordare fiducia. Confidatemi tutto, apertamente; e non dubito di potervi liberare da questo peso".
"Mio buon Utterson", disse il dottore "questo da parte vostra è molto gentile, veramente molto affettuoso, e non posso trovare le parole per ringraziarvi. Vi credo; mi fiderei più di voi che di chiunque altro al mondo, sì, anche più di me stesso, se potessi scegliere; ma in realtà non è come voi pensate: non è grave a tal punto; e, per mettervi il cuore in pace, vi dirò una cosa: appena lo vorrò, potrò liberarmi di Hyde. Ve ne do la mia parola; e vi ringrazio ancora; e ancora aggiungerò una parolina, Utterson, che sono sicuro non prenderete male: questa è una faccenda privata, vi prego di non occuparvene".
Utterson rifletté un minuto, guardando il fuoco.
"Non dubito che abbiate perfettamente ragione" disse infine, alzandosi.
"Bene, ma, dato che abbiamo toccato questo argomento, e spero per l'ultima volta", continuò il dottore "c'è un punto che vorrei capiste. Io mi interesso veramente del povero Hyde. So che lo avete visto; me lo ha detto; e temo che sia stato duro con voi. Ma io provo sinceramente un grande, grandissimo interesse per quel giovane; e, se dovessi scomparire, Utterson, vorrei che mi prometteste di appoggiarlo e di difendere i suoi interessi. Credo che lo fareste, se sapeste tutto; mi alleviereste di un gran peso se mi faceste questa promessa".
"Non posso dichiarare che mi riuscirà mai di aver simpatia per lui", disse l'avvocato.
"Non vi chiedo questo", pregò Jekyll, posando una mano sul braccio dell'interlocutore "vi chiedo solo di essere giusto; vi chiedo solo di aiutarlo per amor mio, quando non sarò più in vita".
Utterson trasse un profondo sospiro.
"Va bene", disse "lo prometto".


IV
L'ASSASSINIO CAREW

Quasi un anno dopo, nel mese di ottobre del 18..., Londra venne messa sottosopra da un delitto di singolare ferocia, e reso ancor più notevole per l'alta posizione sociale della vittima. I particolari erano pochi e sconcertanti. Una domestica che viveva sola in una casa non lontana dal fiume era salita per andare a letto circa alle undici. Sebbene nelle ore piccole la nebbia avvolgesse la città, la prima parte della notte era stata limpida, e il vicolo sul quale si affacciava la finestra della donna era chiaro e illuminato dalla luna piena. Pare che la donna fosse di indole romantica, poiché sedette sul suo baule, che stava proprio sotto la finestra, e s'immerse nelle fantasticherie. Non s'era mai sentita (soleva dire, in un fiume di lacrime, quando raccontava questa storia) tanto in pace con tutta l'umanità né in migliore disposizione d'animo verso il mondo intero. E, mentre sedeva lì, notò un signore d'età, dai capelli bianchi e dal bell'aspetto che s'avanzava nel vicolo; poi un altro signore molto piccolo gli procedette incontro ma la donna vi prestò da principio poca attenzione. Quando i due giunsero a portata di voce (proprio sotto gli occhi della ragazza), l'uomo più vecchio s'inchinò e s'avvicinò all'altro con molto ossequio. Non pareva che l'argomento del suo discorso fosse molto importante; infatti, dai suoi gesti, sembrava in certi momenti che chiedesse soltanto la strada; ma la luce lunare gli illuminava la faccia mentre parlava, e la ragazza si compiaceva a osservarlo, perché spirava una cortesia tanto innocua e di vecchio stampo, pur con qualcosa di altero, come un ben radicato orgoglio. Ora lo sguardo della donna passò all'altro uomo, e fu sorpresa di riconoscere in lui un certo signor Hyde, che era venuto un giorno in casa del suo padrone, e per il quale aveva provato disgusto. Il signor Hyde aveva in mano un pesante bastone, con il quale giocherellava; ma non rispondéva nulla, e pareva ascoltare con una malcelata impazienza. Poi, d'improvviso, scoppiò in un impeto d'ira, battendo il piede a terra, brandendo il bastone e comportandosi (secondo la descrizione della ragazza) come un pazzo. Il vecchio signore fece un passo indietro, con l'aria di chi è molto sorpreso e anche un poco offeso; allora il signor Hyde oltrepassò ogni limite, e lo gettò in terra. Poi, con scimmiesca furia, lo calpestò, tempestandolo con una gragnuola di colpi, sotto i quali si udivano scricchiolare le ossa e il corpo rimbalzava sulla strada. All'orrore di quella vista e di quel rumore, la domestica svenne.
Erano le due quando riprese i sensi, e chiamò la polizia. L'assassino era ormai lontano; ma la vittima giaceva lì in mezzo al vicolo, incredibilmente sfigurata. Il bastone con il quale era stato commesso il delitto, benché fosse di legno molto raro e solido e pesante, s'era rotto a metà sotto la foga di quella insensata ferocia; uno dei pezzi era rotolato nel rigagnolo vicino, e l'altro, senza dubbio, era stato portato via dall'assassino. Addosso al cadavere vennero rinvenuti un portamoneta e un orologio d'oro; ma nessuna carta, tranne una busta sigillata e affrancata, che probabilmente il malcapitato stava portando alla posta, e che portava il nome e l'indirizzo del signor Utterson.
La busta fu recapitata all'avvocato la mattina dopo, prima che si alzasse; egli appena la ebbe sotto gli occhi, e seppe dell'accaduto, si lasciò sfuggire una solenne imprecazione.
"Non dirò nulla sinché non avrò visto il cadavere", disse. "Può essere una faccenda molto seria: abbiate la gentilezza di aspettare che mi vesta".
E con la stessa aria preoccupata consumò in fretta la prima colazione e si fece condurre al posto di polizia ove il cadavere era stato trasportato. Appena entrato, l'avvocato annuì.
"Sì", disse "lo riconosco. Mi duole dire che si tratta di Sir Danvers Carew".
"Dio buono, signore, "esclamò l'ufficiale " è possibile?".
Poi i suoi occhi s'illuminarono di ambizione professionale.
"La faccenda farà molto chiasso", disse "e forse voi potreste aiutarci a scoprire l'assassino". E prese a narrare brevemente quello che la ragazza aveva visto, mostrando il bastone rotto.
Il signor Utterson aveva già sussultato all'udire il nome di Hyde; ma, quando gli misero davanti il bastone, non ebbe più dubbi: rotto e rovinato come era, lo riconobbe per un bastone che lui stesso aveva regalato molti anni prima al dottor Jekyll.
"Questo signor Hyde è una persona di bassa statura?" domandò.
"Particolarmente basso e particolarmente cattivo, così almeno lo descrive la cameriera", disse l'ufficiale.
Il signor Utterson rifletté un attimo; poi, alzando la testa, disse:
"Se venite con me nella mia carrozza, credo di potervi condurre alla sua abitazione".
Erano circa le nove di mattina, e c'era la prima nebbia della stagione. Un gran mantello color cioccolato si stendeva nel cielo, ma il vento spazzava continuamente via quel cumulo di vapori; perciò mentre la carrozza avanzava per le vie, il signor Utterson poteva contemplare varie sfumature e gradazioni di luce; in certi punti era nero come al calar della notte, in altri era denso, sporco, marrone come luci di una strana conflagrazione; in altri ancora, per un attimo la nebbia si lacerava completamente e un pallido raggio di luce ammiccava attraverso i vapori inquieti. Il cupo quartiere di Soho, visto sotto quei riflessi mutevoli, con le umide vie e i passanti sudici, i lampioni, che non erano mai stati spenti, o che erano stati accesi di nuovo per combattere la nuova tetra invasione di oscurità, pareva all'avvocato il ghetto di una città d'incubo. Pure i pensieri dell'avvocato erano profondamente tetri; e, gettando un'occhiata al compagno di viaggio, si rese conto di provare quel terrore della legge e dei suoi funzionari, che può alle volte assalire anche l'uomo più onesto.
Quando la carrozza si arrestò davanti alla porta indicata, la nebbia si sollevò un poco e lasciò vedere una strada lurida, una taverna, una trattoria francese d'infimo ordine, un negozio di vendita al minuto di erbaggi, molti bimbi cenciosi radunati sulle soglie, e molte donne di varie nazionalità che passavano con la loro chiave in mano, per andare a bere un cicchetto mattutino; poi la nebbia calò di nuovo, color dell'ombra, e lo isolò da quel volgare scenario. Quella era la casa dell'amico prediletto di Henry Jekyll, dell'erede di un quarto di milione di sterline.
Una vecchia dalla faccia color avorio e dai capelli argentei aprì la porta. Aveva un'espressione cattiva, smussata dall'ipocrisia, ma i suoi modi erano compiti. Sì, disse, quella era la casa del signor Hyde, ma lui non si trovava in casa; quella notte era tornato molto tardi, ed era uscito di nuovo dopo neppure un'ora; non c'era nulla di strano in quel fatto; le abitudini del signor Hyde erano molto irregolari, ed era spesso assente; a esempio, erano quasi due mesi che non lo si vedeva, prima del ritorno di quella notte.
"Benissimo, allora, vorremmo vedere la sua abitazione " disse l'avvocato; e, quando la donna cominciò a protestare ch'era impossibile, aggiunse: " Farei meglio a dirvi chi è questa persona: è l'ispettore Newcomen di Scotland Yard".
Un lampo di feroce gioia apparve sulla faccia della donna.
"Ah!" disse "si trova nei guai! Cosa ha fatto?". Il signor Utterson e l'ispettore si scambiarono una occhiata.
"Non sembra che il signor Hyde sia molto benvoluto" osservò il secondo.
"E ora, mia buona donna, lasciate che questo signore e io diamo uno sguardo intorno".
Di tutta la casa, abitata solo dalla vecchia, il signor Hyde usava unicamente due stanze; ma queste erano ammobiliate con lusso e buon gusto. Uno stanzino era pieno di vini; i piatti erano d'argento e le tovaglie eleganti; un bel quadro era appeso alla parete, dono, come Utterson suppose, del dottor Jekyll, che era un buon intenditore; i tappeti erano pregiati e di colori gradevoli. In quel momento però le stanze rivelavano d'essere state messe sottosopra da poco, e in fretta: a terra giacevano indumenti, con le tasche rivoltate; i cassetti erano aperti, e sul focolare era un mucchio di cenere grigia, come se molte carte fossero state bruciate. Da quelle ceneri l'ispettore trasse l'estremità di un libretto verde di assegni, che aveva resistito all'azione del fuoco; l'altra metà del bastone fu trovata dietro una porta; e, poiché questa scoperta confermava i suoi sospetti, l'ispettore si dichiarò soddisfatto. Una visita alla banca, dove parecchie migliaia di sterline risultarono depositate a credito dell'assassino, completò la sua soddisfazione.
"Potete essere certo, signore," egli disse al signor Utterson " ora è nelle mie mani. Deve aver perduto la testa, altrimenti non avrebbe mai lasciato lì quel bastone, né, soprattutto, avrebbe bruciato il libretto di assegni. Il denaro è la vita dell'uomo. Ora non ci resta altro da fare che aspettarlo alla banca, e arrestarlo".
Quest'ultima cosa, però, non era molto facile a compiersi; infatti, il signor Hyde aveva pochi conoscenti, persino il padrone della domestica lo aveva veduto solo due volte; la sua famiglia non poté essere rintracciata; non era mai stato fotografato; e le poche persone che avrebbero potuto descriverlo non si trovarono affatto d'accordo, come accade ad osservatori comuni. Solo su un punto convenivano tutti: e cioè su quell'impressione angosciosa di inspiegabile deformità con la quale il fuggiasco colpiva chiunque lo guardasse.


V
IL CASO DELLA LETTERA

Era pomeriggio inoltrato quando il signor Utterson si presentò alla porta del dottor Jekyll; venne subito introdotto da Poole, e accompagnato giù attraverso le cucine e un cortile, che un tempo era stato un giardino, all'edificio conosciuto sia come laboratorio sia come sala anatomica. Il dottore aveva acquistato la casa dagli eredi di un celebre chirurgo; e, poiché il suo interesse andava più alla chimica che all'anatomia, aveva cambiato la funzione dell'edificio in fondo al giardino. Era la prima volta che l'avvocato veniva ammesso in quella parte dell'abitazione dell'amico; osservò con curiosità quella struttura cupa e senza finestre, e avvertì uno sgradevole senso di disagio mentre attraversava la sala, un tempo affollata di alacri studenti, e ora abbandonata, vuota e silenziosa, con i tavoli carichi di apparecchi chimici, il pavimento cosparso di canestri e paglia da imballaggio, la luce offuscata dalla cupola nebbiosa. A una estremità era una scala: saliva sino a una porta coperta di panno rosso; attraverso questa, il signor Utterson venne infine ricevuto nel gabinetto del dottore. Era un ampio locale, pieno di armadi a,vetri, e arredato, fra l'altro, con una grande specchiera e una scrivania: tre polverose finestre a inferriata guardavano nel cortile. La fiamma ardeva nel focolare, sulla mensola del quale era accesa una lampada, perché la nebbia cominciava a penetrare anche nelle case; lì, vicino al fuoco, sedeva il dottor Jekyll, con un aspetto mortalmente affranto. Non si alzò per andare incontro all'ospite, ma gli tese una mano, e gli dette il benvenuto con voce alterata.
"Allora", disse il signor Utterson, appena Poole fu uscito "avete udito la notizia?".
Il dottore sussultò.
"Ho sentito gli strilloni dei giornali in piazza" disse. "L'ho udita dalla mia sala da pranzo".
"Una parola sola", disse l'avvocato "Carew era mio cliente, ma lo siete anche voi, perciò voglio sapere quello che faccio. Spero che non siate tanto pazzo da nascondere quell'individuo".
"Utterson, giuro davanti a Dio, " esclamò il dottore "giuro che non poserò più gli occhi su di lui. Vi do la mia parola d'onore che non ho più nulla a che fare con lui a questo mondo. Tutto è finito. E infatti lui non ha bisogno del mio aiuto; voi non lo conoscete come lo conosco io; è in salvo, perfettamente in salvo; ricordate le mie parole: non si sentirà più parlare di lui".
L'avvocato ascoltava, cupo; non gli piacevano quei modi febbrili, nel suo amico.
"Sembrate molto sicuro sul suo conto" disse "e spero che abbiate ragione, lo spero per voi. Se si arrivasse al processo, potrebbe apparire il vostro nome".
"Sono sicurissimo sul suo conto", replicò Jekyll "ho certe ragioni per esserne sicuro, che non posso rivelare a nessuno. Ma c'è una cosa sulla quale potete consigliarmi. Io ho... ho ricevuto una lettera; e non so se debbo mostrarla alla polizia o no. Mi piacerebbe lasciarla nelle vostre mani, Utterson; voi giudicherete saggiamente, ne sono certo; ho tanta fiducia in voi".
"Voi temete, suppongo, che questa lettera possa farlo scoprire?" chiese l'avvocato.
"No" disse l'altro. "Non posso dire di preoccuparmi della sorte di Hyde; è finita con lui. Penso a me stesso, questa odiosa faccenda mi ha abbastanza compromesso".
Utterson meditò un attimo: lo sorprendeva l'egoismo dell'amico, eppure provava sollievo: "Bene", disse infine "fatemi vedere la lettera".
La lettera era scritta con una curiosa calligrafia diritta, ed era firmata "Edward Hyde": diceva, abbastanza brevemente, che il benefattore dello scrivente, il dottor Jekyll, che lui aveva così indegnamente ripagato per le mille generosità ricevute, non doveva essere in pena per la sua salvezza, perché aveva un modo di fuggire, nel quale riponeva la massima fiducia. L'avvocato fu contento di quella Lettera; essa conferiva all'intimità fra quei due uomini un aspetto migliore di quanto avesse immaginato; e rimproverò se stesso per certi sospetti nutriti in passato.
"Avete la busta?" chiese.
"L'ho bruciata", rispose Jekyll "prima di pensare a quello che facevo. Ma non recava alcun timbro postale. La lettera è stata portata a mano".
"Posso conservarla, e rifletterci un poco?" chiese Utterson.
"Desidero che voi giudichiate per me, interamente" fu la risposta. "Io ho perso la fiducia in me stesso".
"Bene, ci penserò " rispose l'avvocato. "E ancora una parola: è stato Hyde a dettare le clausole del vostro testamento, riferentisi a una eventuale vostra scomparsa?".
Il dottore parve preso da un principio di deliquio; strinse le labbra, e annuì.
"Lo sapevo" disse Utterson. "Aveva l'intenzione di assassinarvi. L'avete scampata per caso".
"Ho avuto molto di più", rispose il dottore solennemente "ho avuto una lezione... oh, Dio. Utterson, che lezione ho avuto!". E si coprì la faccia per un attimo con tutt'e due le mani.
Uscendo, Utterson si fermò per scambiare due parole con Poole.
"A proposito", disse "oggi è stata portata una lettera: che tipo era il messaggero?".
Ma Poole dichiarò che non era arrivato nulla, se non per posta.
"E solamente circolari" aggiunse.
Questa notizia mandò via il visitatore con i timori rinnovati. Indubbiamente la lettera doveva essere entrata per la porta del laboratorio; forse anche era stata scritta nel gabinetto stesso; e, se era così, doveva essere giudicata differentemente, e considerata con maggior cautela. Gli strilloni dei giornali, per la strada, si sgolavano:
"Edizione straordinaria. Orribile delitto, l'uccisione di un membro del Parlamento!". Quella era l'orazione funebre di un amico e cliente; l'avvocato non poté non avvertire una certa apprensione, per timore che il buon nome di un altro fosse coinvolto nello scandalo. Era per lo meno una decisione delicata quella che doveva prendere; e lui, che era sempre stato così sicuro di sé, cominciò a provare il desiderio di un consiglio. Non poteva ottenerlo in modo diretto; ma forse, pensò, poteva procurarselo con qualche artificio.
Poco dopo, sedeva ad un lato del proprio focolare, di fronte, al signor Guest, il suo primo scrivano; in mezzo a loro, a una distanza ben calcolata dal fuoco, era una bottiglia di uno speciale vino vecchio, che aveva riposato a lungo, lontano dalla luce, nella cantina della casa. La nebbia indugiava ancora sulla città sommersa, dove i lampioni ardevano come carbonchi: e, attraverso quelle soffici nuvole basse, il ritmo della vita cittadina continuava nelle grandi arterie, con un rumore di forte vento. La stanza era rallegrata dalla vampa del focolare. Nella bottiglia gli acidi s'erano da molto tempo disciolti; il colore imperiale s'era smorzato con il tempo, come si trasforma il colore delle vetrate a piombo; e lo splendore dei caldi pomeriggi autunnali nei vigneti sulle colline, era pronto a librarsi per disperdere le nebbie londinesi. Insensibilmente l'avvocato si calmava. A nessun'altra persona nascondeva meno i suoi segreti che al signor Guest; e non sempre era sicuro di nasconderne quanti ne avrebbe voluto. Guest era stato spesso a casa del dottore, per affari; conosceva Poole; e non poteva non aver sentito parlare della familiarità del signor Hyde con quella casa; avrebbe potuto trarne delle conclusioni: tanto valeva, allora, che vedesse una lettera che metteva le cose a posto. Inoltre, Guest, essendo uno studioso di grafologia, avrebbe considerato naturale e doverosa la confidenza. Lo scrivano era anche un uomo saggio; e non avrebbe potuto leggere un così strano documento senza pronunciare un'osservazione; su quell'osservazione il signor Utterson avrebbe potuto regolare le proprie mosse future.
"È una faccenda triste, questa di Sir Danvers" disse.
"Sì, certo. Ha impressionato una gran parte dell'opinione pubblica" replicò Guest. "Quell'uomo, certo, doveva essere pazzo".
"Mi piacerebbe avere la vostra opinione sul fatto" replicò Utterson. "Io ho qui un documento di sua mano; la cosa resta fra noi, perché non so ancora quello che ne farò; è una brutta faccenda. Ma eccolo qui, questo fa per voi: l'autografo di un assassino".
Gli occhi di Guest brillarono, prese immediatamente a studiare la lettera con passione.
"No, signore", disse "questo non è un pazzo. Ma ha una. curiosa scrittura".
"Ma è anche un curioso scrittore" aggiunse l'avvocato.
In quel momento entrò un domestico con un biglietto.
"È del dottor Jekyll, signore?" chiese lo scrivano. "Mi pare di riconoscere la scrittura. È un biglietto personale, signor Utterson?".
"Soltanto un invito a pranzo. Perché? Volete vederlo?".
"Un attimo. Vi ringrazio, signore" e lo scrivano pose i due fogli uno accanto all'altro, e confrontò diligentemente le scritture. Grazie signore, " disse infine restituendoli tutt'e e due; "è un autografo interessantissimo".
Vi fu una pausa, durante la quale il signor Utterson sostenne un intimo combattimento.
"Perché lo avete confrontato, Guest?" chiese poi, ad un tratto.
"Ecco, signore", rispose lo scrivano "esiste una rassomiglianza piuttosto singolare: le due scritture sono in molti punti identiche: solo inclinate in modo diverso".
"Strano!" disse Utterson.
"Come voi dite, è molto strano" rispose Guest.
"Io non parlerei di questo biglietto, sapete" disse l'avvocato.
"No, signore" disse lo scrivano. "Mi rendo conto".
Ma appena il signor Utterson si trovò solo, quella notte, chiuse il biglietto nella cassaforte, ove esso riposò da allora in poi. "Come?" pensò "Henry Jekyll può fare un falso per un assassino?". E il sangue gli gelò nelle vene.


VI
LO STRANO INCIDENTE DEL DOTTOR LANYON

Passava il tempo: una taglia di migliaia di sterline era stata offerta come ricompensa a chi avesse rintracciato l'assassino. La morte di Sir Danvers, infatti, era considerata un'offesa alla comunità; ma il signor Hyde era scomparso dal raggio delle ricerche della polizia, quasi non fosse mai esistito. Era stata scoperta gran parte del suo passato, ed era disonorevole: si diffusero storie sulla crudeltà di quell'uomo, così duro e violento, sulla sua vergognosa vita, sulle sue strane relazioni, sull'odio che pareva aver sempre circondato la sua carriera; ma sul luogo dove viveva attualmente, non una parola. Dal giorno che aveva lasciato quella casa di Soho, la mattina del delitto, era semplicemente sparito; e a poco a poco, con il passare del tempo il signor Utterson cominciò a riaversi dal suo stato di ansietà, e a sentirsi più tranquillo nell'animo. La morte di Sir Danvers era secondo lui più che compensata dalla scomparsa del signor Hyde. Ora che la malvagia influenza era cessata, una nuova vita incominciava per il dottor Jekyll. Egli uscì dalla sua reclusione, rinnovò i legami con gli amici, e diventò ancora una volta il loro ospite familiare. Mentre era sempre stato famoso per la generosità, ora non lo fu di meno per la religiosità. Era attivo, stava sempre all'aria aperta, e faceva del bene; la sua faccia pareva aprirsi e illuminarsi, come per un'intima coscienza dei servigi che rendeva; e per più di due mesi il dottore visse in pace.
L'otto di gennaio il signor Utterson aveva cenato in casa di Jekyll con un piccolo gruppo di amici; c'era anche Lanyon; e l'occhio dell'ospite passava dall'uno all'altro come ai vecchi tempi, quando i tre erano amici inseparabili. Il dodici, e poi di nuovo il quattordici, all'avvocato venne chiusa la porta in faccia.
"Il dottore sta sempre in casa," disse Poole "e non vuole vedere nessuno".
Il giorno quindici l'avvocato tentò di nuovo, e ancora non venne ricevuto; essendo abituato da due mesi a vedere l'amico tutti i giorni, questo ritorno del dottore alla solitudine gli oppresse l'animo.
La quinta sera invitò Guest a cena, e la sesta sera si recò dal dottor Lanyon. Lì almeno non gli veniva negata l'ospitalità; ma, appena entrato, restò colpito dalla trasformazione che era avvenuta nell'aspetto del dottore, che portava scritta ben leggibile in faccia una sentenza di morte. Quell'uomo dal colore solitamente roseo, appariva pallido, magro, era visibilmente più calvo e più vecchio; eppure non furono tanto questi segni di decadimento fisico a suscitare la meraviglia dell'avvocato, quanto un certo sguardo e un modo di agire del dottore che sembravano rivelare un terrore profondamente radicato nell'animo. Non era possibile che il dottore temesse la morte; eppure Utterson era indotto a sospettare proprio questo. "Sì", pensava; "è un dottore, e dove essere cosciente del suo stato, deve sapere che i suoi giorni sono contati; e non può sopportare questo pensiero". Ma, quando Utterson osservò che il suo aspetto era cattivo, Lanyon dichiarò con aria di grande fermezza di essere un uomo condannato.
"Ho avuto un colpo", disse "e non mi riprenderò più. Sarà questione di settimane. Ebbene, la vita è stata piacevole; l'ho apprezzata; sì, signore, la vita mi piaceva. A volte penso che, se sapessimo tutto, saremmo molto più contenti di andarcene".
"Anche Jekyll è malato", osservò Utterson. "Lo avete visto?".
Ma la faccia di Lanyon si trasformò, egli sollevò una mano tremante.
"Non voglio più vederlo né sentir parlare di lui" disse con voce alta e malsicura. "L'ho finita del tutto con quella persona; e vi supplico di risparmiarmi ogni allusione a un uomo che considero come morto".
"Oh, oh!" esclamò Utterson; poi, dopo una lunga pausa: "Io non posso fare nulla?" domandò. "Noi siamo tre vecchi amici, Lanyon; e non vivremo abbastanza, ormai, per avere altri amici".
"Non si può fare nulla", rispose Lanyon "chiedetelo a lui stesso".
"Non vuole ricevermi" rispose l'avvocato.
"Non mi stupisce" fu la risposta; "un giorno, dopo che io sarò morto, Utterson, voi potrete arrivare a capire il giusto e l'ingiusto di tutto questo: io non posso dirvelo. Nel frattempo, se riuscite a stare qui a parlare con me d'altre cose, per l'amor di Dio, restate, e fatelo; ma, se non riuscite a dimenticare questo maledetto argomento, allora, in nome di Dio, andatevene, perché io non posso sopportare un simile soggetto".
Appena arrivato a casa, Utterson sedette alla scrivania e scrisse a Jekyll, lamentandosi di essere stato escluso dalla sua casa, e chiedendogli la causa dell'infelice rottura con Lanyon; il giorno dopo gli giunse una lunga risposta, in certi punti scritta molto pateticamente, in altri incomprensibile e misteriosa. La lite con Lanyon era irreparabile. "Io non voglio rimproverare il nostro vecchio amico", scriveva Jekyll, "ma sono d'accordo con lui che non ci dobbiamo più vedere. Da questo momento ho l'intenzione di fare una vita estremamente segregata; non dovete meravigliarvi né dubitare della mia amicizia, se la mia porta è spesso chiusa anche per voi. Dovete permettere che io segua il mio oscuro cammino. Mi sono tirato addosso una punizione e un pericolo che non posso neppure nominare. Se sono il primo dei peccatori, io sono anche il primo a soffrire. Non pensavo che questo mondo fosse in grado di contenere sofferenze e terrori tanto innominabili. E voi potete fare una sola cosa, Utterson, per alleviare questo mio destino, e cioè rispettare il mio silenzio".
Utterson restò sconcertato; l'oscura influenza di Hyde era scomparsa, il dottore era ritornato alle antiche occupazioni e ai vecchi amici; una settimana prima, questa prospettiva sorrideva con tutte le promesse di una serena e onorata vecchiaia; e ora, in un attimo, amicizie, tranquillità di spirito, tutto il suo tenore di vita risultavano di nuovo sconvolti. Un cambiamento così grave e inatteso rasentava la pazzia; ma, considerando il modo di fare di Lanyon, e le sue parole, ci doveva essere una ragione più grave a tutto questo.
Una settimana dopo il dottor Lanyon si mise a letto, e, in meno d'una quindicina di giorni, era morto. La notte seguente a quel funerale, dal quale era stato molto rattristato, Utterson chiuse la porta del proprio ufficio, e, seduto vicino al lume di una malinconica candela, estrasse e si pose davanti una busta che recava l'indirizzo tracciato dalla mano dell'amico morto e recava il suo sigillo. " Personale: soltanto per il signor G. J. Utterson; in caso di suo decesso, da distruggersi senza essere letta. "Queste enfatiche parole erano sulla busta; e l'avvocato aveva paura ad aprirla". Ho seppellito un amico oggi", pensò, "se questa lettera costasse la morte di un altro?". Poi si rimproverò questo timore come una mancanza di lealtà, e ruppe i sigilli; la busta ne conteneva un'altra, similmente sigillati, e questa portava scritto: "Da non aprirsi prima della morte o della scomparsa del dottor Henry Jekyll". Utterson non poteva credere ai propri occhi. Sì, si trattava di scomparsa; anche qui, come nel folle testamento che da molto tempo aveva restituito al suo autore, anche qui l'idea della scomparsa era unita al nome del dottor Henry Jekyll. Ma nel testamento, quell'idea era nata dalla sinistra suggestione di Hyde; ed era lì con uno scopo sin troppo chiaro e orribile. Ma, scritta dal pugno di Lanyon, quella parola, cosa poteva significare? L'avvocato provò un'enorme curiosità di trascurare la proibizione ed arrivare subito in fondo al mistero; ma l'onore professionale e la promessa fatta all'amico morto erano obblighi troppo vincolanti: e la busta restò a dormire nell'angolo più riposto della cassaforte.
Ma una cosa è mortificare la curiosità, e un'altra è vincerla; e si può proprio dubitare che, da quel giorno in poi, Utterson desiderasse la compagnia dell'amico superstite con lo stesso ardore. Pensava a Jekyll con bontà; ma i suoi pensieri erano inquieti e timorosi. Andò, sì, a trovarlo, ma provava un senso di sollievo quando non veniva ricevuto; forse dentro di sé preferiva parlare con Poole sulla soglia, circondato dall'aria e dai rumori della città, piuttosto che essere accolto in quella casa di volontaria reclusione, e sedersi a parlare con quell'imperscrutabile prigioniero. Poole non aveva, in realtà, piacevoli novità da raccontare. Il dottore, apparentemente, ora più che mai restava confinato nel suo gabinetto sopra il laboratorio, dove talvolta dormiva persino; era depresso, era diventato silenzioso, e non leggeva; pareva che avesse qualcosa nell'animo. Utterson si abituò tanto all'invariabile carattere di questi rapporti, che a poco a poco diradò la frequenza delle visite.


VII
L'EPISODIO DELLA FINESTRA

Una domenica, il signor Utterson era fuori per la solita passeggiata con il signor Enfield, e accadde loro di passare ancora una volta per la strada dei negozi; e, quando si trovarono di fronte alla famosa porta, tutt'e due si fermarono a guardarla.
"Ebbene", disse Enfield "quella storia è finita, se Dio vuole. Non vedremo più il signor Hyde".
"Spero di no" disse Utterson. "Non vi ho mai detto di averlo visto una volta, e di aver provato come voi un senso di repulsione?".
"Una cosa implica l'altra" rispose Enfield. "A proposito, che asino mi dovete aver giudicato, per non aver saputo che questa era un'entrata posteriore della casa del dottor Jekyll! In parte è stata colpa vostra, se l'ho scoperto".
"Così, lo avete scoperto, eh?" disse Utterson. "Ma, se è così, possiamo inoltrarci nel cortile, e dare un'occhiata alle finestre. A dirvi la verità, mi preoccupa quel povero Jekyll; e, anche dall'esterno, mi sembra che la presenza di un amico possa fargli bene".
Il cortile era molto freddo e un poco umido, pieno di prematura oscurità, sebbene il cielo, fuori, fosse ancora chiaro della luce del tramonto. La finestra centrale, delle tre, era aperta per metà; seduto proprio davanti a essa, respirando l'aria con infinita tristezza, come un prigioniero sconsolato, Utterson vide il dottor Jekyll.
"Ehi! Jekyll!" gridò "spero che stiate meglio".
"Sono molto giù, Utterson" rispose il dottore in tono lugubre "molto giù. Ma non durerà molto, grazie a Dio!".
"Restate troppo in casa!" disse l'avvocato "dovreste uscire, per attivare la circolazione, come faccio io con il signor Enfield. Questo è mio cugino, il signor Enfield, il dottor Jekyll. Venite, ora. Prendete il cappello e venite a fare una breve passeggiata con noi".
"Siete molto buono", sospirò l'altro "e mi piacerebbe assai; ma no, no, no, è proprio impossibile; non oso. Ma, veramente, Utterson, sono molto contento di vedervi; è proprio un grande piacere per me; vorrei invitare voi è il signor Enfield a salire, ma il posto non è proprio adatto".
"Ebbene, allora " disse l'avvocato, di buon animo " la cosa migliore che possiamo fare è restare quaggiù e parlare con voi da dove ci troviamo".
"É quello che volevo arrischiarmi a proporvi " rispose il dottore con un sorriso. Ma aveva appena pronunciato queste parole che il sorriso scomparve a un tratto dalla sua faccia e fu seguito da un'espressione di così abietto terrore e di così abietta disperazione che agghiacciò il sangue dei due amici che si trovavano lì sotto. Essi lo videro solo in un lampo, perché la finestra venne istantaneamente chiusa; ma quel lampo era stato sufficiente, e essi si voltarono, e uscirono dal cortile senza una parola. Pure in silenzio attraversarono la strada; e, solo quando si trovarono in una via vicina, dove persino di domenica si svolgeva un certo traffico, il signor Utterson finalmente si provò a guardare il suo compagno. Erano tutt'e due pallidi; e nel loro sguardo era un identico orrore.
"Dio ci perdoni, Dio ci perdoni" disse il signor Utterson.
Ma il signor Enfield si limitò a scuotere il capo con molta serietà, e continuò a camminare in silenzio.


VIII
L'ULTIMA NOTTE

Il signor Utterson era seduto accanto al camino, una sera dopo cena, quando fu sorpreso di ricevere la visita di Poole.
"Santo cielo, Poole, cosa vi porta qui?" esclamò; poi, guardandolo di nuovo. "Cosa c'è?" chiese. "Il dottore sta male?"
"Signor Utterson", disse l'uomo "c'è qualcosa che non va".
"Prendete una sedia, e qui c'è un bicchiere di vino per voi" disse l'avvocato. "E, ora, calmatevi, e ditemi chiaro quello che volete".
"Voi conoscete i modi del dottore, signore", rispose Poole "e come se ne stia chiuso in casa. Ebbene, ora è di nuovo chiuso nel suo gabinetto; e la cosa non mi va, vorrei poter morire se mi va. Signor Utterson, io ho paura".
"Brav'uomo", disse l'avvocato "siate esplicito. Di cosa avete paura?".
"Ho avuto paura per una settimana", rispose Poole, trascurando completamente la domanda "e non posso più resistere".
L'aspetto dell'uomo confermava ampiamente le parole; le sue maniere erano penosamente mutate; e, tranne nel momento in cui aveva per la prima volta rivelato il suo terrore, non aveva ancora guardato in faccia l'avvocato. Anche ora, sedeva con il bicchiere di vino intatto posato sul ginocchio, e con gli occhi fissi in un angolo del pavimento.
"Non resisto più" ripeté.
"Su, su", disse l'avvocato "capisco che dovete avere una buona ragione, Poole; capisco che ci deve essere qualcosa di serio. Cercate di dirmi di che si tratta".
"Credo che ci sia qualcosa di vergognoso" disse Poole con voce rauca.
"Di vergognoso!" esclamò l'avvocato alquanto allarmato e piuttosto incline ad irritarsi, di conseguenza. "Di che parlate? Cosa volete dire?".
"Io non oso parlare, signore", fu la risposta "ma, se volete venire con me, lo vedrete voi stesso".
Il signor Utterson per tutta risposta si alzò, prese il cappello e il soprabito, con meraviglia osservò il grande sollievo che apparve sul volto del maggiordomo, e, con non minore sorpresa forse, il fatto che il bicchiere di vino fosse ancora intatto, quando l'altro lo depose per seguirlo.
Era una brutta, fredda e ventosa notte di marzo, con una pallida luna, che se ne stava coricata come se il vento l'avesse inclinata, e con una fuga di nubi leggere e trasparenti. Il vento rendeva difficile parlare, e faceva affiorare il sangue in faccia. Pareva aver spazzato le strade, insolitamente vuote di passanti; il signor Utterson pensò che non aveva mai veduto quella parte di Londra tanto deserta. Avrebbe desiderato il contrario; mai in vita aveva provato un così acuto desiderio di vedere e toccare i propri simili; perché, per quanto lottasse, nella sua mente s'era insinuato un cupo presentimento di calamità. La piazza, quando vi giunsero, era tutta piena di vento e di polvere, e i sottili alberi nel giardino si piegavano lungo l'inferriata. Poole, che per tutta la strada aveva camminato uno o due passi avanti, ora si ritrasse nel mezzo del marciapiede, e, nonostante il freddo pungente, si tolse il cappello e si asciugò la fronte con un fazzoletto rosso. Sebbene avessero camminato in fretta, quello non era sudore di fatica, era un'estrema angoscia a imperlargli la fronte; infatti la faccia di Poole era bianca e la sua voce, quando parlò, suonò aspra e rotta.
"Ebbene, signore, eccoci qui", disse, "e Dio voglia che non sia accaduto nulla di male".
"Speriamo, Poole" disse l'avvocato.
Così detto il maggiordomo bussò alla porta in modo molto discreto; la porta si aprì con la catena di sicurezza, poi una voce chiese dall'interno:
"Siete voi, Poole?".
"Sono io, aprite pure" disse Poole.
L'ingresso, quando entrarono, era chiaramente illuminato; il fuoco ardeva con una bella fiamma; intorno al focolare tutta la servitù, uomini e donne, se ne stava raggruppata come un gregge. Nel vedere il signor Utterson, la cameriera scoppiò in un isterico piagnisteo; e la cuoca esclamando: "Dio sia benedetto! È il signor Utterson!" si slanciò avanti, come per abbracciarlo.
"Cosa succede? Che c'è? Siete tutti qui?" chiese l'avvocato con disappunto. "Non è regolare, il vostro padrone ne sarebbe tutt'altro che contento".
"Sono tutti spaventati" disse Poole.
Seguì un profondo silenzio, nessuno protestava; solo la cameriera alzò la voce, ora piangeva forte.
"Tacete!" le disse Poole, con un tono cattivo che denotava come avesse i nervi tesi; infatti, quando la ragazza aveva improvvisamente alzato il tono del suo pianto, tutti avevano sussultato, si erano voltati verso la porta della sala con espressione di terrore e di attesa.
"E ora", continuò il maggiordomo, rivolgendosi ad uno sguattero "portami una candela, e mettiamo a posto subito questa faccenda". Poi pregò il signor Utterson di seguirlo, e lo condusse verso il cortile interno.
"Adesso, signore", disse "camminate più piano che potete. Voglio che sentiate, ma che non vi facciate udire. E badate, signore, se per caso vi dicesse di entrare, non entrate".
I nervi del signor Utterson, a quella inattesa conclusione, ebbero una tale scossa che quasi perse l'equilibrio; ma l'avvocato si riprese, e seguì il domestico nel laboratorio e attraverso la sala anatomica, fra tutte le casse e le bottiglie, sino ai piedi della scala. Qui Poole gli fece segno di fermarsi da un lato, e di mettersi in ascolto; intanto lui, depositando la candela e raccogliendo tutto il proprio ardire, salì la scala e bussò con mano malsicura sulla stoffa rossa della porta del gabinetto privato.
"Signore, c'è il signor Utterson che vuole vedervi" disse; e così dicendo, ancora una volta fece cenno con forza, all'avvocato, di ascoltare.
Una voce rispose dall'interno in tono lamentoso: "Ditegli che non posso vedere nessuno".
"Grazie, signore" rispose Poole, con accento quasi di trionfo, e, prendendo la candela, riaccompagnò il signor Utterson attraverso il cortile nella grande cucina, ove il fuoco era spento e gli scarafaggi correvano sul pavimento.
"Signore", disse guardando negli occhi il signor Utterson "vi pare che quella fosse la voce del mio padrone?".
" Sembrava molto cambiata " rispose l'avvocato, molto pallido in faccia; ma ricambiò l'occhiata di Poole.
" Cambiata? Ebbene, sì, lo credo anch'io" disse il domestico. "Da vent'anni che mi trovo in questa casa, posso forse ingannarmi sulla voce del mio padrone? No, signore. Il mio padrone non c'è più. Non c'è da otto giorni, da quando lo udimmo gridare il nome di Dio; ma chi è lì dentro, al suo posto, e perché se ne sta lì, è una cosa che grida vendetta al cielo, signor Utterson!".
"Questo è un caso stranissimo, Poole; è una storia incredibile, amico mio" disse il signor Utterson, mordicchiandosi un dito. "Supponendo che sia come voi pensate, supponendo che il dottor Jekyll sia stato... ebbene, sia stato assassinato, cosa potrebbe indurre l'assassino a restarsene qui? È una cosa assurda, contraria alla logica".
"Ebbene, signor Utterson, siete difficile da persuadere, ma mi proverò" disse Poole. "Tutta la scorsa settimana, dovete sapere, lui, o chiunque sia quello che vive nel gabinetto, ha gridato notte e giorno per avere una certa specie di medicina, che non riusciva a ottenere. A volte soleva - il mio padrone, cioè - scrivere i suoi ordini su un foglio di carta e gettarlo poi sulla scala. Questa settimana non abbiamo avuto altro: solo fogli di carta, la porta chiusa, i pasti li lasciava lì, e li ritirava solo quando non c'era nessuno che potesse vederlo. Ebbene, signore, sì, ogni giorno, e anche due o tre volte al giorno, ci sono stati ordini e lamentele, e io venivo mandato da tutti i farmacisti della città. Ogni volta che portavo a casa una cosa, trovavo un altro foglio che mi diceva di restituirla, perché non era pura, e un altro ordine per un'altra ditta.. Quella medicina deve essere molto necessaria; signore, di qualsiasi cosa si tratti".
"Avete conservato qualcuno di quei fogli?" chiese il signor Utterson.
Poole si frugò in tasca e ne estrasse un biglietto gualcito, che l'avvocato, chinandosi più vicino alla fiamma della candela, esaminò attentamente. Il foglietto portava scritto: "Il dottor Jekyll porge i suoi omaggi ai signori Maw. Li assicura che il loro ultimo campione è impuro e del tutto inutile al suo scopo attuale. Nell'anno 18..., il dottor J. acquistò una considerevole quantità di materiale dai signori M. Ora egli li prega di cercare con il massimo scrupolo e, se restasse ancora un poco dello stesso preparato, di mandarglielo immediatamente. La spesa non ha importanza. La necessità di questo preparato per il dottor Jekyll è vitale". Sin qui la lettera proseguiva. abbastanza normalmente, ma a questo punto, con un improvviso scatto della penna, l'emozione dello scrivente apparve chiara. "Per amore di Dio" aggiungeva "trovatemi un poco di quella sostanza".
"È uno strano biglietto" disse il signor Utterson; poi, severamente: "Come mai l'avete aperto?".
"Il commesso di Maw s'irritò, signore, e me lo restituì in malo modo" rispose Poole.
"Questa è indubbiamente la scrittura di Jekyll, vero?" riprese l'avvocato.
"Mi pare di sì" disse il domestico piuttosto arcigno; poi, con altro tono di voce: "Ma comunque sia, io l'ho veduto!".
"L'avete veduto?" ripeté il signor Utterson "l'avete visto bene?".
"Certo!" disse Poole. "È andata così: sono arrivato all'improvviso nella sala anatomica dal cortile. Mi è parso che lui fosse sgusciato fuori per cercare quella droga, o quello che era; infatti, la porta del gabinetto era aperta, e lui era lì, in fondo alla stanza, che frugava tra le casse. Quando entrai alzò gli occhi, gettò una specie di grido, e scomparve di sopra, nel suo gabinetto. Solo per un minuto, l'ho visto, ma i capelli mi si erano drizzati sulla testa come aculei. Signore, se quello era il mio padrone, perché portava una maschera sulla faccia? Se quello era il mio padrone, perché aveva gridato come un sorcio in trappola, ed era fuggito davanti a me? Io sono stato tanto tempo al suo servizio. E poi...". S'interruppe, e si passò una mano sul viso.
"Queste sono tutte circostanze molto strane" disse il signor Utterson. "Ma credo di cominciare a vederci chiaro. Il vostro padrone, Poole, è semplicemente vittima di una di quelle malattie che torturano e deformano il malato; questa è la causa, a quanto mi sembra, dell'alterazione della voce; di quella maschera e dell'allontanamento dagli amici; della sua ansia di trovare il medicamento, per mezzo del quale il poveretto ha qualche speranza di guarigione, e Dio voglia che non resti deluso! Questa è la mia spiegazione: è abbastanza triste, Poole, si, e pauroso a pensarci, ma è chiaro e naturale, logico, e ci libera da ogni esagerato allarme".
"Signore" disse il domestico, con una sorta di pallore in viso "quello non era il mio padrone, è certo. Il mio padrone..." (e qui si guardò intorno e cominciò a parlare a bassa voce) "è un uomo alto e ben fatto, e quello era poco più di un nano".
Utterson tentò di protestare.
"Oh, signore", esclamò Poole "credete che io non conosca il mio padrone dopo vent'anni? Credete che non sappia dove arriva la sua testa, sulla porta della sua stanza, dove l'ho veduto ogni mattina della mia vita? No, signore, quella persona con la maschera non era il dottor Jekyll... Dio solo sa chi era, ma non era affatto il dottor Jekyll; e sono profondamente convinto che ci sia stato un assassinio".
"Poole", ribatté l'avvocato "se voi affermate questo diverrà mio dovere accertarmene. Per quanto io desideri rispettare i sentimenti del vostro padrone, per quanto sia messo in imbarazzo da questo biglietto che sembra provare la sua esistenza, considererò mio dovere sfondare quella porta".
"Ah, signor Utterson, questo si chiama parlare!" esclamò il maggiordomo.
"E ora viene la seconda questione", riprese Utterson. "Chi la sfonderà?".
"Ebbene, voi ed io, signore" fu la risposta pronta.
"Molto ben detto", rispose l'avvocato "e qualsiasi cosa avvenga, farò il possibile perché voi non dobbiate avere noie".
"C'è un'ascia, nella sala anatomica" continuò Poole; "e voi potrete prendere l'attizzatoio".
L'avvocato prese quel rozzo ma pesante strumento, e lo bilanciò nel pugno.
"Sapete, Poole", disse, alzando gli occhi "che voi e io stiamo per cacciarci in una posizione pericolosa?".
"Potete ben dirlo, signore, effettivamente" rispose il maggiordomo.
"E allora sarà opportuno che siamo franchi" disse l'altro. "Tutt'e due pensiamo più di quanto non abbiamo detto: parliamoci chiaro. La persona mascherata che avete vista; l'avete riconosciuta?".
"Ebbene, signore, è stato così rapido ed era così trasformata, che non potrei affatto giurarlo" fu la risposta. "Ma se volete dire... che quello era il signor Hyde, ebbene, sì, credo che lo fosse! Vedete, era della sua corporatura; e aveva la stessa sua rapidità; e poi, chi altro poteva essere entrato dalla porta del laboratorio? Non avrete dimenticato, signore, che all'epoca dell'assassinio aveva ancora la chiave con sé. Ma questo non è tutto. Non so, signor Utterson, se voi abbiate mai incontrato quel signor Hyde?".
"Sì" disse l'avvocato. "Ho parlato una volta con lui".
"Allora dovete sapere come lo sappiamo noi che c'era qualcosa di strano intorno a quell'uomo... qualcosa che faceva rabbrividire... non so bene come spiegarlo, signore, se non così: qualcosa che vi fa venire il freddo sin nel midollo delle ossa".
"Anch'io ho provato qualcosa di simile" disse il signor Utterson.
"Proprio così, signore" rispose Poole. "Ebbene, quando quell'essere mascherato saltò come una scimmia di tra gli apparecchi chimici e scomparve nel gabinetto, provai un brivido lungo tutta la spina dorsale. Oh, lo so, non è una prova, signor Utterson; sono abbastanza istruito per sapere questo; ma un uomo ha le sue sensazioni, e io vi giuro sulla Bibbia che quello era il signor Hyde!".
"Sì, sì," disse l'avvocato "i miei timori vanno d'accordo con i vostri. Temo che il male sia stato l'origine (e il male doveva essere la conseguenza) di quella relazione. Ah, certamente, vi credo; credo che il povero Harry sia stato ucciso; e credo che il suo assassino (per quale motivo, solo Dio lo sa) stia ancora rinchiuso nella stanza della sua vittima. Bene, che il nostro nome sia vendetta: chiamate Bradshaw".
Il domestico accorse al richiamo, pallidissimo e nervoso.
"Fatevi animo, Bradshaw" disse l'avvocato. "Questa incertezza vi pesa, vi infastidisce; ma, ora, è nostra intenzione porre termine a simile stato di cose. Poole e io stiamo per forzare la porta del gabinetto. Se tutto va bene, le mie spalle sono larghe abbastanza per sopportare i rimproveri. Frattanto, per il caso che vi sia veramente qualcosa di anormale, oppure che qualche malfattore cerchi di fuggire dalla parte posteriore, voi e il ragazzo girate l'angolo con un paio di buoni bastoni, e appostatevi davanti alla porta del laboratorio. Vi diamo dieci minuti per arrivare al vostro posto".
Mentre Bradshaw si allontanava, l'avvocato guardò l'orologio.
"E adesso, Poole, andiamoci noi, al nostro posto" disse, e, mettendosi l'attizzatoio sotto il braccio, si avviò verso il cortile.
Le nubi avevano coperto la luna, ed ora faceva buio. Il vento, che giungeva solo a folate, e penetrava in quella fitta massa di caseggiati, agitò la fiamma della candela davanti,ai loro passi, sinché non giunsero al riparo della sala anatomica dove essi sedettero in silenzio ad aspettare. Londra mormorava solennemente tutt'intorno; ma lì vicino, il silenzio era rotto soltanto dal rumore dei passi che andavano su e giù sul pavimento del gabinetto privato.
"Così cammina tutto il giorno, signore " mormorò Poole. " Sì, e anche per gran parte della notte. Solo quando un nuovo campione di medicina giunge dalla farmacia, allora c'è una pausa. Ah, solo una coscienza colpevole può essere tanto nemica del riposo! Ah, signore, è il passo dell'assassino! Ma ascoltate ancora, più vicino... siate tutt'orecchi, signor Utterson, e ditemi se questo è il passo del mio padrone!".
I passi erano leggeri e irregolari, avevano un certo ritmo, benché fossero così lenti; erano effettivamente diversi dall'andatura pesante di Henry Jekyll. Utterson sospirò.
"Non avete sentito nient'altro?" chiese.
Poole annuì.
"Una volta", disse "una volta l'ho udito piangere!".
"Piangere? Come?" chiese l'avvocato, avvertendo un improvviso brivido di orrore.
"Piangere come una donna o un animo in pena" disse il maggiordomo. "Mi sono allontanato con quell'impressione qui dentro, e avrei pianto anch'io".
Intanto i dieci minuti erano ormai quasi passati. Poole estrasse l'ascia da sotto un mucchio di paglia da imballaggio; la candela venne collocata sul tavolo, più vicino perché illuminasse il loro assalto; e tutt'e due si accostarono, trattenendo il respiro, al luogo dove quel passo tenace andava su e giù, su e giù, nel silenzio della notte.
"Jekyll", gridò Utterson, forte "chiedo di potervi vedere". Tacque un minuto, ma non gli giunse alcuna risposta. "Vi avverto lealmente che sono nati in noi sospetti, e dobbiamo e vogliamo vedervi", continuò "se non con mezzi leciti, con gli illeciti: se non acconsentite, ricorreremo alla forza".
"Utterson", rispose la voce "per amor di Dio, abbiate pietà!"
"Ah, questa non è la voce di Jekyll! È la voce di Hyde!" esclamò Utterson. "Sfondiamo la porta, Poole".
Poole alzò la scure sopra la testa; il colpo scosse tutta la casa, e la porta coperta di rosso si ruppe tra i cardini e la serratura. Un terribile grido, come di un terrore animale, si levò nella stanza. La scure salì di nuovo, e di nuovo il legno si squarciò, e l'intelaiatura della porta si scosse; per quattro volte il colpo si ripeté; ma il legno era resistente, e la serratura ben fatta; solo al quinto colpo la serratura andò in pezzi, e la porta in frantumi cadde all'interno, sul tappeto.
Gli assalitoti, stupiti dalla loro stessa violenza e dal silenzio che ne era seguito, si ritrassero un poco, e guardarono dentro. Davanti ai loro occhi era il gabinetto, alla tranquilla luce della lampada, e un bel fuoco brillava e scoppiettava nel camino, mentre il pentolino del tè canterellava la sua sottile canzone, uno o due cassetti erano aperti, le carte bene ordinate sulla scrivania, e, vicino al fuoco, il servizio per il tè era già apparecchiato: la stanza più tranquilla di Londra, si sarebbe detto, e, non fosse stato per le vetrine piene di apparecchi chimici, la più comune, quella sera.
Proprio nel mezzo della stanza giaceva il corpo di un uomo dolorosamente contorto e ancora palpitante. Si avvicinarono in punta di piedi, lo rivoltarono sulla schiena, e videro la faccia di Edward Hyde. Era vestito con abiti troppo ampi per lui, abiti della misura del dottore; i muscoli della sua faccia ancora si contraevano in una parvenza di vita, ma la vita era completamente cessata; e dalla fiala che teneva in mano e dal forte odore di medicinale che fluttuava nell'aria, Utterson capì di essere in presenza del cadavere di un suicida.
"Siamo arrivati troppo tardi", disse seccamente "per salvare e per punire. Hyde ha scontato con la morte, e ora non ci resta che trovare il corpo del vostro padrone".
La maggior parte della casa era occupata dalla sala anatomica, che prendeva quasi l'intero pianterreno ed era illuminata dall'alto, e dal gabinetto, che formava un piano superiore, da una parte, e che dava sul cortile. Un corridoio collegava la sala con la porta che usciva sulla strada secondaria: e il gabinetto comunicava separatamente con questa per mezzo di una seconda rampa di scale. C'erano inoltre alcuni ripostigli scuri e una spaziosa cantina. I due ora esaminarono tutti questi locali accuratamente. Per ogni ripostiglio non occorreva più di un'occhiata, perché erano tutti vuoti, e tutti, a giudicare dalla polvere che cadeva dagli sportelli, non erano stati evidentemente aperti da tempo. La cantina, poi, era piena di arnesi inutili e antiquati, per la maggior parte risalenti all'epoca del chirurgo predecessore del dottor Jekyll; ma, quando i due aprirono la porta, capirono subito l'inutilità di ulteriori ricerche, per la caduta di una fitta ragnatela che per anni era stata attaccata all'entrata. In nessun posto esisteva traccia di Henry Jekyll, morto o vivo.
Poole batté il piede sulle lastre del pavimento del corridoio.
"Deve essere sepolto qui " disse, prestando attenzione al suono cavo.
"Oppure può essere fuggito" disse Utterson, e si voltò per esaminare la porta che dava sulla stradetta. Era chiusa; a terra lì vicino era la chiave, già macchiata di ruggine.
"Questa, non pare sia stata usata" osservò l'avvocato.
"Usata!" fece eco Poole "non vedete, signore, che è rotta? Come se uno l'avesse calpestata".
"Sì", continuò Utterson "e anche i pezzi sono arrugginiti".
I due uomini si guardarono con apprensione.
"Questo supera le mie possibilità di comprensione, Poole" disse l'avvocato... "Torniamo nel gabinetto".
Salirono la scala in silenzio, e, dopo aver dato ancora un'occhiata piena di terrore al cadavere, passarono a esaminare con maggior cura tutto quello che era nella stanza. Su una tavola erano tracce di esperimenti chimici, varie bacinelle di vetro dove era stata misurata una polvere bianca, come per un tentativo che il disgraziato avesse fallito.
"È proprio la polvere che gli portavo continuamente" disse Poole; e, mentre. parlava, il pentolino del tè con un rumore improvviso prese a bollire.
Questo li condusse accanto al focolare, dove la poltrona era comodamente accostata, e l'apparecchiatura per il tè era pronta accanto al gomito di chi sedeva, con lo zucchero già nella tazza. Su uno scaffale erano vari libri; uno di essi era aperto accanto alla tazza, e Utterson restò sorpreso nel vedere che era un esemplare di un libro religioso, per il quale Jekyll aveva molte volte espresso una grande stima; quel volume era annotato, di suo pugno, con terribili bestemmie.
Poi, nel corso del loro esame della stanza, i due si accostarono al grande specchio, nel quale guardarono con istintiva paura. Lo specchio era collocato in modo da mostrare loro soltanto il roseo bagliore giocante sul soffitto, la fiamma ripetuta in cento riflessi dalla superficie vitrea degli scaffali, e le loro facce pallide e spaventate intente a osservare.
"Questo specchio ha visto molte strane cose, signore" mormorò Poole.
"E certamente nulla è più strano di questo specchio" fece eco l'avvocato sullo stesso tono. "Cosa ha fatto Jekyll?...". S'interruppe trasalendo a queste parole, poi, vincendo l'attimo di debolezza. "Come poteva servire, questo, a Jekyll?".
"Se non lo sapete voi..." disse Poole.
Poi si girarono verso la scrivania. Sul ripiano, tra le carte bene ordinate, era una grande busta che, recava, tracciato dalla calligrafia del dottore, il nome di Utterson. L'avvocato l'aprì, e molti fogli caddero al suolo. Il primo era un testamento, scritto negli stessi eccentrici termini di quello che l'avvocato aveva restituito al dottore sei mesi prima, e che valeva come testamento in caso di morte, e come atto di donazione in caso di scomparsa; ma al posto del nome di Edward Hyde, l'avvocato, con indescrivibile stupore, lesse il nome di Gabriel John Utterson. Guardò Poole, e poi di nuovo il foglio, e infine il colpevole morto, disteso sul tappeto.
"Mi gira la testa" disse; "l'ha avuto nelle sue mani durante tutti questi giorni; non aveva alcun motivo di simpatia nei miei riguardi; deve essersi adirato nel vedersi mal considerato, eppure non ha distrutto questo documento".
Poi prese il secondo foglio; era un breve scritto, di mano del dottore, e portava in cima una data.
"Oh, Poole!" esclamò l'avvocato "il dottore era ancora vivo, qui, oggi stesso! Non può essere stato ucciso in così breve tempo, deve essere ancora in vita, deve essere fuggito! Ma allora, perché è fuggito? e come? e in questo caso, possiamo arrischiarci a denunciare questo suicidio? Oh, dobbiamo essere prudenti. Ho il presentimento che potremmo ancora coinvolgere il vostro padrone in qualche orribile catastrofe".
"Perché non leggete, signore?" chiese Poole.
"Perché ho paura" rispose l'avvocato solennemente. "Dio voglia che sia una paura senza motivo!" e così dicendo si portò il foglio davanti agli occhi e cominciò a leggere quanto segue:
Mio caro Utterson, quando questo foglio cadrà in vostre mani, io sarò scomparso, in quali circostanze, non posso prevederlo, ma il mio istinto e tutte le condizioni di questo mio indicibile stato mi dicono che la fine è certa e prossima. Leggete, allora, per prima cosa, il racconto che Lanyon mi avverti di dover porre nelle vostre mani; e, se volete saper di più, rivolgetevi alla confessione del vostro indegno ed infelice amico
Henry Jekyll
"C'è un altro plico?" chiese Utterson.
"Eccolo, signore" disse Poole, e gli mise in mano un grosso plico sigillato in vari punti.
L'avvocato se lo pose in tasca.
"Non vorrei dir nulla di questo foglio. Se il vostro padrone è fuggito o è morto, potremo almeno salvare il suo onore. Ora sono le dieci; devo andare a casa a leggere questi documenti con tranquillità; ma sarò di ritorno prima di mezzanotte, e, allora, manderemo a chiamare la polizia".
Uscirono, chiudendosi dietro la porta della sala anatomica; e Utterson, lasciando ancora tutta la servitù radunata intorno al camino nell'entrata, si avviò verso il suo ufficio per leggere i due documenti che avrebbero dovuto svelare il mistero.


IX
IL RACCONTO DEL DOTTOR LANYON

Il nove di gennaio, quattro giorni or sono, ricevetti con la posta serale una lettera raccomandata, che recava l'indirizzo di mano del mio collega e vecchio compagno di scuola, Henry Jekyll. Restai molto stupito; infatti non eravamo per nessun motivo abituati alla corrispondenza; io lo avevo visto, avevo, sì, cenato in sua compagnia, la sera precedente, ma non potevo immaginare nulla nei nostri rapporti capace di giustificare la formalità di una raccomandata. Il contenuto della lettera aumentò il mio stupore; ecco cosa vi era scritto:
10 dicembre 18..
Caro Lanyon,
voi siete uno dei miei più vecchi amici; e, sebbene possiamo avere avuto divergenze in materia scientifica, non ricordo, almeno da parte mia, che nel nostro affetto si sia mai verificata alcuna rottura. Non è mai esistito un giorno nel quale, se voi mi aveste detto: a Jekyll, la mia vita, il mio onore, la mia ragione stessa dipendono da voi" io non avrei sacrificato tutto il mio avere, o la mia mano destra per aiutarvi. Ora, Lanyon, la mia vita, il mio onore, la mia ragione, tutto sta nelle vostre mani; se questa sera mi mancate, io sono perduto. Potete supporre, dopo questo preambolo, che io stia per chiedervi qualcosa di disonorevole. Giudicate voi stesso.
Desidero che rimandiate ogni altro impegno per questa sera, si, anche se foste chiamato al capezzale di un imperatore; che prendiate una carrozza, a meno che la vostra non sia già alla porta; e che con questa lettera in mano per guidarvi, veniate direttamente da me. Poole, il mio maggiordomo, ha avuto ordini precisi; lo troverete ad aspettare il vostro arrivo con un fabbro. Dovrete allora forzare la porta del mio gabinetto; e voi entrerete solo; aprirete la vetrina (lettera E) a sinistra, rompendo la serratura se fosse chiusa; tirate poi fuori, con tutto il contenuto così come sta, il quarto cassetto dall'alto, ovvero (il che è lo stesso) il terzo dal basso. Nella mia estrema disperazione, ho una morbosa paura di non darvi istruzioni abbastanza precise; ma anche se mi sbagliassi, potrete riconoscere il cassetto dal suo contenuto: delle polveri, una fiala, e un fascicolo. Vi scongiuro di portare questo cassetto con voi, a Cavendish Square, esattamente come si trova.
Questa è la prima parte del favore che vi chiedo: e ora la seconda. Sarete di ritorno, se uscirete subito appena ricevuta la mia lettera, molto prima di mezzanotte; ma vi lascerò un margine di tempo, non solo per timore di uno di quegli ostacoli che non si possono prevenire né prevedere, ma perché per quello che vi resta da fare è da preferirsi un'ora nella quale i vostri servi siano a letto. A mezzanotte, dunque, vi chiedo di trovarvi solo nella vostra stanza di consultazione, per ricevere di persona un uomo che vi si presenterà a mio nome, e per consegnargli il cassetto che avrete portato con voi dal mio gabinetto. A questo punto avrete compiuto la vostra parte e avrete tutta la mia gratitudine. Cinque minuti dopo, se insisterete per avere una spiegazione, capirete che queste disposizioni sono di capitale importanza; e che, se una di esse verrà trascurata, per quanto possano apparire stravaganti, avrete sulla coscienza la mia morte o la perdita completa della mia ragione.
Ho piena fiducia che prenderete sul serio questa mia supplica, ma il mio cuore palpita e la mia mano trema al solo pensiero della possibilità che così non avvenga. Pensate a me a quest'ora, in un luogo inopportuno, in preda a una oscura angoscia che nessuna fantasia potrebbe esagerare, eppure ben cosciente che, se soltanto voi mi farete puntualmente questo favore, i miei guai si dissolveranno come alla fine di una favola. Aiutatemi, caro Lanyon, e salvate il vostro amico.
Henry Jekyll
P.S. Avevo già sigillata la lettera, quando un nuovo terrore mi ha colpito. Può darsi che l'ufficio postale mi tradisca, e che questa lettera non arrivi nelle vostre mani sino a domattina. In questo caso, caro Lanyon, adempite alla mia richiesta quando vi parrà più opportuno nel corso della giornata; e aspettate sempre il mio messaggero a mezzanotte. Potrebbe allora essere già troppo tardi; e, se questa notte trascorrerà senza alcun avvenimento, saprete di aver visto per l'ultima volta Henry Jekyll.
Dopo aver letto questa lettera, fui certo che il mio collega fosse impazzito. Ma sinché questo non fosse stato dimostrato senza possibilità di dubbio, mi sentii costretto ad agire come mi veniva chiesto. Meno capivo in quel pasticcio, meno mi sentivo nella posizione di giudicare la sua importanza; non potevo trascurare un'invocazione in quei termini, senza assumermi una grave responsabilità. Mi alzai perciò da tavola, presi una carrozza, e andai direttamente a casa di Jekyll. Il maggiordomo aspettava la mia venuta; aveva ricevuto, con lo stesso giro di posta, una raccomandata con istruzioni, e aveva mandato a cercare un fabbro e un falegname. I due giunsero mentre stavamo parlando; ci dirigemmo tutti insieme verso la sala anatomica del vecchio dottor Denman, dalla quale (come certamente saprete), si entra nel gabinetto privato di Jekyll. La porta era molto resistente, e la serratura eccellente: il falegname dichiarò che gli sarebbe costato molta fatica, e che avrebbe fatto un gran dannò, se doveva usate la forza; e il fabbro disperava quasi di riuscire. Ma quest'ultimo era un tipo molto abile, e, dopo due ore di lavoro, la porta fu spalancata. La vetrina contrassegnata "E" era aperta; e io estrassi il cassetto, lo ricoprii di paglia, lo avvolsi in una carta, e me ne tornai con quello in Cavendish Square.
Qui procedetti a esaminarne il contenuto. Le polveri erano composte abbastanza accuratamente, ma non con l'esattezza di un chimico; era chiaro che le aveva fatte Jekyll stesso, in privato; e, quando aprii una delle bustine, vi trovai quello che mi sembrò un semplice sale bianco cristallino. La fiala, a cui rivolsi poi la mia attenzione, era riempita a metà di un liquido color rosso sangue, dall'odore molto acuto, mi parve contenere fosforo con qualche etere volatile. Degli altri ingredienti non potevo indovinare nulla. Il fascicolo era un comune quaderno di appunti e conteneva poco, oltre una serie di date. Queste comprendevano un periodo di molti anni, ma osservai che le annotazioni s'interrompevano circa un anno prima, e bruscamente. Qua e là una breve nota era aggiunta a una data, per lo più una sola parola: " doppio", che si ripeteva forse sei volte nel giro di parecchie centinaia di date; una volta al principio della lista, seguita da molti punti esclamativi, vidi l'iscrizione: " fallimento completo!!! ". Tutto questo, sebbene eccitasse la mia curiosità, non mi diceva molto di definitivo. C'era Una fiala di un qualche liquido colorato, una cartina di una qualche polvere, e l'annotazione di una serie di esperimenti che non avevano condotto (come tanti altri nelle ricerche di Jekyll) ad alcun risultato di pratica utilità. Come poteva la presenza di simili oggetti in casa mia colpire l'onore, la sanità mentale o la stessa vita del mio strano collega? E, pur ammettendo qualche impedimento, perché il suo messaggero doveva venire ricevuto da me in segreto? Più riflettevo, più mi convincevo di avere a che fare con un caso di malattia mentale; e, pur mandando i miei servi a dormire, caricai una vecchia pistola per potermi trovare pronto alla difesa.
Era appena suonata la mezzanotte su Londra, quando fu bussato lievemente alla mia porta. Andai io stesso ad aprire, e mi trovai davanti a un uomo di bassa statura accovacciato fra i pilastri del portico.
"Venite da parte del dottor Jekyll?" domandai.
Mi rispose di sì, con un gesto forzato; e, quando gli dissi di entrare, mi obbedì, gettando un'occhiata indietro nell'oscurità della piazza. C'era una guardia non lontano di lì, che veniva avanti con la lanterna accesa; vedendola, pensai che il mio visitatore la temesse, e, infatti, entrò in fretta. Questi particolari mi colpirono, lo confesso, piuttosto sgradevolmente; e, mentre lo seguivo nella chiara luce della mia stanza di consultazione, tenevo la, mano pronta sull'arma. Finalmente potei vederlo chiaramente. Non avevo mai messo gli occhi su di lui prima, ne ero certo. Era piccolo, come ho già detto; fui colpito, oltre che dalla terribile espressione della sua faccia, dalla notevole mescolanza di grande forza muscolare e di grande debolezza di costituzione, e, cosa non meno notevole, dalla strana e soggettiva sensazione di disagio che mi provocava la sua vicinanza. Sembrava quasi un principio di irrigidimento, accompagnato da una notevole debolezza del polso. Lì per lì, l'attribuii ad un disgusto personale, a un'idiosincrasia, e mi stupii solo dell'acutezza dei sintomi; ma poi ebbi motivo di credere che la causa fosse insita molto più profondamente nella natura umana, e che si basasse su qualcosa di molto più nobile del sentimento dell'odio.
Quell'essere (che sin dal primo momento del suo ingresso aveva sollevato in me quello che posso descrivere solo come una curiosità piena di disgusto) era vestito in maniera capace di render ridicola qualsiasi persona normale; i suoi abiti, sebbene fossero di fattura elegante e sobria, erano enormemente ampi per lui in tutti i sensi: i pantaloni gli pendevano sulle gambe ed erano rimboccati per non toccare il suolo, la vita della giacca gli arrivava sotto i fianchi, il colletto gli si allargava sulle spalle. Strano a dirsi, questo grottesco abbigliamento era ben lontano dal farmi ridere. Piuttosto, come c'era qualcosa di anormale e di deforme nella natura di quell'essere che mi stava di fronte, qualcosa di singolare, di sorprendente e rivoltante allo stesso tempo, così quella nuova stonatura pareva rinforzarne la singolarità; perciò al mio interesse per la natura e il carattere dell'uomo si aggiungeva la curiosità circa la sua origine, la sua vita, la sua fortuna e la sua posizione nel mondo.
Queste osservazioni, sebbene richiedano molto spazio per essere riferite, allora furono istantanee. Il mio visitatore era in preda a una cupa agitazione.
"L'avete?" gridò "l'avete?". E la sua impazienza era tanto viva, che la sua mano si posò sul mio braccio e cercò di scuotermi.
Lo respinsi, avvertendo al suo contatto un certo brivido gelato nelle vene.
"Via, signore", dissi "dimenticate che non ho ancora il piacere di conoscervi. Sedete, prego".
Gli detti l'esempio, e sedetti anch'io nella mia solita poltrona, assumendo le solite maniere che uso verso un paziente, per quanto me lo permettevano l'ora tarda, la natura delle mie preoccupazioni, e l'orrore che provavo per il mio ospite.
"Vi chiedo scusa, dottor Lanyon" rispose quello, abbastanza cortesemente. "Quanto dite è molto giusto; la mia impazienza ha vinto l'educazione. Vengo per ordine del vostro collega, dottor Henry Jekyll, per un affare di una certa importanza; e so che..." s'interruppe, e si portò una mano alla gola e mi accorsi che, nonostante i suoi modi composti, stava lottando contro l'approssimarsi di una crisi isterica: "So che un certo cassetto...".
A questo punto ebbi pietà dell'ansia del mio visitatore, anche forse per la mia crescente curiosità.
"Eccolo, signore" dissi, indicando il cassetto che giaceva sul pavimento, sotto una tavola, ancora ricoperto della carta.
Quello si precipitò, poi si trattenne, e si portò una mano al cuore; potevo sentire i suoi denti scricchiolare nel movimento convulso della mascella; e la sua faccia era così spettrale a vedersi, che mi allarmai per la sua vita e la sua ragione.
"Calmatevi" gli dissi.
Mi rivolse un terribile sorriso, e con l'impulso della disperazione, tirò fuori il cassetto. Alla vista del contenuto, emise un forte singhiozzo di un tale immenso sollievo che io rimasi pietrificato. Subito dopo, con una voce già tornata normale, mi domandò: "Avete un bicchiere graduato?".
Mi alzai con una certa fatica e gli porsi quello che chiedeva.
Mi ringraziò con un sorridente cenno d'assenso, misurò poche gocce del liquido rosso e vi aggiunse una delle polveri. La miscela, che da principio era di colore rossastro, diventò, man mano che i cristalli si scioglievano, più chiara ed effervescente, e prese a emanare piccoli getti di vapore. Nello stesso attimo improvvisamente, l'ebollizione cessò e il composto diventò di uno scuro color porpora, che cangiò di nuovo e più lentamente in un color verde acqua. Il mio visitatore, che aveva scrutato quelle metamorfosi con occhio attento, sorrise, depose il bicchiere sulla tavola, poi si voltò a guardarmi con aria scrutatrice.
"E ora", disse "concludiamo. Volete essere saggio? Volete un buon consiglio? Permettete che io prenda questo bicchiere in mano, e me ne vada dalla vostra casa senza ulteriori parole? Oppure la curiosità domina in voi? Pensateci, prima di rispondere, perché sarà fatto quello che deciderete voi. Se deciderete per lasciarmi andare, resterete come prima, né più ricco né più saggio, a meno che la coscienza di un servigio reso a un uomo in un momento di disperazione mortale non possa essere considerata come una specie di ricchezza spirituale. Oppure, se preferirete sapere, tutto un nuovo mondo di cognizioni, nuove vie verso la fama e il potere vi saranno aperte davanti, qui, in questa stanza, in questo stesso attimo; la vostra vista sarà abbagliata da un prodigio tale da scuotere l'incredulità di Satana".
"Signore", dissi io, ostentando una freddezza che ero ben lontano dal provare "parlate per enigmi, e forse non vi stupirete che io vi ascolti con poca credulità. Ma ormai sono, andato troppo avanti su questa via di inesplicabili servigi, per arrestarmi prima di vederne il termine".
"Bene" rispose il mio visitatore. "Lanyon, ricordate i vostri voti: ciò che segue è sotto il suggello del segreto professionale. E ora, voi che siete stato tanto tempo legato alle più strette e grette vedute, voi che avete negata la virtù della medicina trascendentale, voi che avete deriso chi vi era superiore.., guardate!".
Si portò il bicchiere alle labbra, e bevve il contenuto in un sorso. Udii un grido; barcollò, vacillò, si aggrappò alla tavola con gli occhi sbarrati e iniettati di sangue, ansando con la bocca aperta; e, mentre Io guardavo, si trasformava, così mi sembrò, pareva gonfiarsi, la faccia diventò improvvisamente nera, i suoi lineamenti parvero dissolversi e alterarsi; l'attimo successivo io ero balzato in piedi ed indietreggiavo verso il muro, alzando il braccio come per difendermi da quel prodigio, con l'animo sommerso dal terrore.
"Oh, Dio!" gridai, e poi di nuovo: "Oh, Dio, oh, Dio!" Davanti ai miei occhi, pallido, tremante, e mezzo svenuto, con le mani che annaspavano in avanti, come un uomo che risusciti, stava Henry Jekyll!
Quello che mi disse durante l'ora che seguì, non sono capace di trascriverlo sulla carta. Vidi quello che vidi, udii quel che udii, e il mio animo ne cadde ammalato; e anche ora, che quella vista non è più davanti ai miei occhi, mi chiedo se debbo credervi, e non so rispondere. La mia stessa vita è scossa dalle radici; il sonno mi ha abbandonato; il più mortale terrore mi domina a ogni ora del giorno e della notte; sento che le mie ore sono contate, e che devo morire; eppure morrò incredulo. Quanto alla turpitudine morale che quell'uomo mi ha rivelato, anche se con le lacrime del pentimento, non sono capace neppure nel ricordo di pensarvi se non con un brivido di orrore. Dirò solo una cosa, Utterson, e (se riuscirete a crederla) sarà più che sufficiente: la creatura che s'insinuò in casa mia quella notte era, secondo la confessione dello stesso Jekyll, conosciuta con il nome di Hyde, ed era ricercata in ogni angolo della terra come l'assassino di Carew.
Hastie Lanyon


X
LA RELAZIONE DI JEKYLL SUL CASO

Sono nato nell'anno 18.., notevolmente ricco, e dotato inoltre di eccellenti qualità, incline per natura all'operosità, pieno di rispetto per i miei maggiori e ben disposto verso i miei simili; perciò, come si poteva supporre, avevo ogni garanzia di un avvenire onorevole e brillante. In verità, il peggiore dei miei difetti era quella certa impaziente vivacità, che ha fatto la fortuna di molti, ma che io trovai sempre difficile conciliare con il mio imperioso desiderio di portare la testa alta e di presentare al pubblico un contegno più grave del normale. Di conseguenza avvenne che io nascondessi i miei piaceri; e, quando raggiunsi l'età della riflessione e cominciai a guardarmi intorno e a considerare il mio progresso e la mia situazione nel mondo, mi trovai già impegnato in una profonda duplicità di vita. Più di una persona avrebbe anche vantato le irregolarità delle quali io ero colpevole; ma, date le alte vedute che avevo, io le consideravo e le celavo con un senso di vergogna quasi morboso. Fu perciò la natura prepotente delle mie aspirazioni, più che qualsiasi particolare degradazione nei miei errori, a rendermi quello che fui, e, con un abisso più profondo che nella moltitudine degli uomini, separò in me il dominio del bene dal dominio del male, che dividono e compongono la natura dualistica dell'uomo. In questo caso, ero portato a riflettere profondamente e lungamente su quella dura legge della vita, che sta alla radice della religione ed è una delle più copiose sorgenti di dolore. Benché profondamente duplice, io non ero affatto un ipocrita; tutt'e due i miei lati erano estremamente sinceri; io ero sempre me stesso, sia che mettessi da parte qualsiasi riserbo e sprofondassi nella vergogna, sia che mi affaticassi, alla luce del giorno, per il progresso della scienza o per il sollievo dai dolori e dalle sofferenze. Avvenne che la direzione dei miei studi scientifici, che portavano direttamente verso il mistico e il trascendentale, deviasse e gettasse una viva luce su questa coscienza della perenne lotta tra le mie membra. Ogni giorno, e secondo i due impulsi del mio animo, morale e intellettuale, io mi avvicinai così a quella verità, la scoperta parziale della quale mi ha trascinato a una così orribile catastrofe: e cioè che l'uomo non è in verità unico, ma duplice. Dico duplice perché lo stato della mia conoscenza non va oltre questo punto. Altri seguiteranno, altri mi sorpasseranno in questa direzione, e io posso osare prevedere che infine l'uomo verrà riconosciuto come un risultato di molteplici, incongrui ed indipendenti entità. Da parte mia, per la natura della mia vita, ho proceduto infallibilmente in una sola direzione. Fu studiando il lato morale nella mia stessa persona che imparai a riconoscere la profonda e primitiva dualità dell'uomo; ho visto che, delle due nature che lottavano nel campo della mia coscienza, anche se potevo dire giustamente di essere l'una o l'altra, appartenevo in realtà radicalmente a tutt'e due; e sin dagli inizi, anche prima che il corso delle mie scoperte scientifiche avesse cominciato a suggerirmi la possibilità di un simile miracolo, avevo appreso a compiacermi, come in un bel sogno, al pensiero della separazione di quegli elementi. Se ciascuno di essi, dicevo a me stesso, potesse solamente essere riposto in identità separate, la vita sarebbe alleviata di tutto quanto ha d'insopportabile; l'ingiusto potrebbe andarsene per la sua strada, liberato dalle aspirazioni e dal rimorso del suo gemello più onesto; e il giusto potrebbe camminare tranquillo e sicuro per la sua strada elevata, compiendo il bene in cui trova il suo piacere, non più esposto alla vergogna e al pentimento a causa del male a lui estraneo. Era la maledizione del genere umano, il fatto che quei due elementi contrastanti fossero così legati insieme, che nel seno agonizzante della coscienza, questi due poli dovessero essere in continua lotta. Come dissociarli allora?
Ero arrivato a questo punto nelle mie riflessioni, quando, come ho detto, una luce cominciò a brillare sull'argomento, dal mio tavolo di laboratorio. Cominciai a percepire più profondamente di quanto non sia mai stato affermato la tremante immaterialità, la mutevolezza simile a nebbia di questo corpo apparentemente tanto solido nel quale noi viviamo. Trovai che certi agenti avevano il potere di scuotere e di strappare questo rivestimento di carne, come il vento può strappare una tenda. Per due buone ragioni non m'inoltrerò profondamente in questo ramo scientifico della mia confessione. In primo luogo, perché ho imparato che il peso e il destino della nostra vita sono legati per sempre alle spalle dell'uomo, e, quando si tenta di disfarsene, ci ricadono addosso con maggiore e peggiore oppressione. In secondo luogo, perché, come la mia narrazione, ahimè, dimostrerà, le mie scoperte sono state incomplete. Basti dire che non solo io riconobbi il mio corpo naturale come una semplice emanazione e irradiazione di certi poteri del mio spirito, ma mi adoperai a comporre una sostanza con la quale tali poteri potessero essere annullati nella loro supremazia, e sostituiti da una seconda forma e da un secondo aspetto non meno naturali per me, perché offrivano l'espressione e portavano il marchio degli elementi più vili della mia anima.
Esitai a lungo prima di porre questa teoria alla prova della pratica. Sapevo bene di rischiare la morte; perché la droga che così potentemente controllava e scuoteva la fortezza dell'identità, avrebbe potuto, per una minima eccedenza nella dose, o un minimo inconveniente al momento della somministrazione, annullare del tutto quel tabernacolo immateriale che io con essa volevo trasformare. Ma la tentazione di una così singolare e profonda scoperta finalmente vinse ogni allarmistico timore. Avevo da molto tempo preparato la mia miscela; comperai subito, da un grossista di farmacia, una grande quantità di una polvere speciale, che sapevo per i miei esperimenti essere l'ultimo ingrediente richiesto; e in una notte maledetta, composi gli elementi, li guardai bollire e fumare mescolati nel bicchiere, e, appena l'ebollizione fu cessata, con un gran gesto di coraggio, mandai giù la pozione.
Subito dopo provai dolori laceranti: uno scricchiolio nelle ossa, una nausea mortale, e un orrore dello spirito che non può essere superato nell'attimo della nascita o della morte. Poi questa agonia cominciò a placarsi, e tornai in me come da una grave malattia. C'era qualcosa di strano; nelle mie sensazioni, qualcosa di indescrivibilmente nuovo, e, appunto per la novità, incredibilmente dolce. Mi sentii più giovane, più leggero, più felice fisicamente; dentro di me avvertivo uno sconvolgimento cerebrale, una corrente di disordinate immagini sensuali che mi tumultuava nella fantasia e una sensazione sconosciuta ma non innocente di libertà m'invadeva l'anima. Io stesso capii, al primo alito di questa nuova esistenza, che ero ben malvagio, dieci volte più malvagio, venduto come uno schiavo al mio peccato originale; e in quel momento un tal pensiero mi esaltò, m'inebriò come vino. Tesi le braccia, entusiasta per la freschezza di quelle sensazioni; e in quel gesto, mi avvidi immediatamente di come la mia statura si fosse ridotta.
A quel tempo non esisteva specchio nel mio gabinetto; quello che mi sta davanti mentre scrivo è stato portato qua dentro più tardi e proprio perché potessi studiarvi le mie metamorfosi. Nel frattempo, la notte s'era tramutata in alba - un'alba che, per quanto buia, era molto vicina a concepire il giorno - gli abitanti della casa erano ancora immersi nel più profondo dei sonni; e io decisi, esaltato com'ero dalla mia speranza e dal mio trionfo, di avventurarmi nella mia nuova forma sino alla stanza da letto. Attraversai il cortile e le stelle guardarono dall'alto, forse con stupore - so di aver pensato - la prima creatura di un genere che la loro insonne vigilanza non aveva ancora mai notato; scivolai lungo i, corridoi, straniero in casa mia, e arrivai nella mia camera. Allora conobbi per la prima volta l'aspetto di Edward Hyde.
A questo punto devo parlare soltanto teoricamente, dicendo non quello che so ma quello che credo probabile. La parte malvagia della mia natura, alla quale ora io avevo dato una vigorosa efficacia, era meno robusta e meno sviluppata della parte buona. Inoltre nel corso della mia vita, che era stata, dopo tutto, per nove decimi una vita di sforzi, di virtù e di disciplina, avevo molto meno esercitato e messo alla prova quella parte cattiva. Proprio da questo derivava il fatto, credo, che Edward Hyde era più piccolo, più magro e più giovane di Henry Jekyll. Come la bontà splendeva sulla fisionomia dell'uno, la malvagità era ampiamente e chiaramente scritta in faccia all'altro. La malvagità inoltre (che ancora reputo essere la parte mortale dell'uomo) aveva impresso in quel corpo un marchio di deformità e di decadenza. Malgrado tutto questo, mentre guardavo quell'orribile idolo nello specchio, non provai alcuna ripugnanza, anzi quasi avvertii un fremito di soddisfazione. Anche quell'uomo ero sempre io. Pareva una cosa naturale e umana. Ai miei occhi quella era un'immagine più viva, più immediata, più individuale dello spirito in confronto al volto imperfetto e diviso che sino a quell'attimo avevo chiamato "io", e sino a tal punto credo d'aver avuto ragione. Ho osservato che, quando avevo le sembianze di Edward Hyde, nessuno poteva avvicinarmi senza un visibile moto di diffidenza. Questo, a parer mio, derivava proprio dal fatto che gli esseri umani, così come noi li incontriamo, sono un miscuglio di bene e di male; e Edward Hyde, invece, unico nel suo genere, era puro male.
Restai solo un minuto davanti allo specchio: dovevo tentare il secondo e conclusivo esperimento; dovevo ancora decidere se avessi perduto la mia identità senza possibilità di recupero e se, quindi, fossi costretto ad abbandonare precipitosamente, prima del giorno, una casa che non era più la mia; rientrai dunque in fretta e furia nel mio gabinetto, preparai una nuova pozione, la trangugiai, ancora una volta patii l'agonia della dissoluzione e ritornai di nuovo in me con il carattere, la statura e la faccia di Henry Jekyll.
Quella notte pervenni al bivio fatale. Se avessi considerato la mia scoperta con uno spirito più nobile, se avessi tentato l'esperimento sotto l'imperio di generose o pie aspirazioni, tutto sarebbe andato altrimenti, e da quelle agonie di morte e di rinascita sarei uscito come un angelo invece che come un diavolo. La droga non ,possedeva alcuna azione discriminante; non era diabolica come non era divina; scuoteva solo la porta della prigione dei miei desideri imprigionati e, come i prigionieri di Filippi quello che era chiuso dentro fuggiva fuori. A quel tempo la parte buona in me sonnecchiava; la parte cattiva, tenuta sveglia dall'ambizione, era pronta a cogliere ogni occasione; e quello che ne derivò fu Edward Hyde. E così, sebbene io possedessi ora due caratteri allo stesso modo che possedevo due facce, uno era interamente malvagio, ma l'altro era ancora il solito Henry Jekyll, quel miscuglio incongruo, a proposito della riforma e del miglioramento del quale avevo già imparato a disperare.
A quel tempo non riuscivo neppure a dominare la mia avversione all'aridità di un'esistenza di studio. Provavo spesso voglia di divertirmi; e siccome i miei piaceri (per non dir altro) non erano decorosi e siccome io ero persona non solo conosciuta e considerata ma anche prossima all'età matura, tale incoerenza della mia vita diventava ogni giorno più sgradevole. Ecco perché il mio nuovo potere mi tentò sempre di più, sino a ridurmi suo schiavo. Dovevo solo vuotare quella coppa per abbandonare immediatamente il corpo dello stimato professore e assumere, come un fitto mantello, quello di Edward Hyde. L'idea mi attraeva, mi pareva quasi divertente, e un giorno compii i miei preparativi con cura minuziosa. Presi e ammobiliai quella casa a Soho, dove la polizia andò a cercare Hyde, e assunsi al mio servizio una donna che sapevo di poche parole e di pochi scrupoli. D'altra parte comunicai alla mia servitù che un tal signor Hyde (e lo descrissi loro) doveva avere piena libertà e autorità nella mia casa sulla piazza e, per evitare equivoci, mi feci parecchie visite e mi resi familiare nel mio secondo personaggio. Quindi scrissi quel testamento che voi disapprovaste tanto; secondo il quale, ove mi fosse capitato qualcosa nei panni del dottor Jekyll, potevo servirmi di quelli di Edward Hyde senza subire alcun danno finanziario. E così, fortificato contro ogni evenienza - almeno lo supponevo - cominciai a trar profitto dalla sorprendente immunità della mia condizione.
Un tempo certi assoldavano dei bravacci che commettessero per loro delitti mentre la loro persona e la loro reputazione restavano al sicuro. Io fui il primo a commettere delitti direttamente e per il mio piacere. Io fui il primo a poter camminare davanti al mondo con un'aureola di rispettabilità geniale, che poi potevo, in un attimo, abbandonare, come uno scolaretto, per buttarmi a capofitto nel mare dell'arbitrio. Per me, avvolto nel mio impenetrabile mantello, la sicurezza era completa. Pensate, non esistevo neppure! Tornato nel mio laboratorio, trangugiavo in uno o due secondi la pozione che tenevo sempre pronta, ecco quanto bastava perché Edward Hyde scomparisse così come scompare l'appannatura fatta dall'alito su uno specchio; e, al suo posto, sereno nella sua casa, era di nuovo il dottor Jekyll che regolava la lampada per la notte, per continuare i suoi studi, in grado di ridersi d'ogni sospetto.
I piaceri, che subito cercai nel mio travestimento, erano, l'ho già detto, poco decorosi, l'uso d'un termine più forte non sarebbe stato opportuno. Ma nelle mani di Edward Hyde cominciarono immediatamente a divenir mostruosi. Al mio rincasare da simili escursioni, mi capitava spesso di meravigliarmi della depravazione dell'altro me stesso. Quell'essere da me evocato fuori del profondo del mio animo e da me inviato per il mondo alla caccia del piacere, era essenzialmente maligno e perverso; ogni sua azione, ogni suo pensiero servivano solo al suo appagamento; con bestiale avidità beveva il piacere dei tormenti altrui; ed era spietato come se fosse fatto di pietra. A Henry Jekyll toccava a volte spaventarsi davanti agli atti di Edward Hyde; ma la situazione era così fuori d'ogni legge ordinaria, e insidiosamente indeboliva la vigilanza della coscienza. In fin dei conti era Hyde, e Hyde soltanto, il colpevole di tutto. Jekyll non diventava certamente peggiore a causa dell'altro; si risvegliava con tutte le sue ottime qualità apparentemente inalterato; anzi, era capace di affrettarsi a por rimedio, quando era possibile, alle malefatte di Hyde. E così la sua coscienza si addormentava.
Non voglio entrare nei particolari delle infamie delle quali fui connivente (anche adesso mi riesce difficile l'ammissione di averle commesse). Voglio solo descrivere i fatti che seguirono e l'approssimarsi del mio castigo. Mi capitò un incidente che mi limiterò a menzionare, dato che fu privo di conseguenze. Un atto di crudeltà compiuto contro una bimba suscitò contro di me l'indignazione d'un passante che l'altro giorno riconobbi nella persona di vostro cugino; un medico e la famiglia della piccola si unirono a costui; per qualche minuto temetti per la mia vita; e, finalmente, per pacificare il loro giusto risentimento, Edward Hyde fu obbligato a guidarli sino alla porta che conoscete e a versare loro un assegno firmato da Henry Jekyll. Un pericolo simile venne eliminato per l'avvenire con l'apertura di un conto in un'altra banca al nome di Edward Hyde stesso, e, quando, con l'alterazione della mia scrittura, riuscii a rifornire di firma il mio "doppio", mi reputai davvero al riparo dai colpi del fato.
Due mesi circa prima dell'uccisione di Sir Danvers, ero uscito per una delle mie imprese notturne ed ero rincasato tardissimo, e la mattina mi svegliai in letto in preda a strane sensazioni. Invano guardavo intorno a me il mobilio elegante e le ampie dimensioni della mia camera che dava sulla piazza; invano riconoscevo il modello dei cortinaggi e il disegno della intelaiatura in mogano del letto; insistentemente qualcosa mi ripeteva che non ero dove ero, che non mi ero affatto svegliato là dove mi pareva d'essere, bensì nella stanzuccia di Soho ove avevo l'abitudine di dormire nelle spoglie di Edward Hyde. Sorrisi di me stesso e, assecondando la mia mania di studiare tutto psicologicamente, presi ad analizzare gli elementi di tale illusione e, mentre pensavo, mi lasciavo ogni tanto riprendere dal confortevole torpore mattutino. Mi trovavo in tale stato, quando, in un momento di perfetta lucidità, i miei occhi si posarono su una mia mano. Ora, la mano di Henry Jekyll (come voi l'avete spesso notata) era professionale nella forma e nelle dimensioni: era grande, ferma, bianca e ben fatta. Ma la mano che ora vedevo abbastanza bene nella giallastra luce di quella mattina londinese, la mano ,che giaceva semichiusa sul risvolto del lenzuolo era magra, nodosa, aveva un tetro pallore ed era ricoperta da peli scuri. Era la mano di Edward Hyde.
Dovetti stare a guardarla per quasi mezzo minuto, istupidito dalla meraviglia, prima che il terrore mi penetrasse nel petto, improvviso e spaventoso, come uno strepito di cimbali; saltando fuori dal letto, corsi a specchiarmi. Quanto vidi mi ghiacciò il sangue nelle vene. Si, ero andato a letto Henry Jekyll e mi ero svegliato Edward Hyde. Come poteva spiegarsi un fatto simile? Lo domandai a me stesso; e, subito dopo, in un nuovo impeto di terrore mi rivolsi un'altra domanda: come potevo rimediare a tutto ciò? Era ormai mattina avanzata, la servitù era già in piedi, tutti i miei preparati si trovavano nel mio gabinetto e, per arrivarvi da dove me ne stavo inorridito, dovevo compiere un lungo tragitto, scendere due scale, attraversare il corridoio, il cortile, la sala d'anatomia. Avrei forse potuto coprirmi la faccia; ma a quale scopo, quando non potevo celare l'alterazione della mia statura? Poi, con un profondo senso di sollievo, mi sovvenni che i miei servitori erano abituati a vedere andare in su e giù quel secondo me stesso. Mi vestii in fretta e furia, meglio che potei, con gli abiti della mia misura: attraversai le stanze ove Bradshaw spalancò gli occhi e indietreggiò nel vedere il signor Hyde a quell'ora e con quello strano abbigliamento; dieci minuti più tardi il dottor Jekyll era ritornato nel proprio aspetto, e sedeva, con le ciglia aggrottate, facendo finta d'interessarsi alla colazione.
Ma non avevo sicuramente appetito. Quell'inesplicabile incidente, quel capovolgimento delle mie precedenti esperienze, parevano compitare, come il dito babilonese sul muro, le lettere della mia condanna; e io presi a riflettere più seriamente di quanto avessi mai fatto alle conseguenze e alla possibilità della mia doppia esistenza. Quella: parte di me stesso che avevo il potere di far vivere, negli ultimi tempi era stata molto esercitata e alimentata; e mi pareva persino che il corpo di Edward Hyde fosse cresciuto in statura e che (quando avevo quell'aspetto) il sangue mi scorresse più generosamente nelle vene; cominciai a vedere il pericolo che, prolungandosi gli esperimenti, l'equilibrio della mia natura potesse venire alterato per sempre, e la mia capacità di trasformarmi a volontà potesse cessare, e il carattere di Edward Hyde diventare irrevocabilmente il mio. Il potere della pozione non si era mostrato sempre uguale. Una volta, agli inizi dei miei esperimenti, aveva totalmente fallito; e da allora, in varie circostanze, ero stato obbligato a raddoppiare la dose, una volta persino a triplicarla con pericolo di morte; e queste rare incertezze avevano costituito sino ad allora le sole ombre sulla mia soddisfazione. Adesso, però, alla luce dell'esperienza di quella mattina, dovevo concludere che, mentre nei primi tempi avevo faticato per liberarmi del corpo di Jekyll, ora, lentamente ma sicuramente, tale difficoltà riguardava la mia liberazione dal corpo di Hyde. Tutto pareva indicarmi questo: che stavo perdendo il dominio dell'orginario e migliore me stesso, e mi stavo incorporando nel secondo e peggiore mio aspetto.
Tra questi due esseri, ormai dovevo far la mia scelta. Le mie due nature avevano in comune soltanto la memoria, ma tutte le loro altre facoltà erano divise in modo ineguale. Jekyll, che era un composto, ora con smisurata apprensione, ora con voluttà progettava e spartiva i piaceri e le avventure di Hyde; Hyde, invece, si disinteressava di Jekyll o, al massimo, lo ricordava come il bandito della montagna ricorda la caverna dove può nascondersi dagli inseguitori. Jekyll provava qualcosa di più dell'interesse d'un padre; Hyde qualcosa di più dell'indifferenza d'un figlio. Scegliere di essere Jekyll significava rinunciare a quei piaceri che avevo goduto segretamente per tanto tempo, e che da ultimo avevano cominciato a soddisfarmi in pieno. Scegliere di essere Hyde significava morire a mille interessi e aspirazioni e diventare di colpo, e per sempre, un reietto, significava perdere ogni amico. La questione può parere diseguale, certo, ma c'era un'altra considerazione ancora da fare che, mentre Jekyll avrebbe molto sofferto nel fuoco dell'astinenza, Hyde non avrebbe neppure avuto coscienza di quello che perdeva. Nella stranezza della mia condizione i termini del dibattito erano vecchi e comuni come l'uomo; le stesse tentazioni e le stesse paure gettano il dado per il peccatore tentato e impaurito; mi accadde, come alla maggior parte dei miei simili, di scegliere la parte migliore, e di non saperla mantenere.
Sì, preferii il vecchio e scontento dottore circondato da amici e da oneste speranze, e detti un addio risoluto alla libertà, alla relativa gioventù, al passo leggero, ai palpiti violenti, alle segrete voluttà che avevo goduto con il corpo di Hyde. Forse feci tale scelta con qualche involontaria riserva; perché non lasciai la casa di Soho, non distrussi gli abiti di Hyde, sempre a portata di mano nel mio gabinetto. Tuttavia per due mesi mantenni fede alla mia decisione; per due mesi condussi una vita austera come mai prima di allora avevo condotto, e ne ebbi in compenso una coscienza tranquilla. Ma il tempo cominciò a indebolire i miei timori, il compiacimento della mia coscienza diventò una cosa naturale; cominciai invece a essere torturato da desideri e angosce, come se Hyde lottasse per la sua libertà, e infine, in un'ora di debolezza morale, ricomposi ancora una volta e trangugiai la pozione metamorfica.
Non credo che, quando un ubriaco ragiona con se stesso del proprio vizio, si preoccupi una volta su cinque dei pericoli a cui va incontro con la sua bruta insensibilità fisica; neppure io, per quanto a lungo abbia studiato la mia condizione, ho tenuto abbastanza conto della completa insensibilità morale e dell'insensata capacità di male che erano le caratteristiche di Edward Hyde. Eppure proprio da esse ho ricevuto la punizione. Il demone della malvagità, che era stato a lungo in gabbia, irruppe fuori ruggendo. Ero consapevole, mentre mandavo giù la pozione, di una più sfrenata, più furiosa spinta verso il male. Deve esser stato proprio questo, suppongo, a suscitare nel mio animo una tale tempesta d'impazienza che non stetti neppure ad ascoltare le parole civili della mia sventurata vittima; almeno dichiaro davanti a Dio che nessun uomo moralmente sano si sarebbe reso colpevole di un simile delitto per una provocazione tanto meschina; dichiaro che colpii senza ragionare, senza pensare, nello stesso modo col quale un bimbo rompe un giocattolo. Ma mi ero liberato dell'istinto equilibratore con l'aiuto del quale anche i peggiori, tra gli uomini, riescono a camminare fermamente tra le tentazioni del male; nel mio caso, ormai, esser tentato significava cadere immediatamente nell'errore.
Istantaneamente lo spirito demoniaco si svegliò in me e imperversò. Con una foga gioiosa percossi quel corpo senza resistenza, provando delizia a ogni colpo; solo quando la stanchezza cominciò a farsi sentire, repentinamente, nell'accesso culminante del mio delirio, provai un gelido brivido di terrore. La nebbia si disperse; vidi la mia vita in pericolo; e fuggi dal teatro di quegli eccessi, esaltato e tremante, con il mio bisogno di male soddisfatto ed eccitato e con il mio amore della vita portato al parossismo. Corsi nella casa di Soho, e (per essere ancora più al sicuro) distrussi le mie carte; quindi vagai per le strade illuminate sempre nella stessa contrastante estasi mentale, felice per il mio delitto, progettando di commetterne altri in avvenire e tuttavia affrettandomi nella paura di udire dietro di me i passi del vendicatore. Hyde aveva una canzone sulle labbra, quella notte, quando bevve la pozione, e brindò all'uomo ucciso. Ma i dolori della metamorfosi non erano ancora calmati in lui che già Henry Jekyll, con lacrime di gratitudine e di rimorso, era caduto in ginocchio e alzava a Dio le mani giunte. Il velo dell'indulgenza che avevo avuto per me stesso era ormai completamente lacerato, e vidi l'intera mia esistenza: dai giorni dell'infanzia, quando camminavo per mano a mio padre, via via attraverso le fatiche della mia professione sino ad arrivare, con lo stesso senso d'irrealtà, ai maledetti orrori di quella sera. Devo aver gridato; tentavo con lacrime e preghiere di placare la folla di odiosi immagini e di suoni che la memoria risvegliava in me; pure in mezzo a tutte quelle suppliche la terribile faccia della mia iniquità continuava a fissarmi nell'animo. All'acutezza del rimorso prese a poco a poco a sostituirsi una sensazione di sollievo. Il problema della mia condotta era risolto. Diventar Hyde non era più possibile; volente o nolente, ero confinato nella parte migliore della mia natura: oh, come mi rallegrai a tale pensiero! con quale premurosa umiltà abbracciai di nuovo le restrizioni della mia vita abituale!, con quale sincera rinuncia chiusi la porta attraverso la quale ero passato e ripassato tante volte e infransi la chiave sotto il tacco!
Il giorno dopo si diffuse la notizia che l'assassino era stato scoperto, che era evidente la colpevolezza di Hyde, e che la vittima era un uomo che aveva goduto di molta stima. Quello non era solo un crimine, era tragica follia. Credo di esser stato contento di apprenderlo; credo di esser stato contento che, a incitamento e a difesa dei miei impulsi migliori, intervenisse la paura del patibolo. Jekyll era di nuovo la cittadella dove rifugiarmi; se Hyde avesse fatto tanto di lasciarsi vedere, le mani di tutti si sarebbero alzate per afferrarlo e ucciderlo.
Decisi di redimere il mio passato con la mia condotta futura; e posso affermare onestamente che la mia decisione portò qualche buon frutto. Sapete bene voi stesso con quale ardore gli ultimi mesi dello scorso anno mi sia dedicato ad alleviare le sofferenze altrui, sapete che molto ho fatto per gli altri, e come i giorni siano trascorsi quieti, quasi felici per me. Né posso dire che mi stancassi di quella vita benefica e innocente; anzi ogni giorno ero più soddisfatto; ma ero ancora torturato dal dualismo dei miei propositi e, via via che il mio pentimento si placava, la mia parte peggiore, a cui tanto a lungo avevo ceduto e che solo recentemente avevo incatenata, cominciava a brontolare per liberarsi. Non pensavo affatto di far resuscitare Hyde; la semplice idea mi dava la vertigine: no, era nella mia stessa persona che, ancora una volta, ero tentato di giocare con la mia coscienza; e, come è solito capitare a coloro che peccano in segreto, caddi sotto gli assalti della tentazione.
Ogni cosa viene a una fine: anche la misura più grande finisce per colmarsi; e quella breve accondiscendenza alla mia malvagità distrusse l'equilibrio del mio animo. Eppure non ne fui allarmato, la caduta pareva naturale, quasi un ritorno alla prima maniera di essere, quella di prima che prendessi la pozione. Era una bella, chiara giornata di gennaio, con il terreno umido per il ghiaccio che si sfaceva sotto i piedi, non c'erano nubi; e Regent's Park era pieno di scricchiolii invernali e odorava già di primavera. Sedevo al sole su una panchina; la belva ch'era in me lambiva i mutamenti della memoria, la parte spirituale sonnecchiava, promettendo un successivo pentimento, ma per il momento non si dava da fare. "Dopo tutto", pensavo, "sono come quasi tutti i miei simili", e sorrisi, paragonandomi agli altri uomini, paragonando la mia attiva buona volontà alla loro pigra indifferenza. E, proprio nel momento nel quale mi cullavo in quel vanaglorioso pensiero, fui colto da improvviso malore; un'orrenda nausea e un tremito quasi mortale. Il malessere passò, e mi lasciò esausto; e, quando finì quel collasso, mi avvidi d'un mutamento della natura dei miei pensieri, una maggiore audacia, uno sprezzo del pericolo, un senso di libertà dal dovere. Mi guardai: le mie vesti s'afflosciavano senza forma sulle mie membra rattrappite; la mano che tenevo sulle ginocchia era nodosa e pelosa. Ero Edward Hyde! Un momento prima ero ben sicuro d'essere rispettato da tutti, d'essere ricco, amato, e una buona tavola mi attendeva a casa, apparecchiata; e ora appartenevo nuovamente alla feccia dell'umanità, ero di nuovo il perseguitato, il senza tetto, l'assassino destinato al patibolo.
La mia ragione vacillò, ma non mi abbandonò. Avevo osservato più d'una volta che in questo mio secondo carattere ogni mia facoltà si faceva più acuta e la mia mente diventava più elastica e così accadde che, dove Jekyll avrebbe potuto soccombere, Hyde seppe essere all'altezza della situazione, Le pozioni erano in un cassetto del mio gabinetto; come raggiungerle? Questo era il problema (e mi tenevo le tempie tra le mani) da risolvere subito. Avevo chiuso la porta del laboratorio. Se avessi cercato di penetrare in casa dall'ingresso principale i miei servitori mi avrebbero consegnato alla giustizia. Capii che dovevo servirmi dell'opera altrui, e pensai a Lanyon. Ma come raggiungerlo? Come persuaderlo? Supponendo anche che riuscissi a sfuggire alla cattura per le strade, come sarei potuto arrivare alla sua presenza? e come avrei potuto, nella mia qualità di sconosciuto e sgradevole visitatore, convincere il medico famoso ad andare a rovistare nello studio del suo collega, il dottor Jekyll? Allora mi venne in mente che qualcosa del mio carattere originario mi restava: potevo scrivere con la mia scrittura e, non appena intravidi questa scintilla di luce, concepii chiaramente da cima a fondo il cammino da seguire.
Quindi mi assestai come meglio potei e, chiamata una carrozza che passava, mi feci condurre in un albergo di Portland Street, il nome del quale mi balenò per caso alla mente. Davanti al mio aspetto (che era veramente comico sebbene fosse tragico il destino che quei panni coprivano) il vetturino non poté celare un sorriso. Digrignai i denti con diabolico furore, e il sorriso scomparve dalla sua faccia - fortunatamente per lui - e ancora più fortunatamente per me, poiché un attimo dopo l'avrei certamente buttato giù dalla carrozza. Entrando nell'albergo, mi guardai intorno con un'espressione così truce che i camerieri tremarono; non si scambiarono alcuno sguardo in mia presenza, ma presero ossequiosamente i miei ordini, mi fecero entrare in una saletta privata, e mi portarono l'occorrente per scrivere. Hyde in pericolo di vita era una creatura nuova, per me: agitato da un'ira confusa, tentato a commettere qualche delitto, desideroso comunque di far del male. Però quella creatura era astuta; dominò il proprio furore con un grande sforzo di volontà; e scrisse due importanti lettere, una a Lanyon, l'altra a Poole, e, per aver la prova che fossero impostate, ordinò di spedirle raccomandate.
Dopo di che sedette tutto il giorno davanti al fuoco nella saletta privata, e si mordeva le unghie; pranzò solo con i suoi timori, mentre il cameriere che lo serviva tremava al suo sguardo; e poi, quando fu notte fonda, uscì; chiamò una carrozza chiusa e si fece portare in su e giù per le vie della città. "Lui", dico, non posso dire "io".
Quel figlio del demonio non aveva più alcunché d'umano; nulla sopravviveva in lui se non paura e odio. E, quando, per il timore che. il vetturino potesse insospettirsi, lasciò la carrozza e procedette a piedi, attirando l'attenzione dei passanti notturni con i suoi abiti troppo ampi, quelle due basse passioni infuriavano nella sua mente. Una donna gli rivolse la parola, offrendogli forse una scatola di fiammiferi. Lui la schiaffeggiò e quella fuggì.
Quando ritornai me stesso in casa Lanyon, l'orrore del mio vecchio amico mi colpì non poco, credo; non lo so; comunque tale impressione fu come una goccia nel mare dell'orrore che avevo dovuto patire nelle ore precedenti. Un cambiamento era avvenuto in me. Non mi tormentava più la paura del patibolo, ma il terrore d'essere Hyde. Ascoltai la condanna di Lanyon quasi in sogno: quasi in sogno rincasai, e mi misi a letto. Dopo la prostrazione della giornata dormii di un sonno profondo che neppure l'assalto degli incubi poté interrompere. Mi destai la mattina seguente debole, ma riposato. Odiavo e temevo sempre il bruto che dormiva in me e non riuscivo a scordare gli orribili pericoli del giorno precedente, ma mi trovavo una volta ancora a casa mia, vicino alla mia pozione e la gioia della salvezza era tanto forte che quasi rivaleggiava con la luce della speranza.
Dopo colazione stavo passeggiando tranquillamente attraverso il cortile; respiravo con piacere l'aria piuttosto fredda, quando venni assalito nuovamente dalle indescrivibili sensazioni preannuncianti la metamorfosi; ebbi appena il tempo di rifugiarmi nel mio gabinetto, e già ero nuovamente in preda alle passioni di Hyde. Occorse una doppia dose in tale circostanza per tornare a essere Jekyll. Ma, ahimè, sei ore dopo, mentre sedevo tristemente davanti al camino, venni ripreso dagli spasimi, e dovetti riprendere la pozione. In breve, a partire da quel giorno, soltanto con uno sforzo continuo e solo sotto lo stimolo della pozione riuscii a riassumere l'aspetto di Jekyll. A tutte le ore del giorno e della notte ero assalito dal brivido premonitore: soprattutto se dormivo, o anche soltanto se sonnecchiavo sulla mia poltrona, mi risvegliavo sempre nelle sembianze di Hyde. Sotto la minaccia di un tal destino continuamente incombente e per l'insonnia alla quale mi condannai, diventai nella mia persona debole di mente e di corpo, ossessionato da un unico pensiero: l'orrore dell'altro me stesso. Ma, quando dormivo o quando gli effetti della medicina si attenuavano, cadevo senza transizione (poiché gli spasimi della metamorfosi si facevano sempre più deboli) in potere d'un fuoco d'immagini tutte terrificanti, di un animo pieno d'odio senza motivo, di un corpo che non pareva abbastanza forte per sopportare quelle furiose energie di vita. La potenza di Hyde pareva crescere, insomma, con la debolezza di Jekyll. E certamente l'odio che li divideva era d'uguale intensità da tutt'e due le parti. Per Jekyll era istinto vitale. Aveva compreso tutt'intera la deformità di quella creatura che spartiva con lui alcuni fenomeni della coscienza e con la quale era vincolato sino alla morte: e, oltre a tali legami di comunanza, che costituivano la parte più sciagurata del suo dolore, Jekyll pensava adesso a Hyde, con ogni energia della sua vita, come a un essere non soltanto demoniaco ma inorganico. Questo lo straziava soprattutto; che la melma del fondo profferisse grida e voci; che la polvere amorfa gesticolasse e peccasse; che quello che era morto e informe usurpasse le funzioni della vita. E ancora di più: che quell'orrore insorgente fosse legato a lui più strettamente d'una moglie; che fosse più intimo d'un occhio, che fosse prigioniero nella sua carne dove lo sentiva ringhiare e lottare per sortire alla luce; e che negli attimi di debolezza, o quando stava per abbandonarsi al sonno, lo dominasse o lo defraudasse della vita. L'odio di Hyde per Jekyll era di differente natura. La sua paura del patibolo lo portava continuamente a dover compiere un temporaneo suicidio, a tornare a essere parte quando agognava a essere persona, ma Hyde aborriva tale necessità; aborriva l'abbattimento nel quale era caduto Jekyll, e si risentiva dell'ostilità con la quale veniva ormai considerato da Jekyll. Tutto questo spingeva Hyde a commettere gli scherzi scimmieschi che mi giocava, come scarabocchiare con la mia scrittura bestemmie sulle pagine del libro che stavo leggendo, come bruciare le lettere o distruggere il ritratto di mio padre; e sono certo che, se non avesse avuto paura di morire, già da un pezzo si sarebbe procurato la rovina per coinvolgermici. Ma il suo attaccamento alla vita era straordinario; dirò di più: io, che sto male e rabbrividisco al solo suo pensiero, quando rifletto sull'abiezione e sul furore di tale suo attaccamento alla vita, quando rifletto sul suo terrore che io possa por fine alla sua esistenza con il suicidio, trovo ancora nel mio cuore un briciolo di pietà per lui.
È inutile, e ormai non ho più il tempo di prolungare questa narrazione; mi basta dire che nessuno può aver sofferto i miei tormenti, eppure l'abitudine era in grado di arrecarmi - no, non un sollievo - ma una certa insensibilità dell'animo, una certa acquiescenza della disperazione; e la mia punizione sarebbe potuta durare per anni e anni, se non fosse accaduta l'ultima sciagura, capace di staccarmi per sempre dalla mia vera faccia e dalla mia vera natura. La provvista di sali da me non più rinnovata dopo l'ultimo esperimento cominciò a scemare. Feci acquistare altri sali, composi la pozione: si verificò l'ebollizione e avvenne il primo mutamento di colore, ma non il secondo; bevvi ugualmente quella miscela e non ottenni più alcun effetto. Potrete sapere da Poole come io abbia fatto compiere ricerche nell'intera Londra; invano; e adesso sono convinto che la mia prima provvista di sali doveva essere impura e che fu proprio tale sconosciuta impurità a cagionare la potenza della droga.
È trascorsa quasi una settimana, e io sto ultimando questa relazione sotto l'influenza dell'ultima delle mie vecchie polveri. A meno che non si verifichi un miracolo, questa è dunque l'ultima volta che Jekyll può seguire i propri pensieri e può vedere la propria faccia (quanto tristemente alterata ormai!) nello specchio. E non devo indugiare troppo a finire il mio scritto, perché, se sino a ora esso è sfuggito alla distruzione, questo è dovuto alla combinazione tra una grande cautela da parte mia e una grande fortuna. Ma, se i dolori della metamorfosi mi assalissero mentre sto scrivendo, Hyde farebbe in mille pezzi lo scritto; se, invece, dopo che l'ho finito trascorrerà qualche tempo, lo straordinario egoismo di Hyde e la sua preoccupazione delle cose del momento lo salveranno dall'azione del suo scimmiesco dispetto. E, in realtà, il destino, che si sta serrando intorno a noi due, ha già molto mutato e domato anche Hyde. Tra mezz'ora, quando avrò di nuovo e per sempre riassunto quell'odiata personalità, sento che mi butterò sulla mia poltrona e vi resterò tremante e piangente o continuerò a camminare su e giù in questa stanza (l'estremo mio rifugio terreno), tendendo esasperatamente l'orecchio per carpire ogni rumore minaccioso. Morirà sul patibolo, Hyde? o troverà il coraggio di liberarsi all'ultimo attimo? Lo sa Dio: io non me ne curo più; questa è l'ora della mia vera morte, quanto accadrà dopo concerne un altro individuo. A questo punto, mentre depongo la penna e suggello la mia confessione, pongo fine alla vita dell'infelice Henry Jekyll.
F I N E
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ROBERT LOUIS STEVENSON
IL SIGNORE DI BALLANTRAE

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CAPITOLO PRIMO


SOMMARIO DEGLI AVVENIMENTI VERIFICATISI DURANTE LE PEREGRINAZIONI DEL sIGNORE DI BALLANTRAE

A LUNGO il mondo ha cercato di sapere tutta la verità di questa intricata vicenda e sono sicuro che il pubblico la accoglierà favorevolmente. Volle il caso che io fossi intimamente connesso con gli ultimi anni e con la storia della famiglia e non c'è un solo essere vivente che sia quanto me in grado di far luce su certi fatti, o altrettanto desideroso di riferirli fedelmente. Io ho conosciuto il Signore di Ballantrae; ho in mano un autentico memoriale di molti passi segreti della sua carriera; lo accompagnai, quasi solo, nella sua ultima traversata; un altro memoriale stesi in occasione di quel viaggio nel cuor dell'inverno, di cui tante fole sono andate in giro, e fui presente alla sua morte. Quanto al defunto Lord Durrisdeer, l'ho servito e l'ho amato per quasi vent'anni; e più lo conoscevo, più lo stimavo. Tutto compreso, non mi sembra opportuno che tante prove spariscano; sono debitore della verità alla memoria di Milord; e credo che i miei vecchi anni scorreranno più placidi e i miei capelli bianchi poseranno più tranquilli sul guanciale, quando il debito sarà stato pagato.
I Durie di Durrisdeer e di Ballantrae erano una famiglia potente nel sud-ovest fin dai tempi di David I. Una rima tuttora corrente nel contado:

Sono i Durrisdeer passati
Con gran seguito d'armati...

reca l'impronta dell'antichità, e Il nome della casa appare in un'altra strofa che l'opinione popolare attribuisce allo stesso Tommaso di Ercildoune (non so con quanto fondamento) e che certuni hanno applicato (non saprei dire con quanta giustizia) agli eventi di questa storia:

In Durrisdeer due Durie stanno,
Uno alla staffa e l'altro in sella.
Mala sorte la donzella,
E lo damo avrà malanno.

La storia, inoltre, é piena delle loro gesta che (ai nostri occhi di moderni) non appaiono molto degne di encomio; e il casato subisce la sua buona parte di quegli alti e bassi a cui tutte le grandi case di Scozia sono sempre soggette. Ma sorvolo su tutto ciò per arrivare a quel memorabile anno 1745 in cui vennero gettate le fondamenta di questa tragedia.
A quell'epoca, una famiglia di quattro persone viveva nella casa di Durrisdeer, vicino a Saint Bride, sulla spiaggia di Solway; era sempre stata una delle principali piazzeforti della stirpe, fin dai tempi della Riforma.
Il vecchio Lord che era l'ottavo del nome, non era avanti negli anni, ma soffriva anzi tempo dei disagi dell'età; il suo posto era nell'angolo del camino e lì sedeva, avvolto in una vestaglia imbottita; aveva poche parole per tutti e parole aspre per nessuno. Era il modello del vecchio gentiluomo campagnolo e casalingo; ma il suo intelletto era molto bene alimentato dagli studi, e nel paese egli aveva fama di essere più accorto di quel che sembrava.
Il Signore di Ballantrae, il cui nome di battesimo era Giacomo, aveva preso dal padre l'amore alle letture serie e forse, anche un po' del suo tatto; ma quello che nel padre era soltanto diplomazia, era divenuto nera dissimulazione nel figlio. In apparenza, la sua condotta era soltanto scapestrata; si attardava a bere, si attardava ancor più a giocare; nel contado si era fatto la fama di "gallo della Checca" ed era sempre fra i primi a buttarsi nelle risse. Ma era stato notato che, sebbene fosse sempre il primo a cominciare, era anche, invariabilmente, quello che se la cavava meglio, e i suoi compagni di gazzarra, di solito, restavano soli a pagare lo scotto. Questa fortuna (o destrezza che fosse) gli fruttò diversi nemici, ma aumentò la sua riputazione con il resto del contado, sicché la gente si aspettava da lui grandi cose per l'avvenire, quando si fosse fatto più posato. C'era un'unica, nerissima macchia sul suo nome; ma la faccenda era stata messa a tacere a quel tempo e quando io giunsi da quelle parti, era stata talmente svisata dalle leggende, che mi faccio scrupolo di metterla per iscritto. Se era vera, era stata un'azione orribile da parte di una persona tanto giovane; e, se era falsa, era un'orribile calunnia. Mi sembra degno di nota il fatto che egli si fosse sempre vantato di essere implacabile e che la gente lo prendesse in parola; tanto che, fra i suoi vicini si diceva, per giunta, che era un uomo pericoloso da contrariare .. Ecco, nel complesso, un giovane gentiluomo che, nel paese, era più noto di quanto lo comportasse l'età sua.
Tanto meno c'è da stupire se poco si udiva parlare del secondo figlio, Enrico (il defunto Lord Durrisdeer) il quale non era né molto malvagio, né molto capace, ma un bravo ragazzo solido, come tanti suoi vicini. Se ne udiva parlar poco, ho detto; ma in realtà sarebbe il caso di dire che faceva parlar poco di sé. Era conosciuto fra i pescatori di salmoni del canale perché era quello un passatempo che egli praticava assiduamente; era inoltre un ottimo medico di cavalli e fin da ragazzo aveva avuto parte preponderante nell'amministrazione della proprietà. Nessuno meglio di me sa quanto fosse duro quel compito, data la situazione della famiglia, e quanto ingiustamente un uomo vi potesse acquistare la fama di avaro e di tiranno.
La quarta persona della casa era Miss Alison Graeme, una parente prossima, orfana ed erede di un patrimonio considerevole, acquistato dal padre in commercio. Gli imbarazzi finanziari di Milord reclamavano a gran voce questo denaro; difatti le terre erano gravemente ipotecate e, di conseguenza, Miss Alison era destinata sposa al Signore di Ballantrae, di buon grado, da parte di lei; con quanto beneplacito da parte di lui, è un'altra questione. Era una bella ragazza e, a quei tempi, anche molto vivace e capricciosa; il vecchio Lord non aveva figlie proprie, e la signora era morta da un pezzo, per cui la ragazza era venuta su alla bell'e meglio.
A queste quattro persone giunse la nuova dello sbarco del principe Carlo e le mise subito in contrasto. Milord, da quel tipo casalingo che era, era del parere di temporeggiare. Miss Alison si schierò dall'altra parte, perché le pareva romantico; e il Signore di Ballantrae (nonostante che, come ho udito dire, i due non andassero molto d'accordo) fu, una volta tanto, della stessa opinione. Secondo me, l'avventura lo tentava; lo tentava l'occasione di risollevare le sorti del suo casato, non meno della speranza di liquidare le sue pendenze personali che lo gravavano ogni oltre dire. Quanto a Enrico, pare che, sulle prime, dicesse poco o nulla; la sua parte venne più tardi. Ci volle una giornata intera di discussioni, prima che i tre si mettessero d'accordo per seguire una via di mezzo, mandando, cioè, uno dei figli a spezzare una lancia per re Giacomo, mentre l'altro figlio e Sua Signoria sarebbero rimasti a casa per non perdere il favore di re Giorgio. Senza dubbio, questa fu la decisione di Sua Signoria e fu, come è noto, il gioco di molte famiglie nobili. Senonchè, chiusa una discussione, se ne aprì un'altra; Milord, Miss Alison ed Enrico erano tutti dello stesso parere: e cioè, che toccasse al cadetto andar via; ma il Signore di Ballantrae, fosse irrequietezza o vanità, non voleva a nessun costo acconsentire a restare a casa. Milord ragionò, Miss Alison pianse, Enrico non ebbe peli sulla lingua; tutto fu vano.
- E' l'erede diretto di Durrisdeer che deve cavalcare a fianco del suo re, - diceva Giacomo.
- Se fossimo qui per agire da uomini, - rispose Enrico, - questo discorso avrebbe un senso; ma qui che facciamo? Cerchiamo di barare!
- Cerchiamo di salvare la casa di Durrisdeer, Enrico, - disse il padre.
- E poi, vedi, Giacomo, - aggiunse Enrico, - se vado io e il principe ha il sopravvento, a voi sarà facile fare la pace con re Giacomo. Ma se vai tu e la spedizione fallisce, avremo diviso il diritto e il titolo. E io cosa sarò allora?
- Tu sarai Lord Durrisdeer, - rispose il Signore di Ballantrae.
- Metto in tavola tutto quello che ho.
- Non gioco a un gioco simile, - gridò Enrico. - Mi troverei in una situazione che nessun uomo sensato e onorato potrebbe tollerare. Non sarei né carne né pesce!
- gridò. E, poco dopo, ebbe un'altra espressione, forse più chiara di quanto non fosse nelle sue intenzioni.
- E' tuo dovere rimanere con nostro padre, - disse.
- Sai fin troppo bene di essere il preferito.
- Ah, si? - esclamò il fratello. - E l'invidia che parla! e tu mi vorresti fare lo sgambetto, eh, Giacobbe?
- disse, e sottolineò Il nome con malignità.
Enrico si alzò e andò verso il fondo della sala, senza dar risposta, poiché possedeva il raro dono del silenzio. Poco dopo tornò.
- Io sono il cadetto e quindi "dovrei" andare, - disse, - e Milord che è il padrone dice che "devo" andare io. Che rispondi a questo, fratello?
- Dico, - rispose il Signore di Ballantrae, - che quando due caparbi s'incontrano, ci sono due sole vie d'uscita: o fare a botte (e non credo che né l'uno né l'altro ci tenga ad arrivare a tanto), o lasciare la decisione alla sorte; ecco una moneta da una ghinea ci stai a testa e croce?
- Ci sto e ci resto, - rispose Enrico. - Testa, vado; croce, rimango.
La moneta fu prillata e venne croce.
- Questa è, una lezione per Giacobbe, - disse il Signore di Ballantrae.
- Ce ne pentiremo tutti, - disse Enrico e uscì dalla sala a precipizio.
Quanto a Miss Alison, raccolse la moneta d'oro che mandava alla guerra il suo amato e la scagliò dritta dritta in mezzo allo stemma di famiglia del finestrone a vetri colorati.
- Amarti tanto non potrei, mio cuore, Se non amassi ancora più l'onore, - canterellò il Signore di Ballantrae.
- Ah, - gridò la fanciulla, - sei senza cuore! Spero che ti ammazzino! - e corse via dalla stanza, in lagrime, a rinchiudersi in camera sua.
Pare che allora il Signore di Ballantrae si rivolgesse a Milord col suo piglio più burlesco, dicendo:
- Questa mi pare un diavolo di moglie.
- A me pare che tu sia un diavolo di figlio, - esclamò il padre, - tu che sei sempre stato il preferito, sia detto a mia vergogna. Non ho mai avuto da te un'ora di bene da quando sei nato; no, mai un'ora sola di bene, - e ripeté le parole. una terza volta. Non so se fosse stata la leggerezza del primogenito o la sua insubordinazione, o quanto Enrico aveva detto circa il figlio preferito, a turbare tanto Milord; ma tendo a credere che fosse quest'ultima cosa, perché mi risulta da diverse fonti che, da allora in poi, Enrico fu trattato con maggior considerazione.
Nel complesso, non fu certo d'amore e d'accordo con la famiglia che il Signore di Ballantrae partì per il nord; e questo fatto rese il ricordo più doloroso per tutti, quando si credette che fosse troppo tardi. Un po' con le buone e un po' con le cattive, era riuscito a racimolare circa una dozzina di uomini, per la maggior parte figli dei suoi fittavoli; erano tutti alquanto brilli quando montarono a cavallo e passarono vicino alla vecchia abbazia sulla collina, cantando e vociando, con la coccarda bianca sul cappello. Per una comitiva così piccola, traversare senza appoggi la maggior parte della Scozia era una impresa disperata; e (cosa che confermò la gente in questa opinione), già mentre quella misera dozzina di uomini si inerpicava su per il colle, un grosso vascello della marina del re che li avrebbe potuti sbaragliare tutti con una sola barca, si trovava alla fonda nella baia, col suo ampio vessillo spiegato al vento. Il pomeriggio seguente, avendo dato al primogenito un buon vantaggio, fu la volta di Enrico, il quale partì a cavallo solo soletto, per andare a offrire la sua spada e a portare lettere del padre al governo di re Giorgio. Miss Alison si era chiusa in camera e non fece che piangere finché non furono partiti tutti e due; però, cucì la coccarda sul cappello del Signor di Ballantrae e Giampaolo mi disse che, quando glielo portò giù, questo era tutto bagnato di lagrime.
In tutto il periodo che seguì, Milord ed Enrico si serbarono fedeli al patto. Se mai fecero qualcosa, è certo più di quanto io sia riuscito a sapere e se sostennero le parti del re con molta convinzione, più di quanto io possa credere. Ma salvarono le apparenze della lealtà, si tennero in contatto col Lord Presidente, stettero tranquilli a casa, ed ebbero pochi o punti rapporti col primogenito, finché durò tutta la faccenda. Quest'ultimo, da parte sua, non era molto comunicativo. Miss Alison, a dire il vero, gli mandava continuamente corrieri, ma, che io sappia, non riceveva molte risposte. Una volta andò Macconochie per lei e trovò gli scozzesi davanti a Carlisle e il Signore di Ballantrae che cavalcava a fianco del principe, in gran favore: prese la lettera (così dice Macconochie), l'aperse, la scorse, atteggiando le labbra come per fischiare, poi se l'infilò nella cintura, di dove, a uno scarto del cavallo, cadde a terra inosservata. Fu Macconochie che la raccolse e che la serbava tuttora quando io la vidi nelle sue mani.
Naturalmente, le notizie giungevano a Durrisdeer passando per il paese di bocca in bocca, in modo che ho sempre trovato sorprendente. Con questo mezzo la famiglia ebbe altre informazioni circa il favore di cui il Signore di Ballantrae godeva presso il principe e circa quanto si diceva delle sue origini. Si diceva, infatti che, con una condiscendenza che sarebbe apparsa strana in un uomo tanto orgoglioso (se non fosse stato ancor più ambizioso), egli fosse riuscito a mettersi in evidenza strisciando e adulando gli irlandesi. Suoi camerati di ogni giorno erano Sir Thomas Sullivan, il colonnello Burke e molti altri, e con questo modo di agire egli si era allontanato dai propri compatrioti. Fomentava tutti i piccoli intrighi, contrariava in mille modi Lord George, era sempre del parere che sembrava di gusto del principe, buono o cattivo che fosse; e pare che, tutto compreso (da quel vero giocatore d'azzardo che fu per tutta la vita), gli stessero meno a cuore le sorti della campagna del favore a cui avrebbe potuto aspirare se, per un caso fortunato, la spedizione stessa fosse riuscita. Del resto, in campo si comportava benissimo; questo nessuno lo contestava, perché non era certo un pusillanime.
A queste nuove fece seguito quella di Culloden, portata a Durrisdeer dal figlio di uno dei fittavoli, il quale dichiarò di essere l'unico superstite di quanti avevano risalito cantando il colle. Per un caso disgraziato, proprio quella mattina, Macconochie e Giampaolo avevano trovato la moneta d'oro, origine di tutto il male, conficcata in un cespuglio di agrifoglio; erano andati "su per il vicolo" come dicono i servitori a Durrisdeer, al posteggio dei cavalli, e ne erano tornati con pochi spiccioli e meno senno. E difatti, cosa fa Giampaolo? Irrompe nella sala dove tutta la famiglia era a cena e dà a gran voce la notizia che: "Tam Macmorland era appena smontato da cavallo davanti al portone, ahi, ahi! con lui non c'era più nessuno!"...
Gli altri accolsero le sue parole in silenzio, come condannati a morte; soltanto Enrico si portò la mano al viso e Miss Alison si nascose addirittura il volto tra le palme. Quanto a Milord, era del color della cenere.
- Ho un figlio ancora, - disse, - e, Enrico, debbo dire, per renderti giustizia, che mi resta il migliore.
Era una cosa strana a dire in un momento simile; ma Milord non aveva dimenticato le parole di Enrico e si sentiva gravare sulla coscienza anni e anni di ingiustizia. Nondimeno, era una cosa strana e più di quanto Miss Alison potesse ammettere. Ella scattò, ricolmò di rimproveri Milord per le sue parole snaturate, Enrico perché se ne stava lì al sicuro, mentre il fratello era morto, se stessa per aver rivolto male parole al suo amato bene quando era partito; lo chiamò il fiore della stirpe, si torse le mani chiamandolo per nome e protestando il suo amore; tanto che tutti i servitori erano sbalorditi.
Enrico si alzò e rimase in piedi appoggiandosi alla seggiola. Ora era lui color della cenere.
- Oh! - proruppe a un tratto, - lo so bene che lo amavi!
- Il mondo intero lo sa e ne sia gloria a Dio! - gridò Miss Alison, e poi, rivolta a Enrico:
- Ma nessuno all'infuori di me sa una cosa: che tu lo tradivi in cuor tuo.
- Sa Iddio, - gemette Enrico, - se fu amore sprecato da ambo le parti.
In casa, dopo di allora, il tempo seguitò a passare non molto diversamente da prima; soltanto ora erano in tre invece che in quattro, e questo rammentava loro perennemente la perdita subita.
Bisogna tener presente che il denaro di Miss Alison era assolutamente necessario alla proprietà e quindi, morto uno dei fratelli, ben presto Milord si mise in mente di farle sposare l'altro. Giorno per giorno, seduto accanto al fuoco, con l'indice fra le pagine del suo libro latino e gli occhi al viso di lei con una specie di benevola attenzione che gli si addiceva moltissimo, il vecchio gentiluomo cercava di far presa sulla fanciulla. Se ella piangeva, si condoleva con lei da uomo anziano che ha conosciuto tempi peggiori e che comincia a considerare con distacco perfino il dolore; se dava in ismanie, riprendeva a leggere il suo libro latino, ma sempre con una scusa cortese; se offriva, come spesso faceva, di ceder loro il denaro in donazione, le dimostrava quanto ciò fosse incompatibile con il suo onore e le rammentava che, se pure egli avesse acconsentito, Enrico avrebbe rifiutato per certo. Non vi, sed saepe cadendo era uno dei suoi motti preferiti; e indubbiamente quella calma persecuzione logorò non poco la risoluzione di Mise Alison; inoltre, egli aveva senza dubbio grande influenza su di lei, avendole fatto le veci dei genitori; riguardo poi alla faccenda in questione, anch'ella aveva in sé lo spirito dei Durie e avrebbe fatto molto per la gloria di Durrisdeer. Ma non credo che sarebbe arrivata al punto di sposare il mio povero padrone se non fosse stato (strano a dirsi) per la sua estrema impopolarità.
Fu opera di Tam Macmorland. Tam non era cattivo, ma aveva una gran debolezza: la lingua lunga e, essendo l'unico dei paese che era stato via (o meglio, l'unico che era ritornato), non gli potevano mancare ascoltatori. Ho osservato che coloro i quali hanno avuto la peggio in combattimento cercano sempre ansiosamente di persuadersi di essere stati traditi. Secondo la versione di Tam, i ribelli erano stati traditi a ogni piè sospinto da tutti gli ufficiali che avevano avuto; erano stati traditi a Derby e traditi a Falkirk; la marcia notturna era stata una mossa traditrice di Lord George, e Culloden era stata perduta per il tradimento dei Macdonald. L'abitudine di accusare di tradimento questo e quello crebbe a tal segno in quello sciocco, che finì col tirar dentro anche Enrico. Enrico, secondo la sua versione, aveva tradito,i ragazzi di Durrisdeer; aveva promesso di seguirli con altri uomini e invece era andato da re Giorgio.
- Sicuro, e proprio il giorno dopo! - gridava Tam. - Il Signore di Ballantrae, tanto buono, poverino, e quei buoni figlioli, poverini, che erano andati con lui non avevano neppure passato il burrone che lui, via! Ah, sì, lui ha trovato il posto caldo, ora sarà Milord nientemeno e ci sono molti morti freddi stecchiti fra l'erica di Scozia! - E a questo punto, se aveva bevuto, si metteva a piangere.
Chiunque parli abbastanza a lungo troverà chi gli crede. Un po' alla volta, questo modo di giudicare la condotta di Enrico si insinuò nel contado; gente che era sicura del contrario cominciò a parlarne perché, era a corto di argomenti; e la cosa fu creduta, ascoltata e diffusa come Vangelo dagli ignoranti e dai malevoli. Enrico cominciò ad essere evitato; poi i popolani presero a mormorare al suo passaggio, e le donne (che sono sempre più baldanzose perché si sentono più sicure) a gridargli rimproveri in faccia. Il Signore di Ballantrae era levato alle stelle come un santo. La gente ricordava che non aveva mai avuto parte alcuna nell'opprimere i fittavoli; e questo era vero, a parte il fatto che il denaro lo aveva speso lui. Forse era un po' scapestrato, diceva la gente; ma quanto era meglio un ragazzo naturale e vivace che presto avrebbe messo la testa a partito, di un taccagno che stava sempre a sedere col naso nel libro dei conti per perseguitare i poveri fittavoli! Una bagascia che aveva avuto un bambino dal Signore di Ballantrae e che, secondo tutte le voci, era stata trattata molto male da lui, si fece, ciò malgrado, una specie di campionessa della sua memoria. Un giorno scagliò un sasso a Enrico.
- Dov'è il buon figliolo che si è fidato di te? - gridò.
Enrico tirò le redini al cavallo e la guardò, col sangue che gli colava dal labbro.
- Ah, sì, Jessie? - fece. - Anche tu? Eppure tu mi dovresti conoscere.
Infatti era stato lui ad aiutarla dandole soldi. La donna aveva pronto un altro sasso e fece l'atto di scagliarlo; ed egli, per mettersi in guardia, levò la mano che teneva il frustino.
- Cosa, vorresti picchiare una ragazza, bruto... - gridò la donna, e scappò via strillando come se egli l'avesse colpita.
Il giorno di poi serpeggiò per il contado, veloce come il baleno, la voce che Enrico aveva picchiato a sangue Jessie Brown. Ho riferito questo episodio come un esempio del come la valanga crebbe, e come una calunnia tirò l'altra, finché il mio povero padrone fu caduto tanto in basso nell'opinione pubblica, che cominciò a non uscir mai di casa, come Milord. Si può essere ben certi che, per tutto quel tempo, non si lasciò sfuggire un lamento con i suoi di casa; l'origine stessa di tanta maldicenza era un argomento troppo penoso da trattare; ed Enrico era orgogliosissimo e stranamente ostinato nel suo silenzio. Il vecchio Lord doveva averne udito parlare, se non altro, da Giampaolo, e dovette per lo meno osservare il mutamento nelle abitudini del figlio. Ma è probabile che neppure lui sapesse a che punto fosse giunta l'animosità popolare; quanto poi a Miss Alison, era sempre l'ultima a venire a sapere le cose e quella che se ne interessava meno di tutti, quando le veniva a sapere.
La malevolenza generale aveva raggiunto il colmo (difatti svanì come era venuta, senza che nessuno ne sapesse il perché), quando ci furono le elezioni nella città di Saint Bride che è la più vicina a Durrisdeer e che è posta sullo Swift; fermentava un certo malcontento (non ricordo di che si trattasse, se pur ne ho udito parlare) ; si diceva in giro che ci sarebbe stato da menar le mani prima di sera e che lo sceriffo aveva mandato fino a Dumfries a chiedere soldati. Milord disse che Enrico avrebbe dovuto andarci, e sostenne che la sua presenza era necessaria per il buon nome del casato.
- Altrimenti ben presto si dirà che non prendiamo l'iniziativa nel nostro paese, - disse.
- E' una strana iniziativa quella che posso prendere io, - rispose Enrico; e quando gli altri lo ebbero sollecitato ancora: - Vi dirò la verità, - aggiunse, - non oso farmi vedere.
- In questa casa, sei tu il primo a dire una cosa simile, - esclamò Miss Alison.
- Andremo tutti e tre, - disse Milord; e, detto fatto, si mise gli stivali, per la prima volta in quattro anni,
e fu un affare serio per Giampaolo infilarglieli; e Miss Alison indossò l'amazzone, e tutti e tre si avviarono a cavallo verso Saint Bride.
Le vie erano piene della marmaglia di tutto il contado, che, non appena ebbe gettato un'occhiata a Enrico, cominciò a fischiare e a urlare e a gridare:
- Giuda! - e: - Dov'è il primogenito? - e: - Dove sono i poveri figlioli che erano andati con lui?
Ci fu perfino chi scagliò un sasso, ma gli altri per la maggior parte si limitarono a levare grida di disapprovazione, per rispetto a Milord e a Miss Alison. Ci volle meno di dieci minuti per convincere Milord che Enrico aveva ragione. Non disse una parola, ma voltò il cavallo
e tornò a casa, col mento sul petto. Non una parola disse Miss Alison; ma senza dubbio pensò parecchio; senza dubbio era stata ferita nel suo orgoglio, perché era una Durie fin nel midollo delle ossa; e, senza dubbio, nel vedere il cugino trattato così ingiustamente, anche il suo cuore si intenerì. Non andò a letto, quella notte; ho spesso. biasimato Milady, ma quando ripenso a quella notte, sono pronto a perdonarle tutto; il mattino di poi, per prima cosa, andò dal vecchio Lord che sedeva al suo solito posto.
- Se Enrico mi vuole ancora, - disse, - ora mi può sposare.
A lui fece un altro discorso:
- Non ti porto amore, Enrico, ma lo sa Iddio, una gran compassione. Il primo giugno 1748 fu il giorno delle nozze. Il mese di dicembre dello stesso anno mi vide smontare da cavallo alla porta della grande casa; da quel momento prendo a narrare la storia degli avvenimenti nell'ordine in cui si svolsero sotto i miei occhi, come se fossi un testimonio in tribunale.



CAPITOLO SECONDO


SOMMARIO DEGLI AVVENIMENTI (CONTINUAZIONE)

Giunsi al termine del mio viaggio alla fine del gelido mese di dicembre, in una giornata asciutta di brina, e chi mi capita per guida? Patey Macmorland, fratello di Tam! Era un moccioso di dieci anni, dai capelli di stoppa e dalle gambe nude, e con la bocca così piena di malignità che non ho mai conosciuto nessuno capace di tenergli testa. Io non ero ancora tanto vecchio, e in me l'orgoglio non aveva ancora avuto il sopravvento sulla curiosità; del resto, chiunque in quella mattinata gelida avrebbe preso gusto ad ascoltare tutte le antiche beghe del paese e a farsi mostrare tutti i punti lungo la via dove erano accadute tante cose strane. Udii le storte di Claverhouse mentre attraversavamo le paludi, e le storie del diavolo quando fummo sul. ciglio del burrone. Nel passare vicino all'abbazia, udii raccontare qualcosa dei vecchi monaci e qualcosa di più dei contrabbandieri che ne adoperano le rovine come deposito, approdando a questo scopo a un tiro di cannone da Durrisdeer; e per tutta la strada, i Durie e il povero Enrico fecero tutte le spese della calunnia.
Con l'animo in tal modo prevenuto contro la famiglia che mi apprestavo a servire, fui quasi sorpreso nello scorgere Durrisdeer situata in una baia ridente e riparata, a ridosso del colle dell'abbazia; la casa era una costruzione spaziosissima nello stile francese (o forse italiano, ma io non sono un intenditore di architettura), e il posto, adorno e illeggiadrito da giardini, prati, alberi e boschetti, era il più bello che avessi mai veduto. Il denaro ivi profuso infruttuosamente avrebbe senz'altro risanato le finanze della famiglia, mentre, a quel modo, ci voleva un patrimonio per mantenerla.
Enrico stesso si fece sulla soglia per accogliermi; era un giovane gentiluomo alto e bruno (tutti i Durie sono molto bruni) con un viso non bello e non gaio; molto forte di corpo, ma non altrettanto robusto di salute. Mi prese la mano senza nessuna superbia e mi mise a mio agio con parole semplici e cortesi. Mi introdusse nel salone, così come mi trovavo, stivali e tutto, per presentarmi a Milord. Era ancora chiaro; e la prima cosa che osservai fu un quadratino di vetro trasparente nel mezzo dello stemma della finestra a vetri colorati; il che, ricordo, mi sembrò una pecca in una stanza altrimenti tanto bella, con i ritratti di famiglia e il soffitto di stucco a volta e il camino scolpito, nell'angolo nel quale sedeva il vecchio Lord leggendo Tito Livio. Somigliava a Enrico; aveva quasi lo stesso viso non bello, ma più fine e attraente, e la sua conversazione era mille volte più gradevole. Ricordo che mi rivolse molte domande sull'Università di Edimburgo dove mi ero appena diplomato e sui vari professori che conosceva e della cui valentia pareva bene informato; e così, parlando di cose che conoscevo, ottenni ben presto libertà di parola nella mia nuova casa.
Frattanto la signora Durie era entrata nella stanza; era molto sciupata, perché Miss Caterina doveva nascere entro sei settimane e forse per questo, a prima vista, mi feci un debole concetto della sua bellezza; ella mi trattò con più degnazione degli altri; per cui, a conti fatti, le assegnai il terzo posto nella mia stima.
Non ci volle molto perché tutte le storie di Patey Macmorland venissero cancellate dalla mia mente e io divenissi ciò che rimasi sempre da allora in poi, il servitore devoto di casa Durrisdeer. Enrico aveva la maggior parte del mio affetto. Era con lui che io lavoravo; trovai che era un padrone esigente che serbava tutta la sua benevolenza per le ore in cui eravamo liberi e che, nelle mie funzioni di amministratore, non solo mi caricava di lavoro, ma mi teneva d'occhio e mi sorvegliava assiduamente. Ma un giorno finalmente levò lo sguardo dalle sue carte e con una specie di timidezza mi disse:
- Signor Mackellar, mi pare che vi dovrei dire che andate molto bene.
Furono queste le sue prime parole di lode, e da quel giorno la sua vigilanza del mio lavoro si fece meno tesa; ben presto fu tutto un: . Mackellar di qua e Mackellar di là.., da parte di tutta la famiglia; e per gran parte del mio impiego a Durrisdeer, ho agito come e quando ho creduto meglio e non sono mai stato chiamato a render conto di un centesimo. Già fin dal tempo in cui mi stava alle calcagna, avevo cominciato a provare in cuore una certa tenerezza per Enrico, senza dubbio in parte per compassione, perché era così palesemente infelice. Spesso, nel bel mezzo dei nostri conti, si immergeva in profonda meditazione, guardando fisso la pagina o fuori della finestra; e in quei momenti l'espressione del suo viso e il sospiro che gli sfuggiva ridestavano in me un vivo sentimento di curiosità e di commiserazione.
Un giorno, ricordo, ci eravamo attardati nello studio per qualche affare. Lo studio è all'ultimo piano della casa e si affaccia sulla baia; al di là di un piccolo promontorio boscoso, si vedono le lunghe lingue di sabbia;
e laggiù, in fondo, contro il sole che proprio allora si tuffava in mare, si scorgevano i contrabbandieri che scorrazzavano sulla spiaggia con grandi forze di uomini e di cavalli. Enrico era rimasto a fissare l'occidente tanto a lungo che io mi meravigliavo che non restasse abbacinato dal sole; a un tratto aggrottò le sopracciglia, si passò la mano sulla fronte e si volse a me con un sorriso.
- Non indovinerete cosa pensavo, - disse. - Pensavo che sarei più felice se potessi cavalcare e rischiare la vita in compagnia di quei fuorilegge.
Mi ero accorto, dissi, che non era di buonumore e aggiunsi che era un'illusione molto comune quella di invidiare gli altri e di credere di poter migliorare cambiando; e a questo proposito citai Orazio, da giovanotto uscito di fresco dall'Università.
- Già, proprio così, - mi rispose. - E con ciò possiamo tornare ai nostri conti.
Non passò molto tempo che cominciai ad aver sentore della causa di tanto abbattimento. A dire il vero, anche un cieco avrebbe scoperto ben presto che c'era un'ombra su quella casa, l'ombra del Signore di Ballantrae. Morto o vivo (e allora era creduto morto), quell'uomo era rivale del fratello; suo rivale fuori, dove non si udiva mai una parola in favore di Enrico e nulla se non rimpianto e lodi per il primogenito; e suo rivale In casa, non solo con il padre e con la moglie, ma con i servitori stessi.
I caporioni erano due vecchi servitori. Giampaolo, un ometto calvo e panciuto dall'aspetto solenne, gran bigotto e (preso per quel che valeva) servo abbastanza fidato, era capo della fazione del Signore di Ballantrae. Nessuno osava arrivare al punto di Giampaolo. Prendeva gusto a mancare di rispetto a Enrico in pubblico, spesso col fare paragoni irrispettosi. Certo, Milord e la signora lo riprendevano, ma mai con la dovuta fermezza; e bastava che quello facesse la faccia piagnucolosa e cominciasse le lamentazioni per il primogenito "il suo ragazzo", come lo chiamava lui, perché gli venisse condonato tutto. Quanto a Enrico, lasciava cadere la cosa in silenzio, con un'espressione a volte triste e a volte torva. Non era possibile competere con un morto, ed egli lo sapeva; e non vedeva il modo di biasimare un vecchio servitore per eccesso di devozione. La sua lingua non era da tanto. Macconochie, il capo del partito avverso, era un vecchio ubriacone, maldicente, bestemmiatore e fanfarone; ho spesso pensato come a un lato curioso della natura umana, al fatto che ciascuno di quei due servitori si erigesse a campione del proprio opposto, vituperando i propri difetti e dispregiando le proprie virtù quando le vedeva rispecchiate in un padrone. Macconochie, che aveva fiutato per tempo la mia segreta simpatia, mi onorava della sua confidenza e declamava contro il Signore di Ballantrae per ore intere, tanto che perfino il mio lavoro ne risentiva.
- Qua sono tutti rammolliti, - gridava, - al diavolo tutti quanti! Il Signore di Ballantrae... li affoghi il diavolo quelli che lo chiamano così, il Signore di Ballantrae ora deve essere Il signor Enrico! Nessuno di loro gli voleva tanto bene al signore quando lo avevano qui, te lo dico io! Maledetta la sua memoria, non ho mai sentito una buona parola da quella bocca, né io né nessun altro; niente altro che burlare e schernire e imprecare, il diavolo se lo porti via! Nessuno sa quant'era cattivo; altro che gentiluomo! Signor Mackellar, avete mai sentito parlare di Wully White, il tessitore? No, un tipo di bigotto, uno che non beveva; non era uno della mia razza e non l'ho mai potuto soffrire; però era lo stesso un tipo in gamba a modo suo e un bel giorno salta su e rabbuffa il signore per via di qualcuna delle sue birbonate. Bell'impresa per il Signore di Ballantrae mettersi a tu per tu con un tessitore, vero? - e qui Macconochie aveva un ghigno; per la verità, quel nome non gli usciva mai dalle labbra se non con una specie di gemito d'odio. - Ma lui ci si mise! e fu proprio un bel lavoro: gli bussava alla porta, gli faceva "bui" da dietro il telaio, gli metteva la polvere da sparo nel camino e i mortaretti sul davanzale; alla fine quel poveruomo credette che il diavolo fosse venuto a portarlo via. Be', a farla breve, a Wully dette di volta il cervello. Andò a finire che stava sempre in ginocchio, non riuscivano più a farlo alzare, e non faceva altro che berciare e pregare e via discorrendo finché il Signore lo chiamò a sé. Fu assassinio bello e buono, - lo dissero tutti. Domandatelo a Giampaolo che si vergognava come un ladro, di quel gioco, lui che è tanto cristiano! Belle cose faceva il Signore di Ballantrae!
Gli domandai che cosa aveva pensato della faccenda lo stesso Signore di Ballantrae.
- Che ne so io? - mi rispose. - Lui non diceva mai nulla.
E via di questo passo, maledicendo e imprecando secondo il suo solito, con ogni tanto un "Signore di Ballantrae" detto nel naso con uno sbuffo di scherno. Fu durante una di queste confidenze che mi fece vedere la lettera di Carlisle con l'impronta del ferro di cavallo ancora impressa sulla carta. Veramente, fu quella la nostra ultima confidenza perché quella volta Macconochie parlò della signora con tanta malevolenza che fui costretto a riprenderlo aspramente e da allora in poi dovetti tenerlo a distanza.
Il vecchio Lord era costantemente buono con Enrico: aveva per lui perfino garbate espressioni di gratitudine e a volte gli batteva sulla spalla e diceva, come parlando al mondo in generale: - Questo è un gran buon figliolo per me.
E, senza dubbio, gli era riconoscente, perché era uomo giusto e ragionevole. Ma credo che tutto finisse qui, e sono sicuro che anche Enrico pensava la stessa cosa. Tutto l'amore era per il figlio morto. Non che se ne facesse spesso menzione; anzi, a me, ne fu fatto cenno una volta sola. Un giorno Milord mi aveva domandato come mi trovavo con Enrico e io gli avevo detto 1a verità.
- Sì, sì, - disse guardando con la coda dell'occhio il fuoco che divampava. - Enrico è un buon ragazzo, un buonissimo ragazzo; - poi aggiunse: - Avete sentito dire, Mackellar, che avevo un altro figlio? temo che non fosse un ragazzo virtuoso come Enrico, ma, Signore! ora è morto, Mackellar! e quando era vivo eravamo tutti molto fieri di lui, tutti molto fieri. Anche se, in un certo senso, non era proprio come avrebbe dovuto essere, pure, chi sa, gli volevamo più bene!
Disse queste ultime parole guardando soprappensiero il fuoco; poi volgendosi a me con molta vivacità, aggiunse: - Però, sono lieto che andiate tanto d'accordo con Enrico. Vedrete che è un buon padrone.
E con ciò riaperse il suo libro, il che era abitualmente il segnale del congedo. Ma dovette leggere poco e capire anche meno; il campo di Culloden e il primogenito dovevano essere l'oggetto dei suoi pensieri; e l'oggetto dei miei era una assurda gelosia del morto, gelosia che già da allora cominciava a nascere in me, per amore di Enrico.
Siccome ho lasciato per ultima la signora, questa definizione del mio modo di sentire può apparire ingiustificata ed eccessiva; il lettore giudicherà quando avrò finito. Ma debbo prima riferire un altro episodio che servì a rendere più confidenziali i nostri rapporti. Non erano ancora sei mesi che mi trovavo a Durrisdeer quando si dette il caso che Giampaolo si ammalasse e fosse costretto a letto; secondo il mio debole parere, la causa prima della sua malattia era il vino; ciò malgrado fu assistito e si comportò come un santo sofferente; e perfino il pastore che era venuto a trovarlo, quando venne via, si dichiarò edificato. La terza mattina della malattia, Enrico venne da me con un non so che di furtivo nell'aspetto.
- Mackellar, - disse, - avrei da chiedervi un piccolo servigio. Si tratta di una pensione che noi paghiamo, e tocca a Giampaolo portarla a destinazione, ma ora che sta male non saprei a chi rivolgermi se non a voi. È una cosa molto delicata, non posso portarla io con le mie mani per diverse ragioni; non oso mandare Macconochie che è un chiacchierone e sono... e ho... desidero che la cosa non giunga all'orecchio della signora, - concluse, e nel dir questo arrossì fino alla radice dei capelli.
A dire la verità, quando venni a sapere che dovevo portare denaro a una certa Jessie Brown che era una poco di buono, immaginai che Enrico volesse coprire qualche sua marachella. Fui tanto più colpito quando venne fuori la verità.
Jessie abitava su per un vicolo che si dipartiva da una via traversa di Saint Bride. Il luogo era malissimo abitato, per lo più da tipi di contrabbandieri. All'ingresso del vicolo c'era un uomo con la testa fasciata; a mezza via, in una taverna, c'era gente che sbraitava e cantava, sebbene non fossero ancora le nove di mattina. Nell'insieme non avevo mai veduto paraggi peggiori, neppure nella grande città di Edimburgo, e avevo una mezza voglia di tornare indietro. La camera di Jessie era intonata all'ambiente, e anche lei non valeva di più. Non volle darmi la ricevuta (che Enrico mi aveva detto di esigere, perché era un uomo molto preciso), finché non ebbe mandato a prendere dei liquori e io non ebbi bevuto un bicchiere alla sua salute; si comportò dal principio alla fine come una pazza e un'incosciente, ora scimmiottando il contegno di una signora, ora dando in disdicevoli scoppi di allegria, ora civettando con me in modo decisamente opprimente.
Del denaro, però, parlò in termini più tragici.
- E' denaro di sangue! - esclamò. - Ecco quel che ne penso! Denaro di sangue per i traditi! Guardate a cosa son ridotta! Ah, se quel caro ragazzo tornasse, le cose cambierebbero. Ma è morto... giace morto sui monti di Scozia, quel caro ragazzo!
Nelle sue lamentazioni per il caro ragazzo assumeva pose estatiche, con le mani giunte e gli occhi al cielo, che pensai avesse imparato dai commedianti girovaghi; mi parve anche che nel suo dolore ci fosse molta affettazione e che ella si compiacesse della sua vergogna, perché ormai era l'unica cosa di cui si potesse vantare. Non dirò che non mi facesse pietà, ma era tutt'al più una pietà mista a ripugnanza, e l'ultimo suo atteggiamento la cancellò del tutto. Fu quando le fui venuto a noia come spettatore e quando ella ebbe finalmente firmato la ricevuta. - Ecco fatto! - disse, e con le bestemmie più sconvenienti in bocca a una donna, mi ingiunse di andarmene e di portarla al Giuda che mi aveva mandato. Era la prima volta che sentivo dare quel nome a Enrico; rimasi interdetto di fronte all'improvvisa veemenza dei suoi modi e delle sue parole, e lasciai la stanza sotto quella grandine di maledizioni, come un can frustato. Ma non ero ancora alla fine dei miei guai, perché quella strega spalancò la finestra e spenzolandosi dal davanzale continuò a ricoprirmi di improperi mentre risalivo il vicolo; i contrabbandieri si fecero sulla porta della taverna e si unirono allo scherno, ed uno di loro ebbe perfino la brutalità di aizzarmi contro un cagnolino stizzosissimo che mi morse alla caviglia. Sarebbe stata una severa lezione, se ne avessi avuto bisogno, per insegnarmi ad evitare le cattive compagnie; e me ne tornai a casa dolorante per il morso e con l'animo non poco indignato.
Enrico era nello studio e fingeva di essere occupato, ma potei vedere che era soltanto impaziente di avere notizie della mia missione.
- Dunque? - domandò non appena fui entrato; e quando gli ebbi detto qualcosa di quanto era accaduto, aggiungendo che Jessie aveva l'aria di una donna che non meritava nulla e che mi sembrava tutt'altro che riconoscente: - Non mi è amica, - rispose, - ma, a dire il vero, Mackellar, posso vantare ben pochi amici e Jessie ha un po' di ragione se è ingiusta. E' inutile cercar di nascondere ciò che tutto il paese sa: Jessie non è stata trattata molto bene da uno della nostra famiglia.
Era la prima volta che lo udivo fare un accenno, sia pur remoto, al Signore di Ballantrae, e credo che la sua lingua si ribellasse anche a quello; ma, poco dopo, riprese: - Questa è la ragione per cui non ho voluto che se ne parlasse. Farebbe pena alla signora... e anche a mio padre, - aggiunse, arrossendo di nuovo.
- Signor Enrico, - dissi, - se mi potessi prendere questa libertà, vi direi di lasciar perdere quella donna. A che serve il vostro denaro a gente come lei? Non conosce temperanza né economia, e quanto alla gratitudine, tanto varrebbe voler cavar latte da un macigno; e se sospenderete l'assegno, non cambierà proprio nulla, a parte il fatto che risparmierete le caviglie dei vostri messaggeri.
Enrico sorrise. - Mi rincresce proprio per la vostra caviglia, - soggiunse subito dopo, con la dovuta serietà.
- E notate, - proseguii, - che vi do questo consiglio a ragion veduta; eppure, sulle prime, mi si era intenerito il cuore per quella donna.
- Ecco, vedete! = esclamò Enrico. - E poi non dovete dimenticare che io l'ho conosciuta quando era una figliola molto come si deve. A parte questo, io parlo poco della mia famiglia, ma penso molto alla sua riputazione.
Con queste parole interruppe il colloquio; e fu quella la prima nostra conversazione confidenziale. Ma quel pomeriggio stesso ebbi la prova che il padre era perfettamente al corrente della cosa e che Enrico la teneva nascosta soltanto alla moglie.
- Temo che abbiate avuto un incarico penoso, oggi, - mi disse Milord, - e poiché non fa in alcun modo parte dei vostri doveri, desidero ringraziarvi e, nello stesso tempo, rammentarvi (nel caso che Enrico abbia omesso di farlo) quanto sia desiderabile che non una parola di tutto questo giunga a mia figlia. Le critiche ai morti sono doppiamente dolorose, Mackellar.
La collera mi arse in cuore; avrei voluto dire in faccia a Milord che c'era poco bisogno di puntellare l'immagine del morto nel cuore della signora e che avrebbe fatto molto meglio a cercare di infrangere quell'idolo bugiardo; poiché ormai vedevo benissimo come stavano le cose fra il mio padrone e sua moglie.
So che la mia penna è abbastanza chiara per narrare una storia semplice; ma rendere l'idea di una infinità di piccole cose, nessuna delle quali di per se stessa grande abbastanza da essere narrata; e tradurre la storia di sguardi e il messaggio di voci che non dicono nulla di importante; e far rientrare in mezza pagina la sostanza degli eventi di quasi diciotto mesi... è cosa che dispero di condurre a termine. La colpa, per essere proprio schietti, era tutta della signora. Ella si faceva un merito del suo consenso al matrimonio e lo prendeva questo sentimento. Per di più, ella si faceva un merito della propria fedeltà al morto, sebbene, a una coscienza più scrupolosa, ciò dovesse piuttosto sembrare infedeltà al vivo; e anche in questo Milord le dava il suo appoggio. Immagino che gli facesse piacere parlare della sua disgrazia e che avesse ritegno di soffermarsi a farlo con Enrico. È certo, se non altro, che egli formò un piccolo circolo chiuso in quella famiglia di tre persone, e che fu il marito a restarne fuori. Pare fosse una vecchia abitudine da quando la famiglia era rimasta sola a Durrisdeer, che Milord bevesse il suo bicchiere di vino presso al caminetto e che Miss Alison, invece di ritirarsi, portasse uno sgabello ai suoi piedi e si sedesse a chiacchierare a quattr'occhi con lui; e anche dopo che ebbe sposato il mio padrone, le cose continuarono come prima.
Avrebbe dovuto farmi piacere la vista del vecchio gentiluomo così affettuoso con la figlia; ma io parteggiavo troppo per Enrico per non adirarmi nel vederlo escluso. Tante e tante volte l'ho veduto prendere una decisione perfettamente ovvia, alzarsi da tavola e raggiungere sua moglie e Lord Durrisdeer. Questi, da parte loro, non mancavano di fargli buona accoglienza e si volgevano a lui con un sorriso, come a un bambino importuno, ammettendolo nella conversazione con uno sforzo così mal dissimulato, che poco dopo egli tornava al tavolo accanto a me. e da lì. tanto è vasto i1 salone di Durrisdeer, potevamo appena udire il mormorio delle voci presso al camino. Enrico stava seduto lì e li guardava e io guardavo lui; e talvolta, vedendo Milord crollare dolorosamente il capo e la sua mano posarsi sulla testa della signora o quella di lei toccargli il ginocchio in atto di consolazione, e talvolta da uno scambio di occhiate lagrimose, concludevamo che il discorso era tornato sul solito tema e che l'ombra del morto era nella sala.
Ci sono dei momenti in cui rimprovero a Enrico di aver sopportato tutto con troppa pazienza; ma bisogna ricordare che era stato sposato per compassione e che aveva accettato sua moglie a questi patti. Una volta, ricordo, annunciò che aveva trovato un operaio per sostituire il vetro rotto della finestra a vetri colorati, cosa che rientrava evidentemente nelle sue funzioni, visto che era lui che si occupava di ogni cosa. Ma, per gli illusi sul conto del Signore di Ballantrae, quel vetro era una reliquia; e al primo accenno a un mutamento, il sangue salì al volto della signora.
- Mi meraviglio di te! - esclamò.
- Mi meraviglio di me stesso, - rispose Enrico, con più amarezza di quanto gli avessi mai udito esprimere.
Allora Milord si intromise con le sue solite parole concilianti, cosicché, prima della fine del pasto, tutto parve dimenticato; soltanto, quando, dopo pranzo, i due si furono ritirati, come al solito, nel canto del fuoco, vedemmo lei che piangeva col capo appoggiato alle ginocchia di lui. Enrico seguitò la conversazione con me intorno a qualche argomento riguardante la proprietà; sapeva parlare di poco, all'infuori degli affari e non era mai brillante in compagnia; ma quel giorno. continuò a discorrere quasi senza interruzione, mentre il suo occhio correva più e più volte al camino e la sua voce mutava di tono, pur senza arrestarsi. Il vetro, comunque, non fu sostituito e credo che egli considerasse la cosa una grave sconfitta.
Fosse o non fosse abbastanza energico, Dio sa che era anche troppo buono. La signora lo trattava con un'aria di degnazione che, da parte di una moglie, avrebbe ferito il mio orgoglio fino a piagarlo; Enrico riceveva tutto come un favore. La moglie lo teneva a distanza, lo dimenticava, poi lo ricordava e si chinava su di lui, come si fa con i bambini; lo schiacciava con fredda cortesia, lo rimproverava con un mutar di colore e uno stringer di labbra, come se la bassezza di lui l'avesse oltraggiata; gli impartiva ordini con un'occhiata, quando non si padroneggiava; quando invece stava all'erta, si faceva pregare per le attenzioni più naturali, come se fossero state concessioni incaute. E a tutto questo egli rispondeva con instancabile devozione, adorando, come dice la gente, perfino la terra sotto i piedi di lei; e il suo amore gli splendeva negli occhi come una lampada accesa. Quando nacque Miss Caterina, volle per forza restare in camera, seduto dietro la spalliera del letto, bianco, mi fu detto, come un panno lavato, col sudore che gli gocciolava giù dalla fronte; e il fazzoletto che aveva in mano fu ridotto a una pallottolina non più grande di una palla di moschetto. E per molti giorni non poté tollerare la vista di Miss Caterina; a dire la verità, dubito che egli sia mai stato quello che avrebbe dovuto essere per la mia signorina; e per questo difetto di sentimento naturale, Enrico fu vivamente biasimato.
Tale fu la situazione familiare fino al 7 aprile 1749, allorché avvenne il primo di una serie di eventi che dovevano spezzare tanti cuori e spegnere tante vite.
Quel giorno, un po' prima dell'ora di cena, io ero seduto in camera mia, quando Giampaolo spalancò la porta, risparmiandosi la cerimonia di bussare e mi disse che c'era dabbasso un tale che voleva parlare con l'amministratore; e nel menzionare la mia carica ebbe un risolino di scherno. Chiesi che tipo d'uomo fosse e come si chiamasse, e questo mi spiegò la ragione del malumore di Giampaolo, perché risultò che il visitatore aveva rifiutato di dire il nome se non a me in persona, affronto grave alla dignità del maggiordomo.
- Bene, - dissi con un risolino, - vediamo cosa vuole.
Trovai in anticamera un omaccione vestito molto dimessamente e tutto avviluppato in un mantello da marinaio, come se fosse appena sbarcato; e così era, difatti. Non lontano da lui stava ritto Macconochie con un pezzo di lingua fuori .e il mento nella mano, con l'aria del babbeo che pensa intensamente; e lo straniero, che si era coperto il viso col mantello, sembrava a disagio. Non appena mi vide venire, mi si fece incontro con fare espansivo.
- Caro il mio uomo, - disse, - mille scuse per avervi disturbato, ma mi trovo nella pia imbarazzante delle situazioni. E c'è lì un figlio d'un cane che mi par di conoscere e per di più credo che lui conosca me. Dal momento che vi trovate a far parte di questa famiglia e in una posizione di responsabilità (e questa è la ragione per cui mi sono preso la libertà di farvi chiamare), appartenete senza dubbio al partito dei galantuomini?
- Potete, se non altro, esser certo, - risposi, - che tutti quelli di questo partito sono perfettamente al sicuro a Durrisdeer.
- Caro il mio uomo, è proprio quel che pensavo - replicò l'altro. - Vedete, sono stato portato a terra proprio ora da una persona molto per bene di cui non riesco a ricordare il nome e che mi aspetterà bordeggiando fino al mattino, con un certo rischio da parte sua e, a parlarvi schietto, sono un po' in pensiero perché credo che ce ne sia un po' anche per me. Ho salvato la pelle tante volte, signor... (non mi ricordo il vostro nome che è certo un bellissimo nome) che, affè, mi rincrescerebbe proprio lasciarla, tutto compreso. E quel figlio di cane che ho veduto davanti a Carlisle...
- Oh, signore, - interruppi, - vi potete fidare di Macconochie fino a domani.
- Be', è un piacere sentirvi dir questo, - soggiunse lo straniero. - La verità è che il mio nome non è proprio quello che ci vuole in questo paese. Naturalmente, con un gentiluomo pari vostro, caro il mio uomo, non voglio far misteri e, con vostra licenza, ve lo dirò all'orecchio. Mi chiamo Francis Burke, colonnello Francis Burke e son qui, con un rischio maledetto, per parlare con i vostri padroni e chiedo scusa per averli chiamati così, perché certo è una cosa che non avrei mai indovinato dal vostro aspetto. E se volete esser tanto gentile da far loro il mio nome, potreste anche dire che reco missive la cui lettura, ne, son certo, li rallegrerà moltissimo.
Il colonnello Francis Burke era uno degli irlandesi del principe, uno di coloro i quali avevano fatto tanto male alla sua causa e che erano tanto invisi agli scozzesi all'epoca della ribellione; ml tornò immediatamente alla memoria come il Signor di Ballantrae avesse sbalordito tutti col seguire quel partito e, in quello stesso istante, un forte presentimento della realtà si impadronì dell'animo mio.
- Se volete accomodarvi qua, - dissi, aprendo la porta di una stanza, - vado ad avvertire Milord.
- E proprio gentile da parte vostra, signor Come-vi-chiamate, - rispose il colonnello.
Andai su in salone a lenti passi. Erano là tutti e tre, Milord -al solito posto, la signora presso la finestra col suo lavoro, ed Enrico (secondo la sua abitudine) che passeggiava su e giù in fondo alla sala. Nel centro, la tavola era apparecchiata per la cena. Dissi in poche parole quello che avevo da dire. Milord si appoggiò allo schienale della seggiola; la signora balzò in piedi di scatto, e lei e il marito si guardarono fisso negli occhi, attraverso la stanza. Fu uno stranissimo sguardo di sfida che i due si scambiarono; e, mentre si guardavano, il colore sparì dai loro volti. Poi Enrico si rivolse a me; non per parlarmi, ma solo per farmi cenno col dito; quello bastò, e, io tornai giù a prendere il colonnello. Quando tornammo, i tre erano più o meno nello stesso atteggiamento di quando li avevo lasciati; credo che non si fossero scambiati una sola parola.
- Milord Durrisdeer, senza dubbio? - disse il colonnello inchinandosi, e Milord si inchinò in risposta.
- E questi, - continuò il colonnello - sarebbe il Signore di Ballantrae?
- Non ho mai assunto questo nome, - rispose Enrico, - sono Enrico Durie, ai vostri ordini.
Poi il colonnello si rivolse alla signora e si inchinò, tenendo il cappello sul cuore, con l'aria più galante e fatale.
- Non ci può essere errore circa una così leggiadra figura di dama; - disse: - mi rivolgo alla seducente Miss Alison di cui ho tanto udito parlare?
Ancora una volta, marito e moglie si scambiarono un'occhiata.
- Sono la signora Durie, - disse la signora; - ma prima del mio matrimonio, il mio nome era Alison Graeme.
Allora Milord parlò: - Sono vecchio, colonnello Burke, - disse, - e cagionevole. Sarebbe gran mercé da parte vostra parlare senza ambagi; mi portate notizie di... - esitò e poi le parole gli sfuggirono con voce singolarmente mutata, - di mio figlio?
- Caro Milord, vi parlerò schietto, da soldato, - rispose il colonnello. - Così è.
Milord tese una mano tremante; parve fare un cenno, ma nessuno di noi poté indovinare se per arrestarlo o per dirgli di proseguire. Alla fine pronunziò un'unica parola: - Buone?
- E come, le migliori del creato! - esclamò il colonnello. Il mio buon amico e ammirato commilitone si trova in questo momento nella bella città di Parigi e, molto probabilmente, se ben conosco le sue abitudini, a quest'ora sta avvicinando la seggiola al tavolo per un boccon di cena. Vivaddio, mi pare che la signora stia per svenire.
Infatti la signora era pallida come una morta e si appoggiava alla cornice della finestra. Ma quando Enrico fece l'atto di accorrere, si raddrizzò con una specie di brivido.
- Sto bene. - disse, con le labbra bianche.
Enrico si fermò e il suo viso ebbe una contrazione d'ira. Un istante dopo egli si rivolse al colonnello. - Non vi dovete rimproverare l'effetto della notizia sulla signora Durie, - disse. - E più che naturale; siamo stati allevati tutti insieme come fratelli e sorella.
La signora guardò il marito con un'espressione quasi di sollievo e, perfino, di gratitudine. Secondo il mio modo di vedere, quelle parole furono il primo passo da lui fatto nella buona grazia di lei.
- Cercate di perdonarmi, signora; sono proprio un selvaggio di irlandese, - disse il colonnello, - e merito la fucilazione per non aver saputo presentare la cosa con più arte a una dama. Ma ecco le lettere del Signor di Ballantrae. Una per ciascuno di voi tre; di certo (se ben conosco il talento del mio amico) avrà raccontato la propria storia con più bel garbo.
Mentre parlava tirò fuori le tre lettere, le dispose secondo le soprascritte, presentò la prima a Milord, che l'afferrò con avidità, e poi avanzò verso la signora, porgendole la seconda.
Ma la dama la respinse con un cenno: - A mio marito, - disse con voce soffocata.
Il colonnello era un uomo pronto, ma di fronte a questo, rimase un po' interdetto: - Sicuro! - esclamò, - quanto sono ottuso! Sicuro! - ma seguitava a tenere in mano la lettera.
Alla fine, Enrico tese la mano, e non ci fu altro da fare se non cedere la lettera. Enrico prese le lettere (quella di lei e la propria) e ne guardò l'esterno con le sopracciglia aggrottate, come se pensasse. Mi aveva sorpreso fin dal principio col suo ottimo contegno; ma ora stava per superare se stesso.
- Lascia che ti accompagni in camera tua, - disse alla moglie. - E stata una cosa talmente improvvisa; e, in ogni modo, avrai voglia di leggere la tua lettera da sola.
Ancora una volta ella lo guardò con la stessa ombra di stupore; ma egli non le dette tempo e le si avvicinò senz'altro.
- Sarà meglio, credimi, - disse, - e il colonnello ha troppa delicatezza per non scusarti.
E con ciò, le prese la mano per la punta delle dita e la condusse fuori della sala.
La signora non tornò giù, quella sera: e quando la mattina seguente Enrico andò a trovarla, come seppi molto tempo dopo, ella gli ridette la lettera ancora chiusa.
- Oh, leggila e che sia finita! - aveva gridato Enrico.
- Risparmiami, - rispose lei.
E con queste parole, secondo il mio modo di vedere, ognuno di loro disfece in gran parte il bene fatto prima. Ma la lettera (e qui non c'è dubbio) mi capitò fra le mani e da me fu bruciata, ancora intatta.
Per poter essere molto esatto circa le avventure del Signore di Ballantrae dopo Culloden, scrissi, non molto tempo fa, al colonnello Burke, ora cavaliere dell'ordine di San Luigi, pregandolo di farmi avere qualche appunto scritto, dal momento che, a così gran distanza di tempo, non avrei potuto fare affidamento sulla mia memoria. A dire il vero, la sua risposta mi mise in un certo imbarazzo, perché egli mi mandò le memorie complete della sua vita, che solo in qualche punto accennavano al Signore di Ballantrae; erano molto più lunghe di tutta quanta la mia storia e non sempre (almeno così mi parve) intese all'altrui edificazione. Nella sua lettera, datata da Ettenheim, mi pregava di trovargli un editore per il tutto, dopo che ne avessi fatto quell'uso che credevo; e credo che risponderò meglio al mio proposito e, nello stesso tempo, soddisferò il suo desiderio, stampandone alcune parti per disteso. In questo modo i miei lettori riceveranno un particolareggiato e, credo, molto veridico resoconto di alcuni fatti essenziali; e se qualche editore prendesse gusto allo stile narrativo del cavaliere, sa dove rivolgersi per avere il resto, che si trova in abbondanza pronto ai suoi ordini. Inserisco qui il mio primo estratto, al posto di quanto il cavaliere ci narrò intorno alla tavola, nel salone di Durrisdeer. Però dovete Immaginare che non furono i crudi fatti, bensì una versione molto ritoccata quella che egli offrì a Milord.



CAPITOLO TERZO


LE PEREGRINAZIONI DEL SIGNORE DI BALLANTRAE (DALLE MEMORIE DEL CAVALIER BURKE)

...Lasciai Ruthven (non c'è neppure bisogno di dirlo) con molto maggior soddisfazione di quando ero venuto; ma, sia che smarrissi la strada, in quelle contrade desolate, sia che i miei compagni mi abbandonassero, mi trovai ben presto solo. Era un frangente sgradevolissimo, perché io non sono mai riuscito a capire quest'orribile paese, né queste popolazioni selvagge, e l'ultimo colpo della ritirata del principe aveva reso gli irlandesi più impopolari che mai.
Stavo meditando sulla mia sorte incerta, quando scorsi sul colle un altro cavaliere che, sulle prime, scambiai per un fantasma, essendo la nuova della sua morte proprio sul fronte di Culloden, generalmente diffusa nell'esercito. Era questi il Signore di Ballantrae, figlio di Milord Durrisdeer, un giovine aristocratico di raro valore e di grandi capacità, egualmente designato dalla natura ad ornare le corti ed a mietere allori sul campo di battaglia. Il nostro incontro fu tanto più gradito ad entrambi, in quanto egli era uno dei pochi scozzesi che avevano trattato gli irlandesi con riguardo e avrebbe potuto essere di grandissima utilità nel facilitare la mia fuga. Nondimeno, quella che gettò le fondamenta della nostra amicizia fu una circostanza di per sé più romantica di qualsivoglia favola di re Artù.
Fu il secondo giorno della nostra fuga, dopo una notte passata alla pioggia, sul pendio di un monte. Un uomo di Appin, Alan Black Stuart (o un nome simile; Nota di Mackellar: Non sarà stato costui Alan Break Stuart, più tardi noto come l'assassino di Appin? A volte il cavaliere è molto vago in fatto di nomi, ma l'ho poi riveduto in Francia), che si trovò per caso a passare per la stessa via ebbe qualche sospetto sul mio compagno. Vennero scambiate espressioni molto scortesi e Stuart gridò a Ballantrae di scendere da cavallo e di venire alle mani.
- Veramente, Signor Stuart, - dice Ballantrae. - credo che per il momento preferirei fare una corsa con voi. E, detto fatto, sprona il cavallo.
Stuart ci rincorse, cosa puerile, per più di un miglio; e non potei trattenere le risa, quando mi guardai indietro e vidi in vetta a un colle Stuart che si reggeva il fianco con la mano e che per poco non scoppiava dal gran correre.
- Però, - non potei fare a meno di dire al mio compagno, - io non mi farei correre dietro da nessuno per una buona ragione come questa, senza dargli soddisfazione. È stato un bel tiro, ma sa un po' di codardia.
Egli aggrottò la fronte. - Faccio abbastanza, - rispose, - a mettermi sul gobbo l'uomo più impopolare di tutta la Scozia e tanto basti per il mio coraggio.
- Oh, vivaddio, - risposi, - ve ne potrei far vedere a occhio nudo un altro ancora più impopolare. E se la mia compagnia non vi piace, andate voi a mettervi sul gobbo di qualcun altro.
- Colonnello Burke, - diss'egli, - non questioniamo; e, a tal uopo, permettete che vi dica che io sono l'uomo meno paziente del mondo.
- Io ho tanta pazienza quanta ne avete voi, - ribattei, - e mi fa piacere che si sappia.
- Di questo passo, - replicò Ballantrae, tirando le redini, - non andremo molto lontano; perciò propongo di fare all'istante una delle due: o ci battiamo, e la facciamo finita, o facciamo il patto di sopportarci scambievolmente in tutto e per tutto.
- Come due fratelli? - chiesi.
- Non ho detto una sciocchezza simile, - replicò. - Ho già un fratello e non lo stimo un cavolo. Ma se nel corso di questa fuga dobbiamo stropicciare i nostri nasi come selvaggi, abbiamo almeno il coraggio di fare i selvaggi fino in fondo e giuriamo di non avere mai risentimenti né rimproveri l'uno per l'altro. In fondo, io sono un tipo abbastanza malvagio e trovo che la posa della virtù è molto urtante.
- Oh, io sono malvagio quanto voi, - risposi. - Francis Burke non è uno stinco di santo. Ma cosa vogliamo fare? Batterci o fare amicizia?
- Ecco, - rispose, - credo che sia meglio fare a testa e croce.
La proposta era troppo cavalleresca per non essere di mio gradimento e, per strano che possa sembrare, trattandosi di due gentiluomini bennati del giorno d'oggi, prillammo una moneta da mezza corona (come due antichi paladini) per decidere se dovevamo sgozzarci a vicenda o giurarci eterna amicizia. Di rado può darsi caso più romantico, ed è questo uno dei punti delle mie memorie in cui si può vedere che le antiche storie di Omero e dei poeti sono ancora vere oggi... almeno per quanto riguarda gli aristocratici e le persone di distinzione. La moneta ricadde per la pace e ci stringemmo la mano a suggello del patto. Ed allora il mio compagno mi spiegò qual era stata la sua idea nel darsi alla fuga innanzi a Stuart; ed era certamente un'idea degna del suo intelletto politico. La voce della sua morte, egli disse, era una gran protezione per lui; Stuart, riconoscendolo, era divenuto pericoloso; quindi egli aveva scelto la via più breve per assicurarsi il silenzio di quel signore.
- Perché, - aggiunse, - Alan Stuart è troppo vanitoso per raccontare una storia simile.
Nel pomeriggio arrivammo sulla riva del braccio di mare a cui eravamo diretti, e lì trovammo la nave che aveva dato fondo allora. Era la Santa Maria degli Angeli del porto Le-Havre-de-Grace. Il Signore di Ballantrae, dopo aver fatto segnalazione per avere una barca, mi chiese se conoscevo il capitano. Gli dissi che era un mio compatriota della più illibata onestà; ma temevo che fosse un uomo piuttosto pauroso.
- Non fa nulla, - diss'egli. - Nonostante tutto, dovrà venire a sapere la verità.
Gli domandai se intendeva. dire la verità a proposito della battaglia; perché, se i1 capitano fosse venuto a sapere che era stato ammainato lo stendardo, avrebbe certo ripreso il mare sull'istante.
- E anche se fosse! - mi rispose, - ormai le armi non sono più di nessuna utilità.
- Caro il mio uomo, - replicai, - chi pensa alle armi? Ma certo dobbiamo pensare agli amici. Ci debbono aver seguito da presso, forse c'è fra loro anche il principe, e se la nave se ne va, un gran numero di vite preziose sarà messo a repentaglio.
- Anche il capitano e la ciurma hanno da salvare la vita, se ragioniamo così, - disse Ballantrae.
Dichiarai che questo era un sofisma e che non volevo saperne di parlare al capitno; fu allora che Ballantrae mi dette una risposta spiritosa a causa della quale (e anche perché anch'io sono stato biasimato per la faccenda della Santa Maria) ho riferito tutta la conversazione nel modo in cui si svolse.
- Frank, - mi disse Ballantrae, - ricordati del nostro accordo. Io non debbo oppormi se tu stai zitto e anzi ti incoraggio a farlo; ma, secondo gli stessi patti, tu non ti devi risentire se io parlo.
Non potei trattenere le risa a questo discorso; nondimeno, lo misi in guardia contro quel che ne sarebbe seguito.
- Segua il diavolo che vuole, non me ne importa nulla, - rispose il temerario. - Farò, come ho sempre fatto, quello che mi pare e piace.
Come é noto, la mia predizione si avverò. Il capitano, non appena udì la nuova, tagliò il cavo e riprese il mare; e prima dello spuntare del mattino eravamo nel Great Minch.
La nave era vecchissima; e il comandante, sebbene l'uomo più onesto del mondo (e irlandese per giunta), era anche uno dei meno capaci. Il vento soffiava violentissimo e il mare era furiosamente agitato. Per tutto il giorno ci mancò l'animo perfino di mangiare e bere; andammo a riposare per tempo con un certo turbamento nell'animo, e durante la notte (come per darci una lezione) il vento girò bruscamente a nord-ovest e si scatenò un uragano. Fummo destati dai tremendi schianti di tuono della tempesta e dal calpestio dei marinai sul ponte; cosicché pensai che fosse giunta la nostra ultima ora; e il terrore che avevo nell'animo era accresciuto oltre misura da Ballantrae il quale si burlava delle mie devozioni. È in momenti come questi che un uomo di qualche sentimento religioso appare nella sua vera luce e che (come ci è stato insegnato da bambini) ci accorgiamo della poca fiducia che si può riporre negli amici terreni; sarei indegno della mia fede se lasciassi passare questo episodio senza farne particolare menzione.
Per tre giorni restammo a giacere nella cabina al buio e non avemmo che una galletta da rosicchiare. Il quarto giorno il vento cadde, lasciando la nave disalberata e sbattuta dagli enormi marosi. Il capitano non aveva la minima idea della direzione in cui eravamo trascinati; non sapeva nulla del suo mestiere e non poteva fare altro che benedire la Santa Vergine, cosa ottima che però non comprende tutta l'arte della navigazione. L'unica nostra speranza era, secondo ogni apparenza, di venire raccolti da un altro naviglio, e se per caso si fosse trattato di una nave inglese, non sarebbe stata una gran fortuna per il Signor di Ballantrae e per me.
Il quinto e il sesto giorno continuammo ad essere sballottati dai flutti. Il settimo giorno riuscimmo a issare un po' di velatura, ma la nave era pesante anche in buone condizioni e non riuscimmo che ad avere un po' di deriva. Veramente avevamo avuto sempre un po' di deriva verso sud e verso ovest, e durante la tempesta dovevamo essere stati trascinati in quella direzione con violenza inaudita. L'alba del nono giorno si levò fredda e cupa, col mare grosso e tutti i segni forieri del maltempo. In quel frangente, fummo felici di avvistare all'orizzonte una piccola nave e di vederla virare di bordo e puntare sul Santa Maria. Ma la nostra letizia fu di breve durata, perché quando la nave ebbe tolto l'abbrivo e fu calata in mare una barca, questa si riempi immediatamente di energumeni che arrancavano verso di noi vociando e cantando e poi si riversarono a sciami sul nostro ponte brandendo coltellacci sguainati e bestemmiando a gran voce. Il loro capo era un orribile ribaldo, con la faccia tinta di nero e con i favoriti tutti a ricciolini; si chiamava Insegna ed era un famigerato pirata. Saltava qua e là per il ponte, pestando i piedi farneticando e strepitando e il suo nome era Satana e quello della sua nave Inferno. C'era in lui qualcosa che mi faceva pensare a un bambino vizioso o a un idiota e che mi intimoriva oltre ogni dire. Bisbigliai all'orecchio di Ballantrae che non sarei stato certo l'ultimo ad arruolarsi e che pregavo Dio che i corsari fossero a corto di braccia; egli approvò la proposta con un cenno del capo.
- Vivaddio, - dissi a mastro Insegna. - Se voi siete Satana, ecco qua un diavolo che fa per voi.
La trovata gli piacque e (senza che mi attardi in particolari rivoltanti), Ballantrae ed io ed altri due fummo presi come reclute, e tutti gli altri furono scaraventati in mare col sistema del salto dalla passerella. Era la prima volta che lo vedevo fare e mi sentii mancare il cuore a quello spettacolo; e mastro Insegna o uno dei suoi accoliti (avevo la testa troppo confusa per poterlo dire con precisione) fece sulla mia faccia pallida, dei commenti molto allarmanti. Trovai la forza di muovere uno o due passi di danza e di gridare qualche ribalderia che, per quella volta, fu la mia salvezza; ma le gambe mi si piegavano sotto quando dovetti scendere nel battellino in mezzo a quel miscredenti e, fra l'orrore che provavo per quella compagnia e la paura degli enormi cavalloni, tutto quello che riuscii a fare fu di tenere in moto la mia lingua di irlandese e di dire un paio di facezie nel mentre ci issavano a bordo.
Per grazia di Dio, sulla nave corsara c'era un violino e io mi ci buttai sopra non appena l'ebbi scorto; e nella mia qualità di menestrello, ebbi l'enorme fortuna di trovar grazia ai loro occhi."Pat, il menestrello " fu il nomignolo che mi fu dato; e poco mi importava del nome, finché potevo aver salva la pelle.
Non posso descrivere che razza di pandemonio fosse quella nave; era comandata da un pazzo e si sarebbe potuta chiamare un manicomio galleggiante. Bere, sbraitare, cantare, litigare, ballare; non erano mai in senno tutti insieme. C'erano giorni in cui se fosse sopraggiunta una burrasca ci avrebbe mandato tutti a fondo; o se fosse capitata da quelle parti una nave del re, ci avrebbe trovati assolutamente incapaci di difenderci. Un paio di volte avvistammo una vela; se eravamo abbastanza in senno la inseguivamo, Dio ci perdoni! e se eravamo tutti troppo ubriachi ci sfuggiva e io, sottovoce, benedicevo i santi.
Insegna governava (se così si può chiamare un governo che non mantiene l'ordine) col terrore che incuteva; e io osservai che era molto vano della sua posizione. Ho conosciuto marescialli di Francia e perfino condottieri scozzesi che erano meno sfacciatamente tronfi; il che getta una luce singolare sulla conquista di onori e gloria. In verità, più si vive e più ci si accorge della saggezza di Aristotile e degli altri filosofi antichi; e, nonostante che per tutta la vita io sia stato avido di meritate onorificenze, ora, alla fine della mia carriera, posso, con la mano sul cuore, dichiarare che non ve n'ha una sola (e neppure la vita stessa) degna di essere acquistata e conservata a prezzo del sacrificio, sia pur minimo, della dignità.
Passò molto tempo prima che riuscissi a parlare a Ballantrae da solo a solo; ma, alla fine, una notte, mentre gli altri. avevano di meglio da fare, strisciammo fuori sul bompresso e il cominciammo a lamentare la nostra situazione.
- Nessuno ci può liberare se non i santi, - dissi io.
- Io la penso in tutt'altro modo, - disse Ballantrae, - e intendo liberarmi da me. Questo Insegna è l'essere più spregevole che esista; non ne ricaviamo alcun profitto e siamo continuamente esposti al pericolo di cattura; e, - aggiunse, - io non intendo di essere un sudicio pirata per niente e nemmeno di finire impiccato, se posso farne a meno.
E mi disse quello che aveva intenzione di fare per migliorare le condizioni della nave in fatto di disciplina, cosa che ci avrebbe dato la sicurezza per il presente e la speranza di una più sollecita liberazione, una volta che i pirati, avendo guadagnato abbastanza, avessero sciolta la compagnia.
Gli confessai candidamente che la mia resistenza era stata totalmente scossa da quell'orribile ambiente e che non osavo neppure dirgli di contare su di me.
- Io non mi spavento tanto facilmente, - mi rispose, - e non mi do facilmente per vinto.
Pochi giorni dopo, avvenne un incidente che per poco non ci fece impiccare tutti quanti e che presenta il quadro più straordinario della follia che regnava nelle cose nostre. Eravamo tutti non poco ubriachi, quando uno di quei mentecatti avvistò una vela, e Insegna, senza neppure voltarsi a dare un'occhiata, fece virare di bordo e cominciare l'inseguimento, e noi in gran trambusto cominciammo a preparare le armi e a menar vanto degli orrori che sarebbero seguiti. Osservai che Ballantrae, ritto a prua, restava calmo e guardava, facendosi schermo della mano; ma io, per conto mio, fedele alla mia politica fra quei selvaggi, ero al lavoro con i più indaffarati e distribuivo facezie irlandesi per divertirli.
- Alzate la bandiera! - gridò Insegna. - Fategli vedere il Jolly Roger a quel...!
Era una pura e semplice rodomontata da ubriacone, a quella distanza, e ci avrebbe potuto far perdere un bottino prezioso; ma mi dissi che non toccava a me ragionare, e di mia mano feci scorrere in alto la bandiera nera.
Un momento dopo, Ballantrae venne bel bello verso poppa con un sorriso sulle labbra.
- Forse vi farà piacere se vi dico, pezzo d'ubriacone, - disse, - che state dando la caccia a una nave del re.
Insegna ruggì che era una menzogna, ma, nello stesso tempo, corse alla murata e così fecero tutti gli altri. Non avevo mai. veduto tanti ubriachi rientrare in senno così bruscamente. L'incrociatore, alla vista della nostra bandiera spudoratamente spiegata al vento, aveva virato di bordo e proprio allora stava riprendendo velocità nella nuova direzione. Si vedeva chiaramente la bandiera che sventolava, e, mentre noi la guardavamo con tanto d'occhi, apparve uno sbuffo di fumo e poi si udì una detonazione e un proiettile cadde in mare a una certa distanza da noi. Qualcuno si precipitò alle manovre e fece virare di bordo la Sara. con una velocità incredibile. Qualcun altro si buttò sul barile del rum che era stato spillato sul ponte e lo fece ruzzolare prontamente in mare. Da parte mia, mi precipitai verso il Jolly Roger, lo tirai giù e lo scaraventai in acqua e quasi quasi mi ci sarei buttato dietro anch'io, tanto ero furente per la nostra stupida azione. Quanto a Insegna, diventò pallido come un morto e incontanente scese nella sua cabina.
Quel pomeriggio, salì sul ponte solo due volte; andò verso il coronamento di poppa, lanciò una lunga occhiata alla nave del re che era ancora all'orizzonte e veleggiava alla nostra volta; e poi, senza parlare, tornò in cabina. Si può dire che ci abbandonasse a noi stessi; e se non fosse stato per un marinaio espertissimo che avevamo a bordo e per le brezze leggere che soffiarono tutto il giorno, saremmo certo finiti tutti quanti in cima al pennone. Bisogna credere che Insegna si sentisse umiliato e magari allarmato per la sua posizione rispetto alla ciurma; e il modo in cui si mise all'opera per riconquistare il terreno perduto fu molto in carattere con l'uomo.
Il giorno seguente per tempo si cominciò a sentir uscire dalla cabina odore di zolfo bruciato al grido di: - Inferno, inferno! - il cui significato, chiaramente inteso dalla ciurma, la riempì di apprensione. Poco dopo apparve sul ponte un vero e proprio pagliaccio, col viso tinto di nero, i capelli e gli scopettoni arricciati, la cintura piena zeppa di pistole; masticava pezzetti di vetro, così che il sangue gli colava sul mento e brandiva una daga. Non so se avesse imparato quell'usanza dagli indiani d'America che era il suo paese d'origine, ma tale era il suo modo di fare, ed era sempre così che annunziava di essere pronto ad azioni orribili. Il primo che gli capitò vicino fu quello che il giorno prima aveva buttato a mare il barile del rum. Insegna lo pugnalò al cuore, maledicendolo e dandogli del ribelle; e poi cominciò a caprioleggiare intorno al cadavere, sbraitando e bestemmiando e sfidandoci a farci avanti. Era l'esibizione più stupida che si potesse immaginare, ma era anche pericolosa, perché era evidente che il vigliacco si stava montando per commettere un altro assassinio. Tutto a un tratto, Ballantrae fece un passo avanti.
- Finiamola con questa commedia; - disse, - credete di metterci paura facendo le boccacce? Non vi siete fatto vedere ieri, quando c'era bisogno di voi; e ce la siamo cavata benissimo lo stesso, lasciate che ve lo dica.
Fra la ciurma ci fu un movimento e un mormorio di piacere e di allarme, credo, in parti quasi uguali. Quanto a Insegna, cacciò un urlo selvaggio e bilanciò in aria la daga per scagliarla: arte, questa, nella quale (come molti marinai) era espertissimo.
- Levategliela di mano! - gridò Ballantrae, così subitamente e con tanta asprezza, che il mio braccio obbedì prima che la mia mente avesse compreso.
Insegna rimase come imbambolato, senza neppur pensare alle sue pistole.
- Andate giù in cabina, - gridò Ballantrae, - e tornate quando vi sarà passata la sbornia. Credete che ci faremo impiccare per voi, brutta faccia sporca, imbecille, ubriacone e macellaio? Andate giù! - E pestò il piede con tale e tanto improvvisa violenza, che Insegna si precipitò verso l'osteriggio.
- E ora, compagni, - disse Ballantrae, - due parole: può darsi che voialtri siate tutti signori con un sacco di soldi e che siate qui per divertimento, ma io no. Io voglio far quattrini e tornare a terra per spenderli da uomo. E ho deciso una cosa: che non finirò impiccato, se ne posso fare a meno. Via, datemi un suggerimento; io non sono che un principiante; non c'è modo di ottenere un po' di disciplina e di buon senso, qua dentro?
Uno degli uomini parlò; disse che, per regola, avrebbero dovuto avere un quartiermastro; e la parola gli era appena uscita di bocca, che furono tutti del suo parere. La cosa si fece per acclamazione, Ballantrae fu eletto quartiermastro, il rum fu dato in consegna a lui, furono approvate leggi a imitazione di quelle di un pirata di nome Roberts e l'ultima proposta fu quella di fare la festa a Insegna. Ma Ballantrae aveva paura di un capitano più efficiente che avrebbe controbilanciato il suo potere e vi si oppose energicamente. Insegna, disse, andava benissimo per abbordare le navi e per spaventare gli scemi con la sua faccia nera e le sue bestemmie; poi, siccome ormai era decaduto e praticamente deposto, si sarebbe potuto ridurre la sua percentuale del bottino. Questo fu l'argomento decisivo; la parte di Insegna fu decurtata fino a divenire derisoria, addirittura inferiore alla mia; e così rimasero da decidere due punti solamente: se Insegna avrebbe acconsentito e chi gli avrebbe annunciato la decisione.
- Niente paura, - disse Ballantrae. - Ci penso io. Si diresse all'osteriggio e scese da solo nella cabina, per affrontare quel selvaggio ubriaco.
- Questo è l'uomo che fa per noi, - gridò uno dei marinai. - Tre evviva per il quartiermastro!
Il che fu fatto con energia, e la mia voce fu tra le più forti; e credo che gli applausi avessero un certo effetto su mastro Insegna, giù in cabina; del resto, abbiamo veduto in tempi recenti come il vociare per le strade possa turbare anche la mente dei legislatori.
Non si seppe mai di preciso quello che si svolse laggiù, sebbene alcuni punti principali venissero a galla in seguito; e fummo tutti stupefatti, non meno che felici, quando Ballantrae tornò sul ponte a braccetto di Insegna e annunciò che questi aveva acconsentito a tutto.
Sorvolo rapidamente su quei dodici o quindici mesi durante i quali continuammo a correre il nord dell'Atlantico, procurandoci vitto e acqua dalle navi che catturavamo, e facendo, nel complesso, affari discreti. Certo, nessuno proverà il desiderio di leggere storie così poco galanti come le memorie di un pirata, sia pure un pirata involontario come me! Le cose andavano infinitamente meglio, con i nostri sistemi; e Ballantrae, da quel giorno in poi, tenne il comando, con mia grande ammirazione. Sarei tentato di credere che un gentiluomo debba essere sempre il primo ovunque, persino a bordo di una nave corsara; senonché, la mia nascita è in tutto e per tutto all'altezza di quella di qualsiasi Lord scozzese, eppure non mi vergogno di confessare che rimasi "Pat il menestrello" fino alla fine, e che non fui mai nulla più che il buffone di bordo.
Veramente, lo scenario non era tale da mettere in valore i miei meriti. La mia salute soffriva per una quantità di ragioni; anzitutto, io mi sono sempre sentito più a mio agio sulla groppa di un cavallo che sul ponte di una nave; e, se devo essere franco, avevo sempre in cuore la paura del mare che lottava con la paura dei miei compagni. Non occorre che gridi il mio coraggio ai quattro venti: mi sono comportato bene su molti campi di battaglia, sotto gli occhi di generali famosi, ed ho meritato la mia ultima promozione con un atto del più distinto valore in presenza di molti testimoni. Ma quando si trattava di procedere a uno dei nostri arrembaggi, il cuore di Francis Burke gli andava a finire in fondo agli stivali; il leggero guscio di noce in cui dovevamo prendere il largo, l'orribile sollevarsi e abbassarsi dei marosi, l'altezza della nave da scalare, il pensiero di quanti uomini potevano esservi di guarnigione pronti alla propria legittima difesa, i cieli foschi che, in quella regione, tanto spesso assistevano accigliati alla nostra impresa, e il vento che mi urlava negli orecchi, erano tutte cose che il mio valore non gradiva affatto.
A parte questo, io sono sempre stato un uomo della più squisita sensibilità e le scene che dovevano per forza seguire ai nostri successi non mi tentavano più delle possibilità di sconfitta.. Due volte trovammo donne a bordo; e nonostante che io abbia veduto città messe a sacco e, in questi ultimi tempi, in Francia, alcune sommosse popolari veramente orrende, pure c'era nell'esiguità del numero dei combattenti e nello sfondo minaccioso e desolato del mare, qualcosa che rendeva quegli atti di pirateria ancora più rivoltanti.
Confesso candidamente che non riuscivo mai a intraprendere l'opera se non ero ubriaco per tre quarti, e lo stesso era anche per la ciurma; lo stesso Insegna non era in grado di affrontare nessuna impresa finché non era pieno di rum fino al collo, e il servirci la giusta quantità di acquavite fu uno dei lati più difficili dell'impresa di Ballantrae. Egli fece anche questo in modo ammirevole, poiché era, tutto considerato, l'uomo più capace che io abbia mai conosciuto e il più dotato di naturale talento. Non mendicava neppure il favore della ciurma, come facevo io con buffonate continue, a dispetto di un cuore in angustie, ma conservava, nella maggior parte dei casi, moltissima solennità e distanza, come un padre in una famiglia di bambini piccoli o un maestro fra i suoi scolari.
Il suo compito era reso più arduo dal fatto che gli uomini erano brontoloni inveterati; la disciplina di Ballantrae, per poca che fosse, riusciva ostica al loro amore di licenza; e, quel che era peggio, siccome egli non permetteva loro di ubriacarsi, avevano tempo per pensare.
Di conseguenza, alcuni di loro cominciarono a pentirsi dei propri abbominevoli delitti; specialmente uno che era un buon cattolico e con il quale, qualche volta, mi appartavo di nascosto a pregare; soprattutto durante il maltempo, le nebbie, la pioggia dirotta e via discorrendo, quando eravamo meno sorvegliati; e sono certo che mai due delinquenti sulla via del patibolo dissero le loro devozioni con tanta e più ansiosa sincerità.
Ma gli altri, non avendo le stesse basi di speranza, si dedicarono a un altro passatempo, quello di fare i conti. Passavano tutta la giornata a calcolare le rispettive parti o a crucciarsi del risultato. Ho detto che avevamo avuto una discreta fortuna; ma qui giunge a proposito un'osservazione, e cioè, che a questo mondo, almeno in nessuno degli affari che ho sperimentato, il profitto è mai all'altezza dell'aspettativa umana. Incontrammo molte navi e molte ne catturammo; ma poche contenevano molto denaro e le loro mercanzie di solito non ci servivano a nulla (che dovevamo farne di un carico di aratri o anche di tabacco?); ed è veramente doloroso pensare a quante ciurme abbiamo fatto fare il salto della passerella soltanto per una provvista di biscotto o per un paio di barili di acquavite.
Intanto la nostra nave cominciava ad essere molto malconcia, ed era ora di rientrare nel nostro bacino di carenaggio che era nell'estuario di un fiume in mezzo alle paludi. Era inteso che allora ci saremmo separati per andare a sperperare le rispettive parti di bottino, fatto che rendeva ciascuno di noi avido di qualcosa di più e quindi la nostra decisione veniva rinviata di giorno in giorno. Quello che alla fine ci decise fu un incidente senza importanza, tale che chi non se ne intende potrebbe supporre normale nel nostro genere di vita.
Ma bisogna eh mi spieghi: di tutte le navi che abbordammo, una sola (la prima a bordo della quale avevamo trovato delle donne) ci oppose una resistenza vera e propria. In quell'occasione, due dei nostri furono uccisi e parecchi altri feriti, e se non fosse stato l'ardire di Ballantrae avremmo finito con l'essere ricacciati di sicuro.
In tutti gli altri casi la difesa (quando c'era) era tale che avrebbe fatto ridere le peggiori truppe d'Europa; cosicché, la parte più rischiosa della nostra azione consisteva nell'arrampicarci su per il fianco della nave; ed è perfino accaduto che i poveri diavoli che erano a bordo ci buttassero una fune, tanto erano ansiosi di arruolarsi invece di fare il salto dalla passerella.
Questa costante immunità aveva infiacchito moltissimo i nostri compari, e questo mi fece capire come mai Insegna avesse, potuto fare tanta impressione nell'animo loro; e veramente, la compagnia di quel mentecatto era il pericolo più grave della nostra esistenza.
L'incidente a cui ho accennato fu questo: avevamo avvistato nella foschia un piccolo bastimento armato a nave, vicinissimo al nostro fianco; veleggiava quasi altrettanto bene (sarei più vicino al vero se dicessi altrettanto male) di noi; e noi preparammo il cannone di prua, per cercare di scaricargli addosso un paio di colpi. Il mare era molto grosso e la nave rullava oltre ogni dire; non c'è da stupire se i nostri cannonieri spararono tre volte senza nemmeno avvicinarsi al bersaglio.
Ma nel frattempo il bastimento protetto dalla densa caligine, aveva approntato un cannone di poppa e, siccome i suoi uomini erano migliori tiratori dei nostri, il loro primo colpo prese in pieno la nostra prua, ridusse i nostri due cannonieri in poltiglia, di modo che fummo tutti spruzzati di sangue e, attraverso il ponte, raggiunse il castello di prua, dove dormivamo. Ballantrae avrebbe voluto tener duro; e veramente, in quel contrattempo non c'era nulla che potesse fare impressione a un soldato; ma egli si rese conto in un batter d'occhio dei desideri dei suoi uomini; era chiaro che quel colpo fortunato li aveva disgustati del mestiere. In un momento, furono tutti di un parere: il bastimento si andava allontanando, era inutile insistere, la Sara era troppo marcia per dare la caccia anche a una bottiglia, era pura pazzia tenere il mare con una nave simile ; e, con queste speciose ragioni, virammo senz'altro di bordo e facemmo vela verso il fiume.
Era strana a vedersi, l'allegria che si impadronì dei componenti l'equipaggio, i quali presero a saltare qua e là sul ponte, celiando e calcolando di quanto le rispettive parti fossero state accresciute con la morte del due cannonieri.
Impiegammo nove giorni a giungere in porto, tanto leggere erano le brezze con cui navigavamo, tanto avariata era la carena della nave; ma il mattino del decimo giorno, prima dell'alba, con una leggera foschia che si andava diradando, doppiammo il capo. Poco dopo la foschia si sollevò e poi ricadde, permettendoci di vedere un incrociatore vicinissimo. Fu un grave colpo per noi, così vicino al nostro rifugio. Ci fu una gran discussione per stabilire se ci avevano veduti e se, in questo caso, avevano riconosciuto la Sara. Avevamo sempre avuto la massima cura, sterminando tutti i membri degli equipaggi catturati, di non lasciare testimoni per quanto si riferiva alle nostre persone; ma non potevamo tenere altrettanto segreta l'esistenza della Sara stessa e, soprattutto negli ultimi tempi, da quando era avariata e avevamo inseguito molte navi senza risultato, era chiaro che la descrizione della Sara doveva essere stata pubblicata spesso. Credevo che quell'allarme ci avrebbe fatto separare all'istante. Ma quell'originale genio di Ballantrae aveva in serbo per me un'altra sorpresa.
Egli ed Insegna (ed era stato quello il punto più notevole del suo successo) erano andati d'amore e d'accordo fin dal primo giorno della nomina di Ballantrae. Lo avevo interrogato spesso a questo proposito e non ne avevo mai avuto risposta tranne una volta; allora mi disse che lui e Insegna avevano un'intesa che avrebbe meravigliato moltissimo la ciurma se ne avesse avuto sentore, e non poco lui stesso, se fosse riuscito a condurla a termine. A farla breve, anche quella volta, egli e Insegna furono dello stesso parere; e grazie alla loro azione concorde, l'ancora non era ancora stata gettata, che tutta la ciurma si lanciò in una indescrivibile scena orgiastica.
Prima del pomeriggio eravamo un branco di mentecatti che buttavano oggetti in mare, urlavano diverse canzoni nello stesso tempo, attaccavano briga e subito dopo dimenticavano le loro questioni per abbracciarsi.
Ballantrae mi aveva avvertito di non bere nulla e di simulare l'ubriachezza se volevo salva la vita, e io non ho mal passato una giornata tanto noiosa, disteso per la maggior parte del tempo, sul castello di prua a guardare le paludi e la boscaglia di cui il nostro piccolo bacino era completamente circondato a perdita d'occhio.
Poco dopo il crepuscolo, Ballantrae mi si avvicinò incespicando, finse di cadere con un riso da ebbro e, prima di rialzarsi, mi sussurrò "di andare giù in cabina traballando e fingere di addormentarmi su di un cofano, perché presto ci sarebbe stato bisogno di me ". Feci quanto mi era stato detto e, entrando nella cabina che era completamente buia, mi lasciai cadere sul primo cofano. C'era già un altro uomo, e dal suo modo di muoversi e di spingermi in là, non mi parve che avesse bevuto molto; però, dopo che mi fui trovato un altro posto, parve che seguitasse a dormire. Il cuore ora mi batteva forte perché vedevo bene che si stava per compiere una mossa disperata.
Poco dopo scese Ballantrae, accese la lampada, si guardò intorno, fece un cenno di compiacimento col capo e tornò sul ponte senza dire una parola. Sbirciando di fra le dita, vidi che eravamo in tre che dormivamo, o fingevamo di dormire, sui cofani; io, un certo Dutton e un certo Grady, uomini risoluti tutti e due. Sul ponte, l'orgia degli altri aveva raggiunto un culmine veramente oltre i limiti dell'umano. Nessun termine sensato può rendere l'idea dei versi che si udivano. Ho udito non pochi schiamazzi di ubriachi ai miei tempi e molti proprio a bordo della Sara, ma mai nulla di neppur lontanamente simile a quelli; il che mi fece ben presto supporre che il liquore fosse stato drogato. Ci volle molto tempo prima che tutti quegli urli e strilli si quetassero in una specie di gemito doloroso e quindi svanissero nel silenzio; e parve che passasse ancora molto tempo prima che Ballantrae tornasse giù, seguito questa volta da Insegna. Quest'ultimo, alla vista di noi tre sui cofani, si lasciò sfuggire un'imprecazione.
Ohibò, - disse Ballantrae, - gli potreste sparare una pistola all'orecchio; sapete bene che razza di roba hanno tracannato.
C'era una botola sul pavimento della cabina, e lì dentro la parte più ricca del bottino era stata immagazzinata in attesa del giorno della divisione. La botola era chiusa da un anello con tre lucchetti, le cui chiavi (per maggior sicurezza) erano divise: una a Insegna, una a Ballantrae e una al secondo, un tale chiamato Hammond. Fui sorpreso nel vederle ora tutte e tre nella stessa mano; e più stupefatto che mai nello scorgere (sempre guardando di fra le dita) Ballantrae e Insegna portar su diversi fagotti, quattro in tutto, legati con molta cura e con un cappio per portarli.
- E ora, - disse Insegna, - andiamocene:
- Un momento, - disse Ballantrae. - Ho scoperto che, oltre a voi, c'è un altro che conosce un sentiero segreto per traversare la palude; e pare che sia più corto del vostro.
Insegna esclamò che, in quel caso, erano rovinati.
- Non mi pare, - rispose Ballantrae, - perché ci sono diverse altre circostanze di cui vi debbo mettere al corrente. Prima di tutto, non ci sono palle nella vostra pistola che (se ben ricordate) ho avuto la compiacenza di caricare per tutti e due stamane. Secondo, siccome c'è qualcun altro che conosce il passaggio, dovete immaginare che è molto poco probabile che io mi sobbarchi un mentecatto come voi. Terzo, questi signori ;che non hanno più bisogno di far finta di dormire) sono dei miei ed ora procederanno a imbavagliarvi e a legarvi all'albero; e quando i vostri uomini si sveglieranno (se mai si sveglieranno, con tutte le droghe che abbiamo mescolato all'acquavite) son certo che saranno tanto cortesi da liberarvi, e voi, credo, non avrete difficoltà a spiegare la faccenda delle chiavi.
Insegna non disse una parola e ci guardò come un bambino spaventato, mentre lo imbavagliavamo e lo legavamo.
- Ora vedete, pezzo di cretino, perché abbiamo fatto quattro pacchi. Finora vi siete chiamato capitan Insegna, ma mi pare che ora siate piuttosto capitan Impara.
Queste furono le nostre ultime parole a bordo della Sara. Noi quattro, con i nostri quattro fagotti, ci calammo pian piano in una barca e ci lasciammo dietro la nave, silenziosa come una tomba, a parte il gemito di qualcuno degli ubriachi. Sull'acqua c'era un nebbione all'altezza della vita, di modo che Dutton che conosceva il passaggio, doveva stare in piedi per pilotare noi che eravamo ai remi; e questo, obbligandoci a remare adagio, fu la nostra salvezza. Eravamo ancora a breve distanza dalla nave, quando il cielo cominciò a farsi grigio e gli uccelli a volare sull'acqua. Tutta un tratto, Dutton si accovacciò e ci bisbigliò di star zitti se ci tenevamo alla pelle e di stare in ascolto: Ed ecco che udimmo un debole cigolio di remi da una parte e poi ancora, un po' più lontano, un cigolio di remi dall'altra parte. Era chiaro che eravamo stati avvistati il mattino precedente; ecco le lance dell'incrociatore venute a tagliarci la strada; eccoci proprio in mezzo a loro, senza possibilità di scampo. Certo, mai poveri diavoli si trovarono in posizione più precaria; e, mentre stavamo lì buttati sui remi, pregando Dio che la caligine durasse, il sudore mi gocciolava giù dalla fronte. Un momento dopo, udimmo una delle scialuppe a così breve distanza che avremmo potuto buttarci dentro una galletta. - Piano, ragazzi, udimmo bisbigliare un ufficiale; e io mi stupii "che quelli non udissero il martellare del mio cuore."
- Lasciamo perdere il sentiero, - disse Ballantrae, - dobbiamo trovare un rifugio in ogni modo; voghiamo sempre dritto verso le sponde del bacino.
Così facemmo, con ansiosa precauzione, remando a tentoni e governando alla ventura nella nebbia che era, ciò malgrado, la nostra unica protezione. Ma il cielo ci guidò; toccammo terra vicino a un folto d'alberi; ci arrampicammo sulla riva con i nostri tesori e, non avendo altro mezzo per nasconderla e poiché la nebbia cominciava già a diradarsi, rovesciammo la barca e la lasciammo andare a fondo. Eravamo appena giunti al coperto, quando sorse il sole e, nello stesso momento, dal centro del bacino si levò un gran vocio di marinai e capimmo che la Sara veniva abbordata. Seppi in seguito che l'ufficiale che la prese ebbe grandi onori; è vero che l'azione fu ben diretta, ma credo che, una volta a bordo, la cattura sia stata facile.
Ancora benedicevo i santi per averla scampata, quando mi accorsi che ci trovavamo in guai d'altro genere. Avevamo approdato a caso in una vasta e pericolosa palude e raggiungere il sentiero era impresa dubbia, ardua e rischiosa. Dutton, veramente, era del parere di aspettare finché la nave se ne fosse andata e poi di ripescare la barca, perché l'attesa sarebbe stata più saggia che l'addentrarsi alla cieca in quel pantano. Perciò, uno di noi tornò fino alla sponda del bacino e, sbirciando di fra la boscaglia, vide che la nebbia si era già tutta dileguata e che la bandiera inglese sventolava sulla Sara; ma non si osservava alcun segno di partenza. La nostra situazione, ora, era molto incerta. La palude era un luogo malsano per indugiarvi; nella nostra avidità di portar via il tesoro, avevamo preso ben poche vettovaglie; inoltre, era nostro vivo desiderio uscire da quei paraggi e raggiungere gli accampamenti prima che si spargesse la voce della cattura; e, di contro a queste considerazioni, c'era solo il rischio del passaggio all'altra sponda. Non mi pare che ci sia da meravigliarsi se decidemmo di passare all'azioneNota di Mackellar: Questo Insegna della Sara non va confuso con il celebre Barbanera; le date e i fatti non corrispondono assolutamente. E' possibile che il secondo Insegna abbia preso a prestito il nome e nello stesso tempo imitato dal primo gli eccessi della sua condotta. Perfino il Signore di Ballantrae riuscì a trovare ammiratori.
Faceva già un caldo feroce quando ci mettemmo in cammino per attraversare la palude, o meglio per rintracciare il sentiero con l'aiuto della bussola. Dutton prese la bussola, e l'uno o l'altro di noi portava la sua parte del tesoro. Vi garantisco che teneva d'occhio la sua retroguardia, perché era come se ci avesse affidato l'anima. La boscaglia era intricata come un cespuglio; il terreno era cedevole: spesso affondavamo in modo terrificante, ed eravamo costretti a fare dei giri; Il caldo, inoltre, era opprimente, l'aria pesantissima e gli insetti che ci pungevano erano tali miriadi che ognuno di noi camminava come dentro una nuvola. E' stato spesso commentato il fatto che i gentiluomini sopportino le fatiche assai meglio della plebaglia, cosicché gli ufficiali di fanteria, costretti a marciare nel fango al fianco dei loro uomini, li fanno sfigurare con la loro costanza. La stessa cosa si poté notare benissimo nel caso nostro; c'erano da un lato due gentiluomini del più alto rango, Ballantrae ed io; e dall'altro, Grady, un marinaio qualunque che, per di più, sembrava un gigante per la sua forza fisica. Il caso di Dutton non é in discussione, perché confesso che egli si comportò bene quanto noi. Ma Grady cominciò ben presto a lamentare la sua sorte, a restare indietro, quando venne il suo turno rifiutò di portare il fagotto di Dutton, reclamava continuamente il rum (e ne avevamo troppo poco), e giunse perfino a minacciarci, con la pistola spianata alle spalle, perché gli permettessimo di riposarsi. Credo che Ballantrae sarebbe venuto alla mani per farla finita, ma io riuscii a convincerlo nell'altro senso; ci fermammo e consumammo un pasto. Parve che Grady non ne risentisse gran giovamento; riprese a restare indietro, brontolando e gemendo sul suo destino e, alla fine, non avendo, forse per sbadataggine, seguito, come avrebbe dovuto, la nostra traccia, inciampò e cadde in un punto dove lo stagno era profondo e molto acquoso, cacciò degli urli spaventosi e, prima che potessimo recargli soccorso, sprofondò e scomparve con tutto il suo bottino. Il suo fato e soprattutto quelle sue strida ci riempirono l'animo di orrore; però, nel complesso fu una circostanza fortunata e una via di salvezza per noi, perché indusse Dutton a salire su di un albero di dove riuscì a vedere e a mostrare a me che mi ero arrampicato dietro di lui, un alto palo che era stato messo lì per indicare il sentiero. Questo fece sì che Dutton proseguisse con minor cautela, immagino; poiché, poco dopo, lo vedemmo affondare un po', tirar su i piedi e affondare un'altra volta e un'altra volta ancora. Allora volse verso di noi un viso bianchissimo.
- Datemi una mano, - disse, - sono in un brutto punto.
- Non mi pare, - rispose Ballantrae senza muoversi.
Dutton scoppiò in violentissime bestemmie e intanto affondò ancora un poco; ormai il fango gli giungeva alla vita; sfilandosi una pistola dalla cintura, gridò: - Aiutatemi, o morite dannati!
- Via, - disse Ballantrae, - ho scherzato, ora vengo. E mise giù il suo fagotto e anche quello di Dutton che egli portava in quel momento.
- Non ti avventurare oltre. finché non avremo bisogno di te, - mi disse e si inoltrò da solo verso il punto in cui si trovava l'uomo impantanato. Questi stava fermo, ora, pur tenendo sempre in mano la pistola, e i segni del terrore sul suo volto facevano pena a vedere.
- Per l'amor di Dio, - disse, - state bene attento.
Ormai Ballantrae gli era arrivato proprio accanto.
- Sta fermo, - disse, e parve riflettere; e poi: - Alza tutt'e due le mani!
Dutton posò la pistola e il terreno era talmente acquitrinoso alla superficie che quella scomparve immediatamente; con una bestemmia, Dutton si abbassò per afferrarla; e, nel mentre faceva questo, Ballantrae si chinò in avanti e lo pugnalò fra le spalle. Le braccia di Dutton scattarono al disopra del capo, non so se per il dolore o per proteggersi; e, un istante dopo, l'uomo si ripiegava su se stesso nel fango.
Ballantrae era già nel pantano fin sopra le caviglie; ma se ne tirò fuori e tornò verso di me che stavo li con le ginocchia che sbattevano l'un contro l'altro.
- Il diavolo ti porti, Francis! - disse. - Tutto sommato, credo che tu sia un pusillanime. Ho soltanto,fatto giustizia di un pirata. Ed eccoci qua, completamente liberi della Sara! E ora chi potrà dire che ci siamo insudiciati le mani con qualche irregolarità?
Gli assicurai che mi faceva torto; ma il mio senso di umanità era talmente scosso dalla mostruosità di quell'azione, che riuscii a stento a trovare il fiato per rispondergli.
- Andiamo, - disse Ballantrae, - devi essere più risoluto. Costui ha cessato di esserci necessario dal momento che ti ha fatto vedere dove passava il sentiero; e tu non puoi negare che sarei stato un babbeo se mi fossi lasciato sfuggire una così bella occasione.
Non potei negare che avesse ragione, come principio; nondimeno, non potei trattenere le lagrime, cosa di cui, credo, nessun valoroso si è dovuto vergognare; e non fu se non dopo aver bevuto un sorso di rum, che fui in grado di proseguire. Ripeto che ero lungi dal provare vergogna della mia generosa emozione; la misericordia è un sentimento che fa onore al guerriero; eppure non posso del tutto biasimare Ballantrae per la sua mossa veramente felice, poiché scoprimmo il sentiero senza altre disavventure e la sera stessa verso 1l calar del sole giungemmo al limitare dell'acquitrino. Eravamo troppo sfiniti per andare in cerca d'altro; ci sdraiammo sulla sabbia asciutta ancora calda dal sole, vicino a una pineta e sprofondammo immediatamente nel sonno.
Il mattino seguente ci destammo prestissimo e di umor nero, e cominciammo una conversazione che per poco non finì a botte. Ci trovavamo allora gettati a riva nelle regioni meridionali, a migliaia di miglia da qualsiasi accampamento. francese; avevamo di fronte la prospettiva di un viaggio spaventoso e mille pericoli, e certo, se mai ci fu bisogno di buon accordo, era proprio in un momento simile. Debbo credere che Ballantrae avesse smarrito il senso della vera cortesia, e l'idea non deve sembrare strana se si pensa ai lupi di mare con i quali aveva fatto vita in comune per tanto tempo; per quanto mi riguarda, cominciò a provocarmi in modo talmente scortese, che qualunque gentiluomo se ne sarebbe risentito. Gli dissi quello che pensavo del suo modo di agire; egli si allontanò un poco ed io lo seguii per rimproverarlo; finalmente egli mi arrestò con la mano.
- Frank, - mi disse, - sai bene quello che abbiamo giurato; eppure non è ancora stato inventato il giuramento che mi potrebbe indurre a mandargli certe espressioni, se non avessi per te un affetto sincero. E impossibile che tu ne dubiti; te ne ho dato le prove. Dutton lo dovevo prendere meco perché conosceva il passaggio, e Grady perché Dutton non si voleva muovere senza di lui; ma che ragione avevo di portarmi dietro anche te? sei un eterno pericolo per me, con quella maledetta lingua irlandese. A esser giusti, a quest'ora dovresti essere ai ferri sull'incrociatore. E ti metti a litigare con me come un bambino per quattro cianfrusaglie!
Considero questo come uno dei discorsi più scortesi che siano mai stati fatti, e veramente, ancora oggi, stento a conciliarlo con il concetto che ho del gentiluomo mio amico. Replicai rinfacciandogli il suo accento scozzese che in lui non era forte come in certuni, ma tuttavia abbastanza marcato per essere assolutamente barbaro e disgustoso, come gli dissi chiaro è tondo; e la faccenda sarebbe andata avanti per un pezzo, se non fosse sopraggiunto un fatto allarmante. Ci eravamo un po' allontanati sulla distesa di sabbia. Il luogo dove avevamo dormito, con i nostri fagotti aperti e il denaro sparpagliato all'intorno, rimaneva fra noi e la pineta; ed è di fra gli alberi che doveva essere uscito lo straniero. Comunque fosse, c'era lì un tipo di villano grande e grosso, con un'ascia sulle spalle, il quale guardava a bocca aperta, ora il tesoro che era proprio ai suoi piedi, ora la nostra disputa, in cui eravamo accalorati al segno da metter mano alle spade.
Non appena vide che ci eravamo accorti di lui, quello se la dette a gambe e scomparve di nuovo fra i pini. La scena non era tranquillizzante per noi: due uomini armati in vesti da marinai, sorpresi a questionare accanto a un tesoro, a non molte miglia dal luogo in cui era stato catturato un pirata... ce n'era abbastanza per metterci tutto il paese alle calcagna. Non facemmo neppure la pace; la disputa venne completamente cancellata dalla nostra mente; rifacemmo i nostri fagotti in un batter d'occhio e ce la svignammo correndo a più non posso. Ma il guaio era che non conoscevamo la direzione ed eravamo continuamente costretti a ritornare sui nostri passi. Ballantrae aveva, sì, raccolto da Dutton tutte le informazioni che aveva potuto, ma è difficile viaggiare a orecchio, e l'estuario che si diramava in un vasto porto irregolare ci arrestava da ogni parte con sempre nuove distese d'acqua.
Eravamo quasi fuori di noi e già completamente esausti per il gran correre, quando, giungendo in vetta a una duna, ci vedemmo tagliare la strada un'altra volta da un'altra ramificazione della baia. Questa, però, era una insenatura diversissima da quelle che ci avevano arrestato prima, perché si addentrava tra gli scogli a picco, e l'acqua era così profonda che un piccolo naviglio aveva potuto attraccare lungo la riva, ormeggiandosi con una gomena; e la ciurma aveva gettato una passerella di assi fra, il naviglio e la spiaggia. Lì avevano acceso un fuoco e stavano consumando il pasto. Il naviglio era uno di quelli che vengono costruiti alle Bermuda.
L'amore dell'oro e il grande odio che tutti hanno per i pirati sarebbero stati certamente ottimi moventi per scatenare tutto il paese al nostro inseguimento. Inoltre era chiaro ormai che ci trovavamo su di una specie di penisola frastagliata come le dita di una mano il cui polso, cioè il passaggio alla terraferma che avremmo dovuto seguire fin dal principio, probabilmente a quell'ora era già sorvegliato. Queste considerazioni ci fecero prendere una decisione più audace. Finché ci bastò l'animo, ci fermammo tra i cespugli al sommo della duna, aspettandoci da un momento all'altro di adire rumor di inseguimento; poi, ripreso un po' di fiato e ricomposto il nostro aspetto, prendemmo a scendere bel bello e con aria di grande indifferenza verso la comitiva accanto al fuoco. Si trattava di un naviglio mercantile con i suoi negri proveniente da Albany, in provincia di New York, che tornava in patria dalle Indie con un carico; non riesco a ricordarne il nome. Fummo sbalorditi nell'apprendere che si era rifugiato lì per paura della Sara, poiché non sospettavamo che le nostre gesta fossero tanto note. Non appena l'uomo di Albany sentì che la Sara era stata catturata il giorno prima, balzò in piedi, ci dette una coppa di acquavite per la buona novella e mandò i suoi negri a spiegare le vele della nave. Da parte nostra, approfittammo del bicchierino per prendere confidenza e finimmo con l'offrirci come passeggeri. Il capitano guardò di traverso i nostri vestiti sporchi di catrame e le nostre pistole, e rispose, abbastanza gentilmente, che aveva posto appena per sé; e non riuscirono a smuoverlo né le nostre preghiere, né le nostre offerte di denaro, che pure furono piuttosto alte.
- Capisco, voi pensate male di noi, - disse Ballantrae. - Ma io vi mostrerò la buona opinione che abbiamo di voi dicendovi la verità. Siamo giacobiti fuggiaschi e c'è una taglia sulla nostra testa.
A queste parole, evidentemente, l'uomo di Albany si commosse un po'. Ci rivolse molte domande sulla guerra di Scozia, e Ballantrae rispose molto pazientemente a tutte. E poi, strizzando l'occhio, il capitano disse, con fare volgare: - Mi par di capire che voi e il vostro principe ne avete toccate più di quel che avreste voluto.
- Proprio cosa, vivaddio, - risposi, - e magari, voi, caro il mio uomo, per dare il buon esempio, ci deste soltanto quel che vorremmo.
Dissi queste parole con quel piglio irlandese che (è da tutti concesso) ha in sé un non so che di molto avvincente. E' cosa degna di nota ed è una prova dell'amore che ispira il nostro paese il fatto che, in un bel giovane, un tal modo di fare non manchi quasi mai l'effetto desiderato. Non saprei neppur dire quante volte ho veduto un soldato scampare alla frusta o un mendicante buscare una buona elemosina, soltanto con un tocco dell'accento natio, E difatti, non appena l'uomo di Albany ebbe riso, cominciai a sentirmi abbastanza tranquillo. Nondimeno, egli impose molte condizioni, e (tanto per dirne una) ci tolse le armi prima di farci salire a bordo; ma quello fu il segnale di salpare e, un momento dopo, scivolavamo per la baia con una buona brezza, benedicendo il nome di Dio per la nostra salvezza. Vicini allo sbocco dell'estuario passammo accanto all'incrociatore e, poco dopo, alla povera Sara con la sua ciurma catturata e furono due spettacoli che ci fecero tremare. Ora che richiamavamo alla memoria il fato dei nostri compagni, il battello bermudese ci sembrava un posto sicurissimo e il nostro audace colpo un colpo fortunatissimo. Eppure non avevamo fatto che cambiare di trappola, eravamo caduti dalla padella nella brace, eravamo scampati al pennone per correre al ceppo, ed eravamo sfuggiti alla ostilità aperta della nave da guerra per trovarci alla mercé della dubbia fede del nostro mercante di Albany.
Per un complesso di circostanze, si dette il caso che fossimo più al sicuro di quanto avremmo osato sperare. La città di Albany, a quell'epoca, trafficava molto di contrabbando attraverso il deserto, con gli indiani e con i francesi Questo genere di occupazione che era estremamente illegale, aveva rilassato il senso morale degli abitanti e, mettendoli a contatto con il popolo più raffinato della terra, aveva finito col dividere anche le loro simpatie. Insomma erano, come tutti i contrabbandieri del mondo, spie e agenti bell'e pronti, sia per l'uno che per l'altro partito. Oltre a questo, il nostro uomo era una persona molto per bene e molto avido di guadagno; e, per coronare la nostra buona ventura, aveva preso un gran gusto alla nostra compagnia. Prima di arrivare alla città di New York, avevamo raggiunto un accordo completo; egli ci avrebbe portato con la nave fino ad Albany e da lì ci avrebbe mostrato come passare il confine e raggiungere 1 francesi. Per tutto ciò bisognava pagare un alto prezzo; ma o prendere o lasciare, e dei fuorilegge non possono permettersi il lusso di tirare sul prezzo.
Risalimmo quindi Il fiume Hudson che, affè mia, è un bellissimo fiume, e prendemmo alloggio allo Stemma del Re, ad Albany. La città era piena della milizia volontaria della provincia che da ogni poro esalava strage e morte per i francesi. C'era il governatore Clinton in persona; era un uomo molto indaffarato e, a quanto mi fu detto, pressoché ridotto alla disperazione dalla faziosità dell'assemblea. Gli indiani, da ambo le parti, erano sul sentiero di guerra; vedemmo entrare in città alcuni drappelli con prigionieri e, quel che era peggio, scalpi, sia d'uomo che di donna, per cui ricevevano un prezzo stabilito; e vi assicuro che lo spettacolo non era incoraggiante. Nel complesso, difficilmente avremmo potuto arrivare in un momento più inopportuno per i nostri piani; la nostra situazione nella locanda principale era spaventosamente in vista; il nostro uomo di Albany. si prendeva gioco di noi con mille rinvii e pareva lì lì per venir meno al suo impegno; pericoli e null'altro che pericoli parevano circondare i poveri fuggiaschi; e, per un po' di tempo, affogammo le nostre ansie in un sistema di vita molto irregolare.
Anche questa fu una mossa fortunata; e qui giunge a proposito un'osservazione riguardo alla nostra fuga, e cioè, che i nostri passi furono guidati dalla Provvidenza, dal principio alla fine. Quale umiliazione per la dignità umana! La mia filosofia, lo straordinario talento di Ballantrae, il nostro valore (in cui, concedo, eravamo pari), tutto ciò si sarebbe rivelato insufficiente se la benedizione divina non fosse scesa sui nostri sforzi. E come è vero che, come la Chiesa ci insegna, le verità della religione si possono, in fondo applicare anche agli avvenimenti di ogni giorno! Per lo meno, fu durante uno dei nostri baccanali che facemmo conoscenza con un giovane ardimentoso chiamato Chew. Era uno del più audaci mercanti indiani e conosceva benissimo i sentieri segreti del deserto; era bisognoso e dissoluto e, finalmente, per buona ventura, piuttosto in disaccordo conla famiglia. Lo convincemmo a venirci in soccorso; egli provvide di nascosto tutto ciò che bisognava alla nostra fuga e un bel giorno sgusciammo fuori di Albany, senza una parola al nostro amico di una volta e ci imbarcammo un po' più a monte, 1n una canoa.
Per rendere un'idea precisa delle pene e dei rischi di quel viaggio ci vorrebbe una penna più raffinata della mia. Il lettore dovrà figurarsi da solo il pauroso deserto che dovevamo attraversare, le boscaglie e le paludi, i dirupi e i fiumi impetuosi e le stupefacenti cascate. In mezzo a quel barbaro scenario dovevamo trascinarci per tutta la giornata, ora lavorando di pagaia, ora portando la canoa sulle spalle; e la notte dormivamo accanto al fuoco, fra gli urli dei lupi e di altre bestie feroci. Era nostra intenzione risalire fino alle sorgenti dello Hudson, nei paraggi di Crown Point, dove i francesi avevano un forte tra le foreste, sul lago Champlain. Ma andarci direttamente sarebbe stato troppo pericoloso, e di conseguenza seguivamo un tale labirinto di fiumi, laghi e passaggi che il solo ricordo mi dà le vertigini. In tempi normali, quei sentieri erano assolutamente deserti; ma ora il paese era insorto, le tribù sul sentiero di guerra e i boschi pieni di pattuglie di indiani. Più e più volte ci imbattemmo in distaccamenti, sempre quando meno ce lo aspettavamo; e non dimenticherò mai come un gioirno, sul far dell'alba, ci trovassimo circondati all'improvviso da cinque o sei di quei diavoli dipinti che brandivano le accette emettendo una specie di grido veramente sinistro. Non accadde nulla di male, come, del resto in nessuno degli altri incontri, perché Chew era ben conosciuto e molto stimato dalle varie tribù. Era veramente un giovane valorosissimo e degno di rispetto; però, nonostante il vantaggio della sua compagnia, non bisogna credere che quegli incontri fossero privi di pericolo. Per dare agli indiani una prova di amicizia, era necessario attingere alla nostra scorta. di rum (a dire il vero, la vera professione del mercante indiano, qualunque ne sia il travestimento, consiste nel gestire un'osteria ambulante nella foresta) e, una volta che i valorosi guerrieri avevano ottenuto la loro bottiglia di "scaura" (come essi chiamano quell'infernale liquore) ci conveniva riprendere la marcia e lavorar di pagaia per mettere in salvo le nostre cotenne. Non appena erano un po' brilli, addio giudizio e addio convenienze; non avevano più che un solo pensiero in mente: procurarsi altra "scaura". Avrebbe potuto benissimo saltar loro in testa di darci la caccia e, se ci avessero raggiunti, non avrei mai potuto scrivere queste memorie.
Eravamo arrivati alla parte più critica del nostro itinerario, quando, cioè, ci si poteva aspettare di cadere tanto nelle mani del francesi, quanto in quelle degli inglesi, allorché fummo colpiti da una terribile calamità. Chew si ammalò improvvisamente con sintomi di avvelenamento e nel corso di poche ore spirò in fondo alla canoa. Perdemmo così nello stesso istante la guida, l'interprete, il pilota e il passaporto, perché Chew era stato per noi tutte queste cose insieme; e ci trovammo ridotti di colpo alla disperazione più nera A dire il vero, Chew, che era molto fiero delle sue cognizioni, ci aveva impartito spesso delle lezioni di geografia, e credo che Ballantrae lo avesse ascoltato; ma io, per parte mia, ho sempre trovato certe informazioni oltremodo noiose; e oltre al fatto che ci trovavamo allora nel paese degli indiani Adirondack e non tanto lontano dalla nostra destinazione, se solo fossimo riusciti a trovare la via, la mia ignoranza era completa. Risultò ben presto che la mia linea di condotta era stata la più saggia, perché, nonostante tutti i suoi sforzi, Ballantrae non ne sapeva più di me. Sapeva che dovevamo seguitare a risalire una corrente, poi, per , un passaggio a piedi, ridiscenderne un'altra e poi risalirne una terza. Ma bisogna pensare quante erano, in quel paese montuoso, le correnti che scendevano scrosciando da tutte le parti. E come poteva un gentiluomo, assolutamente nuovo in quella parte del mondo, distinguerle l'una dall'altra? E questo non era l'unico guaio. Eravamo anche completamente novellini nell'arte di manovrare la canoa; i passaggi a piedi erano quasi superiori alle nostre forze, e ricordo che, a volte, ci sedevamo a terra, presi dalla disperazione, senza dire una parola, per delle mezz'ore. L'apparizione anche di un solo indiano, ora che non avevamo più il modo di parlargli, avrebbe, con ogni probabilità, significato la nostra fine. Tutto compreso, c'era qualche ragione se Ballantrae mostrava sintomi di umor cupo; la sua abitudine di dare la colpa ad altri, in tutto e per tutto capaci quanto lui, era meno sopportabile e non sempre era facile accettare il suo linguaggio. Infatti, a bordo della nave corsara aveva preso un modo di fare veramente insolito fra gentiluomini; e ora che si sarebbe potuto dire in uno stato febbrile, quest'abitudine era aumentata smisuratamente.
Il terzo giorno di quel nostro vagare, mentre la trasportavamo su per un passaggio roccioso, la canoa cadde e si spaccò da cima a fondo. Il passaggio era fra due laghi, tutti e' due piuttosto grandi; il sentiero (se sentiero si può chiamare) cominciava e finiva sull'acqua; e ai due lati era chiuso da boschi impenetrabili; le sponde del lago erano rese assolutamente impraticabili dai pantani, per cui ci vedemmo condannati, non solo a rinunziare alla canoa e alla maggior parte delle nostre provviste, ma anche a tuffarci senz'altro nella macchia impenetrabile e ad abbandonare quello che ancora ci serviva un po' di guida, vale a dire il corso del fiume. Ciascuno di noi si infilò le pistole nella cintura, si mise sulle spalle un'accetta, fece un fagotto del suo tesoro e di tutto il cibo che poteva portare; e, abbandonando tutti gli altri beni, perfino le spade che ci sarebbero state di molto intralcio nella foresta, partimmo per quella deplorevole avventura. Le fatiche di Ercole, tanto magistralmente descritte da Omero, sono una bazzecola in confronto a quel che toccò a noi. Alcune parti della foresta erano assolutamente compatte da cima a fondo, di modo che eravamo costretti ad aprirci un varco come topi nel cacio. In altri punti, il terreno era pieno di profondi pantani e tutto il bosco completamente marcito. Ricordo di essere saltato su di un grosso ceppo abbattuto e di essere sprofondato fino al ginocchio nel legno cariato; di aver cercato di sorreggermi, nel cadere, a quello che mi pareva un solido tronco e che al mio contatto crollò in un soffio, come un foglio di carta. Inciampando, cadendo, impantanandoci fino al ginocchio, aprendoci il passaggio a colpi di scure, con i rami e i fuscelli che ci cavavano gli occhi e ci strappavano le vesti di dosso, arrancammo tutto il giorno, e non è certo che riuscissimo a fare due miglia. Il peggio si era che, riuscendo di rado a vedere la configurazione del paese e trovandoci eternamente ricacciati dal sentiero dagli ostacoli, ci era impossibile avere anche un'idea approssimativa della direzione seguita.
Poco prima del calar del sole, in una radura traversata da un corso d'acqua e limitata tutto all'ingiro da monti selvaggi, Ballantrae scaraventò a terra il suo fagotto. - Non vado più avanti, - disse; e quindi mi ingiunse di accendere il fuoco, mandandomi a quel paese con espressioni poco parlamentari.
Gli dissi che cercasse di dimenticare di essere stato un pirata e di ricordarsi che una volta era stato un gentiluomo.
- Sei matto? - mi gridò. - Non mi contraddire! - e poi, mostrando il pugno alle montagne - Pensare, - gridò - che devo lasciare le ossa in questo miserabile deserto! -Fosse piaciuto a Dio che fossi morto da gentiluomo sul patibolo! - Declamò queste parole come un attore e poi si buttò a sedere mordendosi le dita e guardando fisso a terra; rappresentando un vero oggetto d'orrore per occhi cristiani.
Provai una certa repulsione per quell'uomo, perché mi pareva che chi è soldato e gentiluomo dovrebbe andare incontro alla fine con maggior filosofia. Perciò non gli detti risposta, a parole; e, poco dopo, la sera scese tanto rigida, che fui lieto di accendere il fuoco, per me, se non altro. Eppure sa Iddio che un atto simile, in un punto così scoperto e in una regione che pullulava di selvaggi, era poco meno che una pazzia. Ballantrae pareva non badarmi affatto; ma alla fine, mentre io facevo abbrustolire un po' di grano, alzò gli occhi.
- Hai per caso un fratello? - chiese.
- Per grazia di Dio, - risposi - non meno di cinque.
- Io ne ho uno. - rispose Ballantrae con voce strana; e un momento dopo: - Me la pagherà, - aggiunse. E quando gli domandai che parte avesse suo fratello nelle nostre tribolazioni: - Come! - gridò, - se ne sta seduto al mio posto, porta il mio nome, fa la corte a mia moglie e io sono qui solo con un maledetto irlandese a battere i denti nel deserto! Oh, sono stato un vero allocco!
Questo scatto era in tutto e per tutto talmente estraneo al carattere del mio amico, che sentii cadere perfino il mio legittimo risentimento. E' naturale che un'espressione offensiva, per pungente che sia, appaia cosa di importanza minima in un simile frangente; ma, a questo punto, debbo far notare una cosa strana. Prima di allora, Ballantrae aveva accennato una volta sola alla dama alla quale era promesso. Questo avvenne allorché fummo in vista della città di New York; allora egli mi disse che se ognuno avesse avuto ciò che gli spettava, egli si sarebbe trovato allora in vista dei propri possedimenti, perché Miss Graeme aveva una vasta proprietà in quella provincia. In quell'occasione il suo accenno era stato naturale; ma ora Miss Graeme veniva nominata per la seconda volta e, cosa indubbiamente degna di nota, proprio in quel mese di novembre 1747 e credo, proprio in quello stesso giorno, nel momento in cui noi eravamo seduti fra quei monti selvaggi, suo fratello e Miss Graeme si univano In matrimonio. Io sono l'uomo meno superstizioso del mondo, ma in. questo caso l'intervento divino è tanto chiaro, che non può passare inosservato.
Il giorno dopo e il giorno dopo ancora passarono in altre fatiche del genere; spesso Ballantrae decideva la via da seguire prillando una moneta, e una volta che. io protestai per quella puerilità, egli mi rispose con una singolare osservazione che non ho mai dimenticato:
- Non conosco modo migliore, - mi disse, - di esprimere il mio disprezzo per la ragione umana.
Mi pare che fosse il terzo giorno, che trovammo il corpo di un cristiano, immerso in una pozza di sangue, scotennato e maciullato in modo abbominevole; gli uccelli del deserto gli stridevano intorno, fitti come mosche. Mi è impossibile descrivere lo spaventoso effetto che quella vista ebbe su di noi; a me tolse ogni forza e ogni speranza terrena; quello stesso giorno, poco più tardi, stavamo tentando di attraversare una parte della foresta che era stata bruciata, quando Ballantrae che camminava un po' avanti a me, si accovacciò all'improvviso dietro un tronco caduto. Lo raggiunsi in quel riparo di dove potevamo guardarci intorno senza esser veduti; e in fondo alla prossima valle scorgemmo un folto stuolo di guerrieri selvaggi che passavano, tagliandoci la via. Potevano essere della forza di un piccolo battaglione, all'incirca; erano tutti a torso nudo, dipinti di nero con fuliggine e grassi e col bianco di piombo e col vermiglio, secondo le loro barbare usanze. Camminavano uno dietro l'altro come una fila di oche, a un buon trotto, per cui ci misero poco a passare e a sparire un'altra volta nel bosco. Eppure, credo che in quel pochi minuti soffrimmo più tormenti di incertezza e di esitazione che in una vita intera. Erano indiani inglesi o francesi, cercavano scalpi o prigionieri, dovevamo tentar la sorte e scoprirci o star zitti e riprendere la nostra marcia straziante? Erano tutti quesiti che avrebbero lasciato perplesso lo stesso Aristotile. Ballantrae si rivolse a me col viso contratto e coi denti scoperti, come chi (secondo quanto ho letto nei libri) sta per morire di inedia; non disse una parola, ma tutto il suo aspetto era una sola, tremenda domanda.
- Potrebbero essere della parte inglese, - bisbigliai, - e allora, pensa! il meglio che ci si potrebbe aspettare sarebbe di ricominciare tutto da capo.
- Lo so, lo so, - rispose, - ma dovremo pur finire col fare il salto.
E, a un tratto, tirò fuori la sua moneta, la scosse fra le mani, la guardò e poi si distese col viso nella polvere.

Aggiunta di Mackeltar: A questo punto abbandono il racconto del cavaliere, perché i due litigarono e si separarono quello stesso giorno; e confesso che la versione che il cavaliere dà della disputa mi sembra assolutamente incompatibile con il carattere sia dell'uno che dell'altro. Da allora in poi, ognuno errò da solo, soffrendo pene straordinarie, finché, prima l'uno e poi l'altro, furono raccolti da una pattuglia del forte Saint Frederick Due cose sole sono degne di nota. La prima (e la più importante ai fini che mi propongo) è che il Signore di Ballantrae, nel corso delle sue tribolazioni, seppellì il suo tesoro in un punto che non fu mai più scoperto, ma di cui disegnò col sangue una pianta nella fodera del cappello. La seconda è che al suo arrivo al forte, senza un centesimo in tasca, fu accolto come un fratello dal cavaliere che gli pagò il viaggio da lì alla Francia. Il candore del signor Burke, lo induce, a questo punto, a fare le lodi sperticate del Signore di Ballantrae; a un occhio più scaltrito sembrerebbe che il cavaliere soltanto sia stato degno di encomio. Provo tanto maggior piacere nell'additare questa veramente nobile caratteristica del mio stimato corrispondente, in quanto temo di averlo ferito poco fa. Mi sono astenuto dal commentare -qualsivoglia delle sue straordinarie (e ai miei occhi, immorali) opinioni, perché lo so geloso dell'altrui rispetto. Ma la sua versione della disputa è veramente più di quanto io possa riferire, ,poiché anch'io ho conosciuto il Signore di Ballantrae e so che non si può concepire un uomo più incapace di paura. Mi spiace di questa svista del cavaliere, tanto più che il tenore della sua narrazione (a parte qualche abbellimento) mi ha colpito per la sua grande schiettezza.



CAPITOLO QUARTO


PERSECUZIONI SOFFERTE DA ENRICO

Facile indovinare su quale parte delle sue avventure il colonnello si soffermasse di preferenza. Veramente, se fossimo stati messi al corrente di tutto, c'è da credere che il corso di questa storia sarebbe stata completamente diverso; ma la faccenda della nave corsara fu sfiorata con mano leggerissima. Io, poi, non udii fino in fondo neppure quello che il colonnello era disposto a svelare, perché Enrico, che. per qualche tempo era stato immerso in una profonda meditazione, alla fine si alzò dal suo posto e, rammentando al colonnello che doveva occuparsi di un certo affare, mi ordinò di seguirlo all'istante nello studio.
Una volta lì, non tentò più di dissimulare il suo affanno e cominciò a passeggiare su e giù per la stanza col viso contratto, passandosi ripetutamente la mano sulla fronte.
- Ci sono certi affari... - prese a dire finalmente; ma qui si interruppe, dichiarò che ci voleva un po' di vino e mandò a prendere una bottiglia del migliore. La cosa era assolutamente estranea alle sue abitudini e (ciò che lo era ancor di più), quando il vino fu arrivato, cominciò a tracannarne un bicchiere dopo l'altro, da uomo che non si cura per nulla delle apparenze. Ma il vino gli ridette la calma.
- Non vi sorprenderà, Mackellar, - disse, - se vi dirò che mio fratello... (della cui salvezza ci rallegriamo tutti) ha un certo bisogno di denaro.
Gli risposi che ne avevo avuto il sospetto; ma il momento non era molto felice, perché il denaro liquido era scarso.
- Il mio no, - rispose Enrico: - c'è il denaro per l'ipoteca.
Gli rammentai che era della signora.
- Ne risponderò io di fronte a mia moglie, - esclamò con violenza.
- E poi, - proseguii, - c'è l'ipoteca.
- Lo so, - ribatté, è proprio per questo che vi volevo consultare.
Gli spiegai quanto il momento fosse infelice per sottrarre quel denaro alla sua destinazione e come, così facendo, avremmo per forza perduto il profitto di tutte le nostre economie passate e avremmo risprofondato la proprietà nel caos. Mi presi perfino la libertà di supplicarlo, e quando vidi che seguitava a negare scuotendo il capo e sorridendo d'un sorriso amaro e caparbio, il mio zelo mi trascinò al di là del mio dovere.
- Questa è pazzia bella e buona, - esclamai, - e io. per conto mio, non ci voglio entrare.
- Parlate come se lo facessi per il gusto di farlo, - disse Enrico. - Ma io, ora, ho figli e, inoltre, amo l'ordine; e, per dire proprio la verità, cominciavo ad essere fiero della tenuta.
Tacque un momento, assorto e accigliato.
- Ma che volete? - proseguì. - Nulla è mio, nulla. La notizia di oggi ha stroncato la mia vita. Io ho soltanto il nome e l'ombra delle cose... soltanto l'ombra. Non c'è sostanza nei miei diritti.
- Ce ne sarebbe abbastanza per un tribunale, - risposi. Enrico mi guardò con occhi ardenti e parve reprimere le parole sulle labbra: e io mi rammaricai di quello che avevo detto, perché capii che, mentre parlava della proprietà, Enrico pensava ancora al suo matrimonio. E poi, all'improvviso, cavò bruscamente di tasca la lettera tutta spiegazzata, la distese con violenza sulla tavola e mi lesse queste parole con labbra tremanti: . Caro Giacobbe, ecco come incomincia! - esclamò: - ."Caro Giacobbe, forse ti ricorderai che una volta ti ho chiamato così; ora ci sei riuscito e mi hai mandato a gambe all'aria"... Che ve ne pare, Mackellar, da parte dell'unico fratello? Innanzi a Dio, dichiaro di avergli sempre voluto bene; gli sono sempre stato fedele; ed ecco quello che scrive! Ma io non me ne starò qui seduto a farmi accusare; - (passeggiando su e giù) - io valgo quanto lui, anzi, sono migliore di lui e ne chiamo Dio a testimonio! Non gli posso dare le somme mostruose che chiede; lo sa che la proprietà non è all'altezza; ma gli darò tutto quello che ho, ed è più di quel che si aspetta. Ho sopportato tutto troppo a lungo. Sentite quello che scrive più avanti: ."So che tu sei un pitocco ". Un pitocco! Io, pitocco! E' vero questo, Mackellar? Lo credete, voi? - A questo punto credetti veramente che fosse lì lì per picchiarmi.
- Oh, lo credete tutti! Ebbene, vedrete e anche lui vedrà e anche Dio vedrà. Dovessi mandare in rovina la proprietà e andare in giro scalzo, ingozzerò questa sanguisuga fino, al collo. Chieda tutto... tutto, e lo avrà! !E' tutto suo di diritto. Ah! - esclamò, - io avevo previsto tutto questo e anche di peggio, quando non mi volle lasciar andare.
Si versò un altro bicchier di vino e stava per portarlo alle labbra, quando io mi feci tanto ardito da posargli un dito sul braccio. Egli si fermò un momento.
- Avete ragione, - disse, - e scagliò il vino, con tutto il bicchiere, nel caminetto. - Venite, contiamo il denaro.
Non osai più contraddirlo; veramente, ero molto turbato dallo spettacolo di tanta agitazione in un uomo di solito così equilibrato. Ci sedemmo insieme, contammo il denaro e ne facemmo dei pacchi, per maggior comodità del colonnello Burke che doveva portarlo. Ciò fatto, Enrico tornò in sala, dove egli e il vecchio Lord, passarono tutta la notte con il loro ospite.
Un po' prima dell'alba fui chiamato e uscii con il colonnello. Non avrebbe gradito una scorta meno importante, perché era un uomo che aveva buona opinione di sé; e noi non potevamo offrirgliene una più dignitosa, perché Enrico non si doveva far vedere con i contrabbandieri. Era un rigidissimo mattino di vento e nell'andar giù per il boschetto il colonnello si teneva avviluppato nel mantello.
- Signore, - dissi, - è una somma ragguardevole, quella richiesta dal vostro amico. Dobbiamo credere che le sue necessità siano grandissime.
- Dobbiamo crederlo, - rispose, mi parve seccamente; ma forse era perché aveva il mantello davanti alla bocca.
- Io non sono che un servitore della famiglia, - dissi. - Potete essere schietto con me. Credo che non ci dobbiamo aspettare nulla di buono da lui, vero?
- Caro il mio uomo, - disse il colonnello, Ballantrae è un gentiluomo di eminentissime capacità naturali e una persona di cui ammiro e venero perfino il suolo su cui posa il piede.
E qui fece una pausa, come uno che si trovi in imbarazzo.
- Ma, nonostante tutto, non ci dobbiamo aspettar nulla di buono da lui? - insistei.
- Proprio così e prendetela pure come vi pare e piace, caro il mio uomo, - rispose il colonnello.
Nel frattempo eravamo giunti alla sponda della baia, dove la barca lo aspettava.
- Bene, - disse, - vi sono proprio molto obbligato per la vostra cortesia, signor Come-vi-chiamate; e, proprio come ultima parola e visto che avete fatto mostra di tanta intelligente sollecitudine, vi voglio accennare a una piccola circostanza che può essere utile alla famiglia, giacché credo che il mio amico abbia omesso di far menzione del fatto che egli ha la più alta pensione del Fondo Scozzese fra tutti i profughi di Parigi; e questo, signore, è tanto più vergognoso, - esclamò il colonnello, riscaldandosi, - in quanto che per me non c'è neanche uno sporco centesimo.
Si mandò il cappello di traverso, guardandomi come se fossi stato io il colpevole di tanta parzialità; poi, con un ritorno alla sua solita cortesia gradassa, mi strinse la mano e si avviò verso la barca con il denaro sotto Un braccio, fischiettando, mentre si allontanava, il patetico motivo di Shule Aroon. Era la prima volta che udivo quell'aria; avrei dovuto riudirla, parole e musica, come si verrà a sapere più oltre; ma ricordo come quella strofetta continuasse a girarmi per il capo, dopo che i contrabbandieri gli ebbero ingiunto: - Zitto, porco diavolo! - e il cigolio dei remi ne ebbe preso il posto, mentre io stavo lì in piedi e guardavo l'alba che spuntava sul mare e la barca che si allontanava e il due alberi che l'aspettava con la vela di trinchetto spiegata ai vento.
La voragine aperta nel nostro capitale era una grave preoccupazione, e fra le altre conseguenze, ebbe questa: che io dovetti montare a cavallo e andare a Edimburgo a fare un nuovo debito, a condizioni molto discutibili, per mantenere a galla il debito vecchio, e così rimasi assente dalla casa di Durrisdeer per quasi tre settimane.
Ciò che avvenne nell'intervallo nessuno me lo disse, ma al mio ritorno trovai un gran mutamento nel contegno della signora. I colloqui di una volta con Milord erano stati in gran parte sospesi; era visibile in lei un atteggiamento quasi di scusa verso il marito al quale mi parve che rivolgesse la parola più spesso; e, fra l'altro, ora sembrava tutta assorta in Miss Caterina. Si potrebbe credere che il cambiamento tornasse gradito a Enrico; niente affatto! Al contrario, ogni più lieve alterazione era una pugnalata per lui che vi leggeva la confessione delle capricciose fantasie di lei. La costanza per il Signore di Ballantrae, di cui ella era stata fiera fintanto che lo aveva creduto morto, doveva farla arrossire ora che lo sapeva vivo, ed era questo rossore l'odiata origine della sua nuova condotta. Non sono qui per nascondere la verità, e dirò quindi esplicitamente che, secondo me, fu quello il periodo in cui Enrico mostrò il suo lato peggiore. In pubblico, veramente, si dominava; ma sotto la superficie traspariva una collera sorda. Con me (con cui aveva meno ragione di fingere) era spesso grossolanamente ingiusto, e talvolta aveva una replica aspra perfino per la moglie forse perché questa lo aveva urtato con qualche attenzione insolita, o fors'anche senza una causa evidente; forse era semplicemente uno sfogo spontaneo del suo abituale stato di irritazione. Quando si lasciava andare a quel modo (cosa tanto stranamente in disaccordo con i loro rapporti abituali), una scossa attraversava tutti i presenti e i coniugi si guardavano l'un l'altro con una specie di doloroso stupore. E, nel mentre egli faceva tanto male a se stesso con questa sua intolleranza, danneggiava nello stesso tempo la sua posizione con un silenzio che non saprei se definire frutto di generosità o di orgoglio. I contrabbandieri vennero più e più volte a recare messaggi del Signore di Ballantrae e nessuno ripartì mai a mani vuote. Io non osavo mai ragionare con Enrico, il quale dava ciò che gli veniva chiesto, con una specie di nobile rabbia. Forse proprio perché sapeva di essere per natura incline alla parsimonia, provava uno speciale segreto piacere nel soddisfare le esigenze del fratello con tanta prodigalità. Forse, anche un uomo più umile di lui, trovandosi in una posizione così falsa, si sarebbe sentito spronare agli stessi eccessi. Ma la proprietà gemeva (se così posso dire) sotto lo sforzo; le nostre spese quotidiane vennero ridotte giorno per giorno; le stalle, a parte quattro cavalli da carrozza, erano vuote; furono licenziati dei servitori, il che dette origine a gravi mormorazioni per il contado e ridestò l'antico rancore verso Enrico; e, alla fine, bisognò rinunziare al viaggio di tutti gli anni a Edimburgo.
Questo avvenne nel 1756. Bisogna pensare che per sette anni quel vampiro aveva succhiato il sangue e la vita di Durrisdeer, e che per tutto quel tempo il mio padrone aveva taciuto. Per effetto della sua diabolica malignità, il Signore di Ballantrae si rivolgeva soltanto a Enrico quando si trattava delle sue esigenze, senza farne mai parola a Milord. La famiglia aveva assistito con stupore alle nostre economie. Avevano tutti (non ne dubito) deplorato il fatto che il mio padrone fosse diventato un avaro simile; vizio spregevole sempre, ma addirittura abbominevole in un giovane, ed Enrico non aveva ancora trent'anni. Però aveva sempre amministrato Durrisdeer, fin quasi da ragazzo ed essi sopportarono tutti quei cambiamenti in un silenzio non meno fiero e amaro dei suo, finché non si venne alla pietra di paragone del viaggio a Edimburgo.
A quel tempo, credo che il mio padrone e sua moglie si trovassero raramente insieme, se non ai pasti. Immediatamente dopo l'annuncio del colonnello Burke, la signora aveva fatto evidenti tentativi di ravvicinamento: si potrebbe dire che avesse cominciato a fare una specie di timida corte al marito, diversa davvero dal suo primo modo di fare distaccato e indifferente. Non ebbi mai cuore di biasimare Enrico perché si ritraeva di fronte a quegli approcci, ma neppure di disapprovare la moglie quando si sentiva punta sul vivo dalle sue ripulse. Ma il risultato fu un allontanamento completo, tanto che, come ho detto, i due si parlavano di rado, tranne che durante i pasti. Anche la faccenda del viaggio a Edimburgo fu ventilata per la prima volta a tavola e, per caso, quel giorno la signora era sofferente e di cattivo umore. Non appena ebbe afferrato il senso delle parole del marito, il sangue le affluì al viso.
- Insomma, - esclamò, - questo è troppo! Sa il cielo quanti piaceri ci sono nella mia vita, perché mi venga negata quest'unica consolazione. Queste vergognose tendenze devono esser soffocate; siamo già lo scandalo
e lo zimbello del vicinato. Non intendo sopportare questa nuova pazzia.
- Non posso permettermi questa spesa, - disse Enrico.
- Non ti puoi permettere! - gridò la signora. - Vergognati! Ma io ho del denaro mio.
- E' diventato tutto mio, signora, col matrimonio, - ringhiò Enrico e lasciò senz'altro la stanza.
Il vecchio Lord alzò le braccio al cielo e poi egli e la figlia si ritirarono nell'angolo del camino, facendomi chiaramente intendere che me ne dovevo andare. Trovai Enrico nel suo solito rifugio, la stanza dei conti; era appollaiato sull'angolo della tavola e vi cacciava dentro il temperino,. con una gran brutta faccia.
- Signor Enrico, - dissi, - voi fate troppi torti a voi stesso ed è ora di finirla.
- Oh, - esclamò Enrico, - qui non importa nulla a nessuno. A loro sembra naturale. Io ho tendenze vergognose; io sono un pitocco.
E cacciò il temperino nella tavola fino al manico.
- Ma voglio far vedere a quel tipo, - gridò con una bestemmia, - gli voglio far vedere chi dei due è il più generoso.
- Questa non è generosità, - risposi, - questo non è altro che orgoglio.
- Credete che abbia bisogno della predica? - mi chiese.
Credevo che avesse bisogno di aiuto e decisi che glielo avrei dato, volente o nolente; e, non appena la signora fu andata in camera sua, mi presentai alla porta e chiesi di esser ricevuto.
Ella mostrò apertamente il suo stupore:
- Cosa volete da me, signor Mackellar? - domandò.
- Sa Iddio, signora, - risposi, - se prima d'ora mi sono mai preso la libertà di disturbarvi; ma questa è una cosa che mi pesa troppo sulla coscienza e che deve uscir fuori. È possibile che ci siano due persone tanto cieche quanto voi e Milord? È possibile che abbiate vissuto tutti questi anni con un gentiluomo della nobiltà del signor Enrico e che comprendiate così poCo il suo carattere?
- Che vuol dir questo? - esclamò la signora.
- Non sapete dove va a finire il suo denaro? Il suo e il vostro e perfino il denaro del vino che non beve a tavola? - seguitai. - A Parigi! da quell'uomo! ottomila sterline ha avuto da noi in sette anni e il mio padrone è stato tanto sciocco da serbare il segreto!
- Ottomila sterline! - ripeté la signora. - È impossibile; la proprietà non è all'altezza.
- Sa Iddio se le abbiamo sudate centesimo per centesimo, - risposi. - Ma ottomila e sessanta sterline sono il totale, più i rotti. E se dopo di questo potete ancora credere che il padrone sia un avaro, questa sarà la mia ultima intromissione.
- Non occorre che diciate altro, Mackellar, - disse la signora. - Avete agito benissimo con quella che troppo modestamente chiamate la vostra intromissione. Merito molti rimproveri; dovete pensare che sono una moglie molto negligente; - (e mi guardò con uno strano sorriso), - ma metterò subito le cose a posto. Il Signore di Ballantrae ha sempre avuto un carattere molto spensierato, ma ha un cuor d'oro, è la generosità in persona. Gli scriverò io stessa. Non potete immaginare quanta pena mi abbiate fatto con questa comunicazione.
- Veramente, signora, avevo sperato di farvi piacere, - replicai, - perché mi faceva rabbia vedere che continuava a pensare al Signore di Ballantrae.
- E anche piacere, - disse la signora, - anche piacere, si capisce.
Quello stesso giorno (non dirò che non stessi all'erta), ebbi la soddisfazione di vedere Enrico uscire dalla camera della moglie in uno stato diversissimo dal suo solito; aveva il viso tutto gonfio di lacrime, eppure mi parve che fosse al settimo cielo. Da questo ebbi la certezza che la moglie aveva fatto ammenda di tutto, una volta tanto. " Ah ", dissi fra me, " ho fatto un buon colpo oggi".
Il giorno seguente, mentre sedevo davanti ai miei libri. Enrico venne pian piano dietro di me, mi prese per le spalle e mi dette uno scrollone con aria giocosa:
- Ho scoperto che siete un tipo infido, ho tutto compreso, - disse, e questo fu il suo unico accenno alla mia azione; ma il suo tono ebbe per me più significato di qualsiasi eloquente protesta. Ma non fu qui quello che ottenni, perché il primo messaggero del Signore di Ballantrae (che giunse non molto tempo dopo) non riporta via che una lettera. Per il passato avevo trattato io quest'affare; Enrico non accostava mai la penna alla carta e io facevo uso solo dei termini più asciutti e formali. Ma quest'ultima lettera non la vidi neppure; il suo contenuto non doveva essere piacevole, perché Enrico sentiva una volta tanto di essere spalleggiato dalla moglie; e il giorno che la lettera partì, notai che il viso di Enrico aveva un'espressione molto felice.
Ora le cose andavano meglio in casa, sebbene non si potesse sostenere che andassero bene. Ma, almeno, non c'erano malintesi, c'era cortesia da parte di tutti e credo che il padrone e la moglie avrebbero potuto ravvicinarsi, se fosse riuscito a lui di rinfoderare il suo orgoglio e a lei di dimenticare quello che era la causa di tutto, cioè i suoi pensieri per un altro uomo. È stupefacente come un pensiero segreto possa trapelare; è stupefacente per me ancora oggi come tutti- noi potessimo seguire il corso dei suoi sentimenti, e come, nonostante che ella fosse sempre calma e avesse un carattere molto eguale, ci accorgessimo di tutte le volte che la sua fantasia correva a Parigi. Chi non avrebbe pensato che la mia rivelazione avrebbe rovesciato quell'idolo? Credo proprio che le donne abbiano il diavolo in corpo; erano passati tutti quegli anni, non aveva
più veduto quell'uomo, aveva ben pochi ricordi della sua bontà (a quanto mi consta), anche quando egli era suo; poi era sopraggiunta la voce della sua morte, la sua rapacità spietata era stata messa a nudo; e tutto ciò non bastava; doveva ancora serbare il miglior posto nel suo cuore per quell'essere maledetto. Era una cosa da mettere fuori della grazia di Dio un uomo semplice. Per natura, non ho mai avuto molta simpatia per le passioni amorose; ma l'irragionevolezza della moglie del mio padrone me la fece prendere addirittura in avversione. Mi ricordo di avere rimbrottato una cameriera perché cantava non so che sciocchezza da ragazzini, mentre la mia mente era occupata in pensieri simili; e la mia asprezza mi procurò l'inimicizia di tutte le gonnelle della casa; il che mi turbava pochissimo, ma divertiva Enrico il quale mi canzonava molto per la nostra comune impopolarità. È piuttosto strano, perché mia madre era certo di coloro che sono il sale della terra e mia zia Dickson che pagò la mia retta all'Università era una donna eminentissima; eppure, non ho mai avuto molta tolleranza per il sesso femminile e, forse, non molta comprensione; e, essendo uomo tutt'altro che ardito, ne ho sempre evitato la compagnia. Non solo non vedo ragione alcuna per rammaricarmi di questa mia diffidenza, ma ho invariabilmente osservato che le più infelici conseguenze ricadono su coloro che sono meno saggi di me. Tanto ho creduto opportuno di annotare qui per non correre il rischio di essere ingiusto verso la signora. Del resto, l'osservazione mi si presentò spontaneamente, nel rileggere la lettera che rappresentò il passo seguente in quest'affare e che, con mia sincera meraviglia, mi giunse per via segreta, una settimana circa dopo la partenza dell'ultimo messaggero.
Lettera dei colonnello (più tardi cavaliere) Burke al signor Mackellar Troyes in Champagne, 12 luglio 1756.

Caro signore,
Sarete indubbiamente sorpreso nel ricevere questa comunicazione da parte di una persona che conoscete così poco; ma quando ebbi la ventura di incontrarVi a Durrisdeer, notai che eravate un giovane di carattere serio e posato, qualità per cui professo ammirazione e reverenza, subito dopo il natural talento e lo spirito ardimentoso e cavalleresco del soldato. Io mi interessavo, inoltre, alla nobile famiglia che avete l'onore di servire o meglio (per parlare con maggiore esattezza) di cui siete l'umile e rispettato amico; e una conversazione che ebbi il piacere di scambiare con Voi un mattino assai per tempo è rimasta molto impressa nella mia memoria.
Trovandomi l'altro giorno a Parigi, in visita da questa famosa città dove sono di guarnigione; colsi l'occasione per informarmi del Vostro nome (che, dichiaro, avevo dimenticato) presso il mio amico, il Signore di Ballantrae, ed essendosi presentata l'occasione favorevole, Vi scrivo per metterVi al corrente di quello che c'è di nuovo.
Il Signore di Ballantrae, l'ultima volta che parlammo di lui, riceveva, come credo di avervi detto, allora, una pensione molto forte dal Fondo Scozzese. In seguito, gli fu dato il comando di una compagnia e, poco dopo, fu promosso ed ebbe un reggimento proprio. Caro signore, non tento di spiegare questo fatto; come non tento di spiegare il perché io stesso, che ho cavalcato alla destra di principi, sia stato liquidato con un paio di galloni e mandato a marcire in un buco in fondo a una provincia. Avvezzo come sono alle corti, non posso non sentire che quella non è aria per un semplice soldato; e non avrei mai potuto sperare di avanzare con mezzi simili, anche se mi fossi potuto abbassare a tentarlo. Ma il nostro amico ha una speciale attitudine a riuscire per mezzo delle dame; e, se tutto ciò che ho udito dire è vero, godeva di una notevole protezione. E' probabile che questa si sia rivolta a suo danno, poiché, quando ebbi l'onore di stringergli la mano, era stato da poco rilasciato dalla Bastiglia, dove era stato gettato da una lettera sigillata; e ora, sebbene in libertà, ha perduto sia i1 reggimento che la pensione. Caro signore, la lealtà di un rude irlandese finirà col riuscire in luogo dell'astuzia, e sono certo che un gentiluomo della vostra probità sarà del mio parere. Ora, signore, il Signore di Ballantrae è un uomo il cui genio io ammiro oltre ogni dire e, inoltre, è mio amico; ma ho pensato che una parolina circa il rivolgimento della sua fortuna non sarebbe giunta a sproposito, poiché, a mio parere, l'uomo è in condizioni disperate. Parlava, quando lo vidi, di un viaggetto nelle Indie (dove ho io stesso qualche speranza di accompagnare il mio illustre compatriota, il signor Lally), ma questo richiederebbe (come mi pare di aver capito) più denaro di quanto egli non abbia a sua immediata disposizione. Forse conoscerete un buon proverbio militare: a nemico che fugge ponti d'oro? Confido che vorrete afferrare li senso di queste parole e mi sottoscrivo, col dovuto rispetto a Milord Durrisdeer, a suo figlio e alla leggiadra signora Durie, caro signore,
Vostro obbedientissimo e umilissimo servo,
Francis Burke

Recai subito questa missiva a Enrico, e credo che tutti e due avessimo un unico pensiero: e cioè, che era arrivata una settimana troppo tardi. Mi affrettai a mandare una risposta al colonnello Burke, in cui lo pregavo, nel caso che avesse veduto il Signore di Ballantrae, di assicurargli che il suo prossimo messaggero sarebbe stato ascoltato. Ma, nonostante tutta la mia fretta, non giunsi in tempo a stornare la minaccia incombente; il dardo era stato scoccato e doveva volare al segno. Starei quasi per dubitare del potere (e certamente del volere) divino di frenare il corso degli eventi; ed è strano pensare per quanto tempo ognuno di noi era andato accumulando gli elementi della catastrofe, nella più cieca ignoranza di quello che faceva.
Dopo l'arrivo della lettera del colonnello, tenni un cannocchiale in camera mia e cominciai a interrogare i fittavoli; e siccome non c'era una gran segretezza e il contrabbando, dalle nostre parti, si svolgeva con la forza non meno che con l'astuzia, imparai ben presto i segnali d'uso e sapevo con una discreta approssimazione quando c'era da aspettarsi un messaggero. Come ho detto, interrogavo i fittavoli, perché non riuscii mai ad adattarmi di buon grado ad avere a che fare con i mercanti stessi, gente violenta che di solito andava in giro armata. Difatti, per quello che si rivelò in seguito un caso disgraziato, io ero oggetto di scherno per alcuni di quegli spaccamonti; i quali mi avevano onorato di un nomignolo, non solo, ma una sera che mi avevano colto per un viottolo fuori mano e che erano tutti (come avrebbero detto loro) un po' allegri, mi avevano fatto ballare per loro sollazzo. Il metodo crudele da loro usato era quello di punzecchiarmi i piedi con i coltellacci sguainati, vociando nello stesso tempo: " Piedi dolci, piedi dolci"; e, sebbene non mi avessero arrecato danni materiali, ne ero rimasto nondimeno impressionato in modo deplorevole e difatti ero stato costretto a letto per parecchi giorni. Per lo Stato scozzese questo è uno scandalo che non richiede commenti.
Fu nel pomeriggio del 7 di novembre di quello stesso anno disgraziato che, durante la mia passeggiata, scorsi il fumo di un falò sul Muckleross. Per me era quasi l'ora del ritorno; ma quel giorno la mia inquietudine era tale che sentii il bisogno di uscire dalla boscaglia e di affacciarmi sul ciglio di quella che è chiamata la Craig Head. Il sole era già tramontato, ma ad occidente c'era ancora una larga striscia di luce che mi permise di vedere sulla Ross i contrabbandieri che calpestavano il fuoco per spegnerlo e, nella baia, il due alberi fermo con le vele chiuse. Era chiaro che aveva dato fondo appena allora, eppure il battellino era già stato messo in mare e si- dirigeva verso l'approdo che era in fondo al boschetto. E io sapevo che questo non poteva significare che una cosa: l'arrivo di un messaggero per Durrisdeer. Misi da parte ogni altro timore, ruzzolai giù per il costone (un punto dove non mi ero- mai avventurato prima) e arrivai a nascondermi tra i ciuffi d'alberi lungo la spiaggia, in tempo per vedere approdare la barca. Cosa insolita, il capitano Crail in persona era al timone; e al suo fianco era seduto un passeggero; gli uomini vogavano a fatica perché erano impediti da una mezza dozzina di sacche da viaggio, fra grandi e piccole. Ma la faccenda dello sbarco fu condotta a termine alla svelta e, un momento dopo, tutto il bagaglio veniva fatto ruzzolare a terra, la barca era di nuovo in viaggio di ritorno alla volta del due alberi e il passeggero (un gentiluomo alto e snello, vestito di nero) era in piedi sulla punta di scoglio, con la spada al fianco e la canna da passeggio al polso. Sempre ritto in piedi, fece con la canna un cenno di saluto al -capitano Crail; e c'era in quell'atto un non so che fra l'aggraziato e il canzonatorio che me lo impresse profondamente nell'animo.
Non appena la barca con i miei. nemici giurati ebbe ripreso il largo, mi feci un po' di coraggio; avanzai in sul limitare della boscaglia e lì mi fermai un'altra volta con l'animo grandemente combattuto fra la natural diffidenza e un cupo presentimento della realtà. A dire la verità, sarei rimasto lì indeciso tutta la notte, se lo straniero non si fosse voltato e scorgendomi fra le brume che cominciavano a scendere non mi avesse fatto un cenno, gridandomi di avvicinarmi. Obbedii col cuore che mi pesava come il piombo.
- Qua, buon uomo, - disse, con accento inglese, - qui c'è roba per Durrisdeer.
Mi ero avvicinato abbastanza per vederlo bene; aveva una bellissima figura e un bel viso, bruno, magro, allungato, con un'espressione vivace, pronta e imperiosa, come di chi è avvezzo a combattere e a comandare; aveva su di una guancia un neo che non gli stava male; al dito gli brillava un grosso diamante; I suoi abiti, sebbene di tinta unita, erano di taglio francese e ricercato; I polsini che egli portava più lunghi del normale, erano di merletto finissimo; mi stupii nel vederlo in quella guisa, tanto più che era appena sbarcato da un sudicio naviglio di contrabbandieri. Nello stesso tempo egli mi guardò meglio, mi squadrò attentamente una seconda volta e poi sorrise.
- Scommetto, amico mio, - disse, - che conosco il vostro nome e anche il vostro soprannome. Avevo indovinato finanche questi abiti dalla vostra calligrafia, signor Mackellar.
A queste parole cominciai a tremare.
- Oh, - soggiunse lo straniero, - non c'è da aver. paura di me. Non vi serbo rancore per le vostre noiosissime lettere e anzi ho l'intenzione di servirmi molto di voi. Mi potete chiamare signor Bally; è il nome che ho assunto, o piuttosto (giacché mi rivolgo a un uomo di tale e tanta precisione) è così che ho abbreviato il mio. Andiamo, ora, prendete questo e quello, - (e indicò due delle sacche); - è tutto quanto sarete capace di portare, e il resto può benissimo attendere. Su, non perdiamo tempo, per favore.
Il tono era così tagliente che io mi ingegnai di fare quanto mi veniva ordinato, quasi istintivamente, ma con la mente completamente smarrita. Non appena ebbi sollevato le sacche, egli mi volse le spalle e si incamminò pér il boschetto dove già era scesa la penombra perché è un bosco di sempreverdi ed è folto. Io lo seguivo, schiacciato dal peso, sebbene non avessi neppure coscienza del fardello, sopraffatto com'ero dalla mostruosa realtà di quel ritorno; e la mia mente andava e veniva vorticosamente, come la spola del tessitore.
Ad un tratto posai a terra le sacche e mi fermai. Egli si volse e mi guardò.
- Ebbene? - chiese.
- Siete il Signore di Ballantrae?
- Spero che vorrete rendermi la giustizia di riconoscere, - mi rispose, - che non ho fatto misteri con l'astuto Mackellar.
- In nome di Dio, - esclamai, - che cosa- vi conduce qui? Tornate indietro, finché siete ancora in tempo.
- Vi ringrazio, - rispose l'altro. - Il vostro padrone ha scelto questa strada e non io; ma, dal momento che ha fatto questa scelta, tanto lui quanto voi dovete accettarne il risultato. E ora raccogliete quella roba che avete posato in un punto molto fangoso e badate a ciò che io -vi indico come i fatti vostri.
Ma io non pensavo neppur lontanamente a obbedire; gli andai vicino dritto dritto.
- Se nulla vi può indurre a tornare indietro, - dissi, - nonostante che, senza dubbio, in circostanze simili, qualsiasi cristiano e anzi qualsiasi gentiluomo si farebbe scrupolo di andare avanti...
- Queste sono espressioni lusinghiere, - interruppe.
- Se nulla vi può indurre a tornare indietro, - continuai, - bisogna pur rispettare certe convenienze. Aspettate qui col vostro bagaglio e io andrò avanti a preparare la vostra famiglia. Vostro padre é un uomo anziano e... - qui mi impappinai, - ci sono certe convenienze che vanno rispettate.
- Davvero, - rispose l'altro, - questo Mackellar più lo conosco e più mi piace. Ma sta a sentire, galantuomo, e mettitelo bene in mente, una volta per sempre; con me, tu sprechi il fiato e io vado per la mia strada con moto irresistibile.
- Ah, - dissi, - è così? e allora vedremo!
Mi voltai e me la detti a gambe alla volta di Durrisdeer. Egli tentò di afferrarmi ed ebbe un'esclamazione di collera, e poi credo di averlo udito ridere e poi sono certo che mi inseguì per uno o due passi e poi (immagino) desistette. Una cosa almeno è sicura, e cioè che io giunsi soltanto pochi minuti dopo alla porta della grande casa, ansimante e quasi senza fiato, ma completamente solo. Corsi dritto su per le scale e feci irruzione in sala e mi fermai dinanzi alla famiglia, senza riuscire a parlare; ma la notizia mi si doveva leggere in viso, perché tutti si levarono in piedi e mi fissarono come spiritati.
- E' arrivato, - ansimai alla fine.
- Lui? - esclamò Enrico.
- Proprio lui, - risposi.
- Mio figlio? - gridò Milord. - Imprudente! ragazzo imprudente! oh, perché non è rimasto al sicuro!
La signora non disse una parola; e io non la guardai, non so perché.
- Bene, - disse Enrico, traendo un profondo respiro, - e dov'è?
- L'ho lasciato giù nel boschetto, - risposi.
- Conducetemi da lui, - disse Enrico.
E così uscimmo insieme, lui ed io, senza aggiungere una parola e, nel mezzo dello spiazzo di ghiaia incontrammo il Signore di Ballantrae che veniva avanti bel bello, fischiettando e sferzando l'aria con la canna da passeggio.
In alto c'era ancora abbastanza luce per riconoscere un viso, se non per distinguerne l'espressione.
- Ah, Giacobbe, - disse il Signore di Ballantrae. - E così, è tornato Esaù.
- Giacomo, - rispose Enrico, - per l'amor di Dio, chiamami col mio nome. Non fingerò di essere contento di vederti, ma vorrei poterti dare il benvenuto nella casa dei nostri padri.
- O in casa mia? o nella tua? - chiese il fratello. - Che cosa stavi per dire? Ma questo è un punto delicato ed è meglio non toccarlo. Se non hai voluto darmi la mia parte mentre ero a Parigi, spero che non vorrai negare al tuo fratello maggiore il canto del focolare a Durrisdeer?
- Questi sono discorsi del tutto inutili, - rispose Enrico, - e tu ti rendi perfettamente conto della forza della tua posizione.
- Ebbene, credo di sì, - rispose l'altro con una risatina.
E questo, sebbene non si fossero neppur toccata la mano, fu, per così dire, la fine dell'incontro fra i due fratelli, poiché a questo punto, il primogenito si rivolse a me e mi ordinò di andare a prendere il suo bagaglio.
Io, da parte mia, mi rivolsi a Enrico per avere conferma; forse con una certa aria di sfida.
- Fintanto che il Signore di Ballantrae sarà qui, signor Mackellar, vi sarò molto obbligato se vorrete considerare i suoi desideri come se fossero i miei; vi disturbiamo continuamente; vorreste avere la bontà di mandare uno dei servitori? - e accentuò l'ultima parola.
Questo discorso era, se non altro, un meritato rimbrotto per lo straniero; ma questi, tanto diabolica era la sua impudenza, me lo ritorse contro.
- E vogliamo anche essere tanto ordinari da dire: "sbrighiamoci"? - aggiunse, guardandomi di traverso.
Non avrei potuto pronunziare parola, neppure se dalla mia risposta fossero dipese le sorti di un impero; perfino chiamare un servitore sarebbe stato al di là delle mie possibilità; avrei preferito servire io stesso quell'uomo, piuttosto che parlare; mi voltai in silenzio e andai nel boschetto, col cuore pieno di collera e di disperazione. Era buio fra gli alberi e io andai avanti dimenticando quello che ero venuto a fare, finché per poco non mi spezzai uno stinco contro una delle sacche da viaggio. Fu allora che notai un particolare curioso: mentre prima avevo portato le due sacche senza quasi accorgermene, ora il massimo che riuscivo a fare era di smuoverne una. E questo, obbligandomi a fare due viaggi, mi tenne lontano dalla sala piuttosto a lungo. Quando vi giunsi, la cerimonia dei saluti era finita da un pezzo e la compagnia era già a cena; ma, per una svista che mi punse sul vivo, il mio posto era stato dimenticato. Avevo visto un lato del ritorno del Signore di Ballantrae; ora dovevo vederne l'altro. Fu lui il primo a notare il mio ingresso, e ad accorgersi che mi tiravo indietro indispettito.
Egli balzò in piedi.
- E io che mi ero seduto al posto del bravo Mackellar! - esclamò. - Gianni, metti un altro posto per il signor Bally; vi assicuro che non disturberà nessuno e la vostra tavola è abbastanza grande per tutti.
Non credevo alle mie orecchie; né ai miei sensi, quando egli mi prese per le spalle e mi spinse, ridendo, al mio solito posto, tale e tanta affabilità giocosa risuonava nella sua voce. E mentre Gianni aggiungeva un posto per lui (cosa per cui insisteva ancora), andò ad appoggiarsi alla sedia del padre, abbassando lo sguardo verso di lui; e il vecchio levò lo sguardo sul figlio e ciò con tanta e così grata tenerezza reciproca, che per poco non mi portai la mano alla fronte dallo sbalordimento.
Ma tutto continuò allo stesso modo. Mai gli sfuggì una parola aspra, mai un sorriso di scherno gli apparve sulle labbra. Aveva messo da parte anche il suo inglese tagliente e parlava il bonario idioma scozzese che mette in valore le parole affettuose; e sebbene le sue maniere avessero un'eleganza e una grazia totalmente estranee al nostro modo di fare di. Durrisdeer, la sua raffinatezza aveva pur sempre un sapore casalingo che non ci umiliava, ma anzi ci lusingava. Tutto ciò che fece durante il pasto, veramente, bevendo il vino con me in atto di notevole rispetto, voltandosi per dire una parola scherzosa a Gianni, carezzando la mano del padre e uscendo in gai aneddoti delle sue avventure, rievocando il passato con felici riferimenti; tutto ciò che faceva gli si addiceva tanto che egli stesso era tanto bello, che non c'era da stupire se Milord e la signora sedevano a tavola con volti raggianti e se Gianni, dietro di loro, serviva sciogliendosi in lagrime.
Appena la cena fu finita, la signora si alzò per ritirarsi.
- Questa non è mai stata la tua abitudine, Alison, - diss'egli.
- Lo è ora, - disse la signora, il che era notoriamente falso. - Ti do la buona notte, Giacomo, e il bentornato... dal regno dei morti, - aggiunse con voce più sommessa e tremante.
Il povero Enrico che aveva fatto una figura ben poco brillante durante il pasto, parve più turbato che mai; era contento di vedere che la moglie si ritirava, eppure semiscontento sapendone la ragione; e, subito dopo, rimase completamente sconvolto dal fervore delle parole di lei. Da parte mia, pensai che ormai ero di troppo e già sgusciavo fuori dietro la signora, quando. Il signore di Ballantrae mi vide.
- Ora, Mackellar, - disse, - questo lo considero quasi un atto di inimicizia. Non posso permettere che andiate via; sarebbe un trattare da straniero il flgliuol prodigo, e permettete che vi rammenti dove: nella casa di suo padre! Su, mettetevi a sedere e bevete un altro bicchiere alla salute del signor Bally.
- Sì, sì, Mackellar, - disse Milord, - non bisogna trattare da estranei né voi né lui. Stavo proprio dicendo a mio figlio, - aggiunse, e la sua voce si fece più lieta, come sempre a questa parola, - quanto tutti noi apprezziamo i vostri servigi di amico.
E così restai lì, in silenzio fino alla solita ora e avrei quasi potuto esser tratto in inganno dal carattere di quell'uomo, senza un unico episodio in cui la sua perfidia apparve lampante. Ecco l'episodio sul quale il lettore, dopo quanto ha saputo dell'incontro tra i fratelli, rifletterà per conto suo. Siccome Enrico era piuttosto scuro, nonostante tutti i suoi sforzi per salvare le apparenze di fronte a Milord, ecco che il primogenito balza su, fa il giro della tavola e gli batte sulla spalla:
- Su, su, Harry, - dice col forte accento scozzese che dovevano usare fra loro quando erano ragazzi, - non devi essere giù perché tuo fratello è tornato a casa. E' tutto tuo, questo è certo, e io non te lo contesto davvero. Ma neanche tu mi devi contestare il mio posto accanto al focolare di mio padre.
- Questo è fin troppo vero, Enrico, - disse Milord con un po' di cipiglio, cosa rara in lui. - Tu sei stato il figlio maggiore della parabola nel senso buono della parola; ora devi badare all'altro senso.
- Facile farmi passare dalla parte del torto. - disse Enrico.
- Chi ti fa passare dalla parte del torto? - gridò Milord, con molta asprezza, mi parve, per un uomo tanto mite. - Ti sei guadagnato la mia gratitudine e quella di tuo fratello molte migliaia di volte; puoi contare sulla sua durata. E questo basti.
- Certo, Harry, che ci puoi contare, - ripeté il fratello; e a me parve che Enrico lo guardasse con una specie di ferocia negli occhi.
Circa tutta la miserabile faccenda che seguì, ci sono quattro domande che spesso ml rivolgevo allora e che mi rivolgo ancora oggi: era costui mosso da un particolare risentimento contro Enrico? o da quello che credeva il suo interesse? o da un puro e semplice piacere della crudeltà, come quello che si può osservare nel gatti, e che i teologi dicono proprio del diavolo? o da un sentimento che egli avrebbe chiamato amore? La mia modesta opinione si ferma alle prime tre ipotesi; ma forse alla radice del suo modo di agire c'era un elemento di ciascuno dei quattro moventi. E cioè: l'animosità contro Enrico spiegherebbe il suo odioso modo di trattarlo quando eravamo soli; gli interessi che era venuto a curare spiegherebbero il suo diversissimo atteggiamento in presenza di Milord; questi e, insieme, un pizzico di galanteria. la sua sollecitudine di mettersi in buona luce agli occhi della signora; e il piacere della malvagità di per se stesso spiegherebbe la pena che prendeva per mescolare e contrapporre continuamente le varie linee di condotta.
Un po' perché io ero amico dichiarato del padrone e un po' perché nelle mie lettere a Parigi. mi ero spesso preso la libertà di fare qualche rimostranza, anch'io ero incluso nel suo diabolico spasso. Quando ero solo con lui mi perseguitava con i suoi sarcasmi; in presenza della famiglia mi trattava con estrema familiarità e condiscendenza. La cosa non era soltanto penosa di per sé e non solo mi metteva continuamente dalla parte del torto, ma conteneva anche un elemento di insulto indescrivibile. Che egli mi escludesse così dalla sua dissimulazione, come se perfino la mia testimonianza fosse cosa troppo spregevole per essere presa in considerazione, era cosa che mi muoveva la bile. Ma quello che ciò significasse per me non conta. Ne prendo soltanto nota qui, soprattutto per questa ragione: che la cosa ebbe l'unico buon risultato di darmi una percezione più precisa del martirio di Enrico. Il peso ricadeva tutto su di lui. Come doveva rispondere alle pubbliche attenzioni di uno che non si lasciava mai sfuggire l'occasione di deriderlo in privato? Come poteva sorridere a chi lo ingannava e lo insultava? Era condannato a sembrare scortese. Era condannato al silenzio. Anche se fosse stato meno orgoglioso, se avesse parlato, chi avrebbe prestato fede alla verità? La calunnia in atto aveva ottenuto il suo effetto; Milord e la signora erano tutti i giorni testimoni di quanto avveniva; avrebbero potuto giurare in tribunale che il primogenito era un modello di paziente benevolenza ed Enrico un esemplare di gelosia e di sconoscenza. E questi difetti che sarebbero apparsi brutti in chiunque altro, apparivano dieci volte più brutti in Enrico; poiché, chi poteva dimenticare che il Signore di Ballantrae rischiava la vita e che aveva già perduto la sposa, il titolo e il patrimonio?
- Enrico, vuoi uscire a cavallo con me? - domandò un giorno il Signore di Ballantrae.
Ed Enrico, che è stato punzecchiato dall'altro tutta la mattina, ringhia: - No!
- Qualche volta vorrei che tu fossi più gentile, Enrico,. - risponde l'altro, in tono nostalgico.
Quanto ho riferito non è che un esempio; ma scene simili ai ripetevano continuamente. C'è poco da stupire se Enrico veniva biasimato; c'è poco da stupire se io mi rodevo al punto da farne quasi una malattia di fegato; al solo ricordo mi si amareggia ancora il sangue.
Certo, non ci fu mai al mondo piano più diabolico: perfido, semplice, impossibile a combattere. Eppure, ancora penso, come ho sempre pensato, che la signora avrebbe dovuto leggere tra le righe; avrebbe dovuto conoscere meglio il carattere del marito; dopo tanti anni di matrimonio, avrebbe potuto esigerne o carpirne la confidenza. E anche Milord, quel gentiluomo tanto vigile: dove era andato a finire tutto il suo spirito di osservazione? Ma, per dirne una, la frode era praticata da mano maestra e avrebbe gabbato un angelo. Per dirne un'altra (era il caso della signora), ho notato che non esistono persone tanto lontane fra loro, quanto coloro che sono sposati e, al tempo stesso, indifferenti; sembrano vivere fuori portata di voce e non avere lingua in comune. Per dirne un'altra ancora (era il caso di entrambi gli spettatori), erano accecati da una inveterata predilezione. E per dirne una quarta, il pericolo in cui il primogenito era creduto da tutti (dico "creduto" e presto ne saprete il perché) faceva sembrare ogni critica mancanza di generosità e, tenendo i suoi cari in un perenne stato di affettuosa ansietà per la sua vita, rendeva la loro cecità verso i suoi difetti ancora più completa.
Fu in quel periodo che vidi con la massima chiarezza gli effetti delle belle maniere e che fui indotto a deplorare profondamente la rozzezza delle mie. Enrico aveva in sé la sostanza del gentiluomo; quando vi era spinto, quando le circostanze lo esigevano, sapeva fare la sua parte con spirito e con dignità; ma nei rapporti di ogni giorno (è inutile negarlo) gli mancava l'elemento decorativo. Il Signore di Ballantrae, al contrario, non aveva mai un gesto che non tornasse a suo vantaggio. E così avveniva che, quando l'uno appariva cortese e l'altro scortese, ogni moto dei loro corpi sembrava confermare questa impressione. E non questo soltanto; anzi, più Enrico si dibatteva nelle reti del fratello e più goffo diventava;,e più l'altro si godeva il suo spregevole divertimento e più si faceva sorridente e affascinante. E così la trama, per la sua portata stessa e per il suo stesso procedimento, si estendeva e si rafforzava.
Una delle arti di quell'uomo era il suo modo di sfruttare il pericolo in cui, come ho detto, era creduto. Egli ne parlava a coloro che lo amavano con una leggerezza scherzosa che li inteneriva più che mai. Verso Enrico, se ne serviva come di una crudele arma di offesa. Lo ricordo nell'atto di appoggiare il dito sul quadratino di vetro trasparente della finestra colorata, un giorno che eravamo soli, noi tre, nel salone.
- Di qui è passata la tua fortunata sterlina, Giacobbe, - disse. E siccome Enrico si limitava a lanciargli un'occhiata torva. - Oh, - aggiunse, - non c'è bisogno di prendere quell'aria di malvagità impotente, cara la mia mosca. Ti puoi liberare dal ragno quando credi. Fino a quando, o Signore? Quando sarai maturo e pronto alla denuncia, o scrupoloso fratello? Questa è una delle cose che mi interessano in questo buco deprimente. Mi sono sempre piaciuti gli esperimenti.
Enrico seguitava a fissarlo con cupo cipiglio e aveva mutato colore; alla fine il primogenito scoppiò in una risata e gli dette una manata sulle spalle, chiamandolo "brutto scontroso". A quell'atto, il mio padrone dette un balzo indietro con un gesto che giudicai molto pericoloso; e debbo credere che lo giudicasse tale anche il fratello, perché parve lievissimamente sconcertato e non ricordo di averlo più veduto mettere le mani addosso a Enrico.
Ma, sebbene, in un modo o nell'altro, avesse sempre in bocca il pericolo che correva, la sua condotta mi pareva stranamente incauta, e cominciavo a pensare che il governo (dopo aver messo una taglia sulla sua testa) si fosse profondamente addormentato. Non nego di aver provato la tentazione di denunziarlo io, ma due pensieri mi trattenevano: uno era che, se quell'uomo fosse finito sul patibolo con onore, sarebbe stato definitivamente santificato nell'immaginazione della moglie e del padre del mio padrone; e l'altro, che, se mi fossi in qualche modo immischiato nella faccenda, Enrico stesso difficilmente sarebbe sfuggito all'ombra del sospetto. E intanto il nostro nemico andava e veniva più di quanto avrei creduto possibile; il suo ritorno a casa era strombazzato per tutto il contado, eppure nessuno lo disturbava. Di tante e tanto diverse persone che erano al corrente della sua presenza, nessuna aveva la minima avidità di denaro (come ero solito dire nel mio dispetto) o il minimo senso di legalità; e quell'uomo se ne andava a cavallo di qua e di là; molto meglio accolto (tenuto conto degli strascichi dell'antica impopolarità) di Enrico e (tenuto conto dei contrabbandieri) molto più sicuro di me.
Non che non avesse la sua parte di fastidi; e poiché questi ebbero le più gravi conseguenze, bisogna che ne parli. Il lettore non avrà dimenticato Jessie Brown, la cui vita si svolgeva in gran parte fra i contrabbandieri; lo stesso capitano Crail era fra i suoi intimi amici, ed ella venne ben presto a sapere della presenza del signor Bally In casa nostra. A mio parere, da un pezzo a Jessie non importava più un fico secco della persona del Signore di Ballantrae; ma si era abituata a considerarsi associata col suo nome; era questa la radice di tutte le sue commedie e quindi, ora che egli era tornato, ella si sentì in dovere di divenire un'assidua frequentatrice dei dintorni di Durrisdeer. Il Signore di Ballantrae non poteva uscire senza che quella fosse il in agguato; una scandalosa figura di donna, di rado in senno, che chiamava a gran voce "il suo bel ragazzo", citando versi di cantastorie e, secondo quanto mi è stato raccontato, cercando perfino di piangere fra le sue braccia. Ammetto di essermi stropicciato le mani dalla gioia di quella persecuzione; ma il Signore di Ballantrae che metteva a così dura prova la tolleranza altrui, era egli stesso l'uomo meno paziente del mondo. Strane scene si svolsero nel parco. C'è chi dice che egli levò su di lei la canna da passeggio e che Jessie si buttò sulle sue antiche armi: i sassi. Quel che è certo, è che egli si rivolse al capitano Crail per far deportare la donna, e che il capitano rifiutò con insolita veemenza. E la faccenda finì con la vittoria di Jessie. Fu messo insieme del denaro, ebbe luogo un incontro durante il quale il nostro fiero gentiluomo dovette sottoporsi a farsi baciare e inondare di lagrime; e la donna fu installata in un'osteria di sua proprietà, in un punto della costa di Solway, non ricordo dove, ma, ' secondo l'unica notizia che ne ebbi, estremamente mal frequentata.
Questo, però, è un anticipare gli eventi. Un giorno, dopo un po' che Jessie gli si era messa alle calcagna, il Signore di Ballantrae venne da me nell'ufficio e con più cortesia del solito: - Mackellar, - mi disse, - c'è una maledetta matta di ragazza che ronza qui intorno. Non mi,è facile occuparmi personalmente della cosa per la quale mi rivolgo a voi. Bisogna dare agli uomini ordini precisi perché la ragazza sia allontanata.
- Signore, - risposi tremando un poco, - le vostre sporche commissioni fatele da voi.
A questo egli non rispose una parola e lasciò la stanza. Poco dopo entrò Enrico.
- Questa é nuova! - esclamò. - Come se tutto il resto non bastasse, anche voi dovete aumentare la mia infelicità. A quanto pare avete insultato il signor Bally.
- Con vostra licenza. signor Enrico, - risposi, - é lui che ha insultato me e, a mio parere, gravemente. Ma forse io non ho avuto riguardo alla vostra posizione, quando ho parlato; e se voi penserete così quando saprete tutto, caro padrone, non avrete che da dire una parola. A voi obbedirei in tutto e per tutto, fino a commettere peccato, Dio mi perdoni!
E quindi gli raccontai quello che era accaduto. Enrico sorrise a se stesso; non avevo mai veduto un sorriso più torvo.
- Avete fatto proprio bene, - disse. - Dovrà bere la sua Jessie Brown fino alla feccia.
E poi, scorgendo il fratello di fuori, aprì la finestra e chiamatolo col nome di Bally, lo pregò di salire un momento perché doveva dirgli una parola.
- Giacomo, - disse, quando il nostro persecutore fu entrato e si fu chiuso l'uscio alle spalle, guardandomi con un sorrisetto, come se si aspettasse di vedermi umiliato, - mi hai presentato una lagnanza contro il signor Mackellar e io ho investigato. Non occorre che ti dica che io crederò sempre alla sua parola piuttosto che alla tua, perché ora siamo soli e intendo fare uso di un po' di quella libertà che in genere tu ti permetti. Il signor Mackellar è un gentiluomo che io stimo, e tu devi cercare, finché ti troverai sotto lo stesso tetto, di non porti più in urto con una persona che io sosterrò a qualunque costo e con tutte le mie forze. Quanto all'incarico per il quale sei venuto da lui, ti dovrai liberare da solo dalle conseguenze della tua crudeltà, e nessuno dei miei servi dovrà assolutamente venire impiegato in questo caso.
- I servi di mio padre, crederei, - disse il,Signore di Ballantrae.
- Va da lui a raccontare questa storia, - rispose Enrico.
Il primogenito diventò pallidissimo. Accennò a me col dito.
- Voglio che quest'uomo sia licenziato, - disse.
- Non lo sarà, - rispose Enrico.
- Questa me la pagherai cara, - replicò l'altro.
- Ho già pagato tanto caro un cattivo fratello, - rispose Enrico, - che anche di paura ho fatto fallimento. Non mi puoi più colpire in nulla.
- Quanto a questo, te lo farò vedere io, - rispose il primogenito e si allontanò senza rumore.
- Che cosa farà ancora, Mackellar? - esclamò Enrico.
- Lasciate che me ne vada, - dissi io. - Caro padrone, lasciate che me ne vada; io non sono che il principio di nuovi dolori.
- Vorreste lasciarmi proprio solo? - disse Enrico.
Non restammo a lungo in dubbio circa la natura del nuovo assalto. Fino a quel momento il Signore di Ballantrae aveva giocato con la signora una partita coperta, evitando a bella posta di restar solo con lei (cosa che, sulle prime, avevo scambiato per effetto di un senso di decoro, ma che ora so un'arte delle più insidiose); incontrandosi con lei, si può dire, soltanto all'ora dei pasti
e comportandosi in tal caso come un fratello affettuoso. Fino a quel momento si può dire che non si fosse direttamente frapposto tra Enrico e la moglie, se non in quanto aveva manovrato in modo da far uscire del tutto l'uno dalle buone grazie dell'altra. Ora tutto ciò doveva cambiare; ma se lo facesse veramente per vendetta o perché cominciasse a stancarsi di Durrisdeer e cercasse qualche diversivo, chi, se non il diavolo, avrebbe potuto dirlo? Comunque, da quel momento, cominciò l'assedio della signora. La cosa fu condotta con tanta maestria che la signora stessa, credo, non se ne rese conto
e il marito fu costretto ad assistere in silenzio. Le prime ostilità furono aperte, secondo ogni apparenza, dal caso. Il discorso era andato a cadere, come spesso avveniva, sugli esiliati in Francia e da lì scivolò sull'argomento delle loro canzoni.
- Ce n'è una, - disse Il Signore di Ballantrae, - se queste cose vi interessano, che ml é sempre parsa molto commovente. La poesia é rozza, eppure, forse per via della mia situazione, mi è sempre andata dritta al cuore. Vi dirò, bisogna immaginare che sia cantata dalla bella di un esiliato, e forse rappresenta, non tanto ciò che ella realmente pensa, quanto ciò che egli poveruomo, spera da lei, in quelle terre lontane.
Qui il Signore di Ballantrae sospirò.
- Vi assicuro che é uno spettacolo commovente, quando una ventina di rudi irlandesi, tutti comuni sentinelle, si mette a cantare questa canzone e dalle loro lacrime si vede che tocca loro il cuore. Dice così, padre, - aggiunse, scegliendo molto scaltramente Milord per ascoltatore, - ma se non riuscirò ad arrivare alla fine, dovrete pensare che é una cosa che capita spesso a noi esiliati.
E qui intonò lo stesso motivo che avevo udito fischiettare dal colonnello, però questa volta con le parole; rustiche davvero, ma che pure davano risalto in modo accorato alle aspirazioni di una povera fanciulla per l'amato in esilio; una strofa (o qualcosa di simile) mi è rimasta nella memoria:
Di rosso la mia gonna tingerò,
Il pane, insieme a lui, mendicherò. Morta gli amici mi vogliono? Oh, Fra le paludi col mio Willie andrò!
Egli cantava bene, anche quella semplice canzone, ma sapeva riuscire ancor meglio nella mimica. Ho udito attori famosi, quando non un occhio restava asciutto nel teatro di Edimburgo, ed era certo una vista mirabile; ma non meno mirabile era la vista del Signore di Ballantrae che adoperava quella piccola ballata e coloro che lo ascoltavano, come uno strumento, sembrando ora sul punto di cedere al turbamento ed ora sul punto di vincerlo, cosicché parole e musica parevano sgorgare dal suo cuore e dal suo passato e mirare direttamente alla signora. E la sua arte andò anche oltre; perché tutto fu sfiorato con mano così leggera, che sarebbe stato impossibile sospettarlo della minima intenzione e, lungi dal mettere in mostra la sua emozione, si sarebbe giurato che lottava per mantenersi calmo... Quando fu giunto alla fine, restammo tutti per un po' di tempo in silenzio; egli aveva scelto la penombra della sera di modo che nessuno di noi poteva vedere il viso del vicino; ma sembrava che tutti trattenessero il respiro; soltanto Milord si schiarì la gola. Il primo a muoversi fu il cantore che si levò in piedi repentinamente, e in silenzio cominciò a passeggiare su e giù in fondo alla sala, il posto abituale di Enrico.
Dovemmo supporre che laggiù egli riuscisse a soffocare gli ultimi resti di emozione, poiché un momento più tardi tornò e si lanciò in una disquisizione sul carattere degli irlandesi (sempre tanto mal giudicati e che egli difendeva) con il suo tono di voce naturale; per cui, prima che fossero portate le lampade, la conversazione aveva ripreso il suo corso normale. Ma anche allora mi parve che sul volto della signora ci fosse un'ombra di pallore; e, oltre a questo, la signora si ritirò quasi subito.
Il prossimo sintomo fu l'amicizia che quell'insidioso demonio strinse con l'innocente Miss Caterina; i due erano sempre insieme; o la piccola gli si arrampicava sulle ginocchia, o si tenevano per mano, come due bambini. Come tutte le sue azioni diaboliche, anche questa feriva in diversi modi. Era il colpo di grazia per Enrico il quale si vedeva mettere contro la propria bambina; questo lo rese duro verso la povera innocente, facendolo scendere di un altro punto nella stima della moglie; e, per concludere, divenne un legame fra il Signore di Ballantrae e la signora. Sotto quell'influenza, il gelo dell'antico riserbo si sciolse giorno per giorno. Ben presto ci furono passeggiate nel boschetto, colloqui nel belvedere e non so qual tenera familiarità. Sono sicuro che la signora era, come molte altre, una brava donna; aveva una coscienza integra, ma che, forse, qualche volta, chiudeva un occhio. Poiché anche a un osservatore ottuso come me. appariva chiaro che la sua affabilità aveva un carattere troppo tenero per una sorella. La sua voce aveva più inflessioni, ella aveva nello sguardo un che di luminoso e di soave; era più dolce con tutti noi, anche con Enrico, anche con me; e mi pareva che da lei spirasse una felicità quieta e malinconica.
Assistere a tutto questo, che tormento era per Enrico! Eppure fu proprio questo che ci condusse alla liberazione finale, nel modo che sto per narrare.

La permanenza del Signore di Ballantrae non aveva altro scopo (checché facessero gli altri per indorarlo) che quello di spillare denaro. Aveva un certo progetto di andare a far fortuna nelle Indie francesi, secondo quanto mi aveva scritto il cavaliere, ed era la somma necessaria che egli era venuto a cercare. Per gli altri membri della famiglia, questo voleva dire la rovina; ma Milord, nella sua incredibile parzialità, faceva pressione perché lo si accontentasse. La famiglia ormai era così ridotta (infatti non c'erano più che il padre e i due figli) che sarebbe stato possibile abolire il maggiorasco e alienare una parte della terra. E a questo Enrico, prima con accenni e poi con aperte pressioni, fu indotto ad acconsentire. Non avrebbe mai fatto una cosa simile, ne sono sicurissimo, se non fosse stato il peso dell'infelicità che gli gravava addosso. Se non fosse stato il suo appassionato desiderio di vedere andar via il fratello, non avrebbe mai tradito in quei modo i propri sentimenti e le tradizioni della sua casa. E anche allora, vendette il suo consenso a caro prezzo, parlando una volta tanto a cuore aperto e dipingendo l'affare nei suoi vergognosi colori.
- Vogliate osservare, - disse, - che questa è un'ingiustizia verso mio figlio, se mai ne avrò uno.
- Ma non è probabile che tu ne abbia, - rispose Milord.
- Dio lo sa! - disse Enrico. - In considerazione della posizione dolorosamente falsa in cui mi trovo di fronte a mio fratello, e del fatto che voi, Milord, siete mio padre e avete il diritto di comandare, accosto la mia mano a questo foglio. Ma prima voglio dire una cosa: vi sono stato ingenerosamente costretto; e la prossima volta che voi, Milord, proverete la tentazione di fare un paragone tra i vostri figli, mi appellerò a voi perché ricordiate ciò che io ho fatto e ciò che egli ha fatto. I fatti sono la vera prova.
Milord era l'uomo più a disagio che avessi mai visto; perfino il suo vecchio volto si coprì di rossore.
- Mi pare che tu non abbia scelto molto bene il momento per fare le tue lagnanze, Enrico, '- disse, - questo diminuisce il merito della tua generosità.
- Non vi fate illusioni, Milord, - rispose Enrico. - Non commetto questa ingiustizia per generosità verso di lui, ma per obbedienza a voi.
- In presenza di estranei... - cominciò Milord, sempre più imbarazzato ed, infelice.
- Qui non c'è nessuno all'infuori di Mackellar, - disse Enrico, - che è mio amico. E poiché voi, Milord, non lo considerate mai estraneo in occasione delle vostre frequenti disapprovazioni, sarebbe duro per me considerarlo tale quando si tratta di una cosa tanto rara quanto la mia difesa.
Credo che, quasi quasi, Milord sarebbe tornato sulla sua decisione; ma il Signore di Ballantrae stava all'erta.
- Ah, Enrico, Enrico, - disse, - tu sei sempre il migliore di tutti noi. Rude e sincero! Ah, Signore, vorrei essere io tanto buono.
Dinnanzi a questo esempio di generosità da parte del suo favorito, Milord non ebbe più esitazioni e l'atto fu firmato.
Appena la cosa si poté fare, la tenuta di Ochterhall fu venduta molto al disotto del valore e il denaro fu versato alla nostra mignatta e quindi spedito, per vie segrete, in Francia. Almeno, così egli disse, sebbene io abbia sempre avuto il sospetto che non andasse tanto lontano. Ed ecco ormai l'affare di costui giunto felicemente a termine e le sue tasche ancora una volta rigonfie del nostro oro; e, ciò nonostante, il punto per cui avevamo acconsentito al sacrificio continuava ad esserci negato e il visitatore ancora si attardava a Durrisdeer. Chi può dire se lo facesse per malvagità o perché non era ancora arrivato il momento propizio per la sua avventura nelle Indie, o perché avesse riposto qualche speranza nei suoi piani riguardo alla signora, o per ordine del governo? ma intanto indugiava e indugiò per settimane.
Avrete notato che ho detto: "ordini del governo"; difatti, verso quel tempo, il suo segreto cominciò a trapelare. Il primo cenno mi venne. da un fittavolo, il quale faceva dei commenti sulla permanenza del Signore di Ballantrae e, più ancora, sulla sua sicurezza; il fittavolo era un simpatizzante giacobtta e aveva perduto un figlio a Culloden, il che rendeva il suo occhio più critico.
- C'è una cosa, - diceva, - che mi sembra proprio strana, e cioè, come ha fatto ad arrivare a Cockermouth.
- A Cockermouth? - ripetei, rammentando improvvisamente il mio stupore di allora nel vedere sbarcare quell'uomo, così inappuntabile dopo una traversata tanto lunga.
- Eh, sì, - disse il fittavolo, - è stato lì che il capitano Crail lo ha preso a bordo. Credevate che fosse venuto dalla Francia per mare? Già, lo abbiamo creduto tutti.
Rivolsi un po' in mente questa notizia e quindi la portai a Enrico.
- Ecco un particolare curioso, - dissi, e gli raccontai la storia.
- Che cosa importa il come è venuto, Mackellar, dal momento che è qui? - gemette Enrico.
- No, no! - risposi. - Pensateci bene! non vi pare che la cosa sappia un po' di una certa connivenza da parte del governo? Sapete bene quanto ci siamo meravigliati della sicurezza di quell'uomo.
- Un momento, - disse Enrico. - Lasciatemici pensare.
E, mentre pensava, gli compariva in viso quel sorriso torvo che somigliava a quello del fratello.
- Datemi un foglio, - disse. E, senz'altre parole, si mise a sedere e scrisse a un gentiluomo di sua conoscenza; non voglio far nomi quando non è necessario, ma era una persona in posizione elevata. Spedii la lettera per mezzo dell'ultima persona di cui mi potessi fidare in quel caso, Macconochie. E il vecchio cavalcò di lena, perché tornò con la risposta anche prima di quanto il mio zelo avesse osato sperare. Mentre leggeva la risposta, Enrico aveva ancora lo stesso sorriso torvo.
- Questo è quanto avete fatto di meglio per me finora, Mackellar, - diss'egli. - Con questo in mano gli assesterò un colpo. Guardateci oggi a tavola.
A pranzo, Enrico propose al fratello di farsi vedere in pubblico in qualche posto, e Milord, come egli aveva sperato, protestò perché c'era pericolo.
- Oh, - rispose Enrico con grande noncuranza, - non c'è più bisogno di fare la commedia con me; sono addentro al segreto quanto voi.
- Al segreto, esclamò Milord. - Che vuoi dire, Enrico? Ti do la mia parola che non so di nessun segreto dal quale tu sia escluso.
Il primogenito aveva cambiato espressione, e io mi accorsi che era stato colpito in un punto debole dell'armatura.
- Come? - disse Enrico, rivolgendosi a lui con tutte le apparenze di un'enorme sorpresa. - Vedo che servi i tuoi padroni con molta fedeltà; ma credevo che tu saresti stato abbastanza umano da tranquillizzare tuo padre.
- Che discorsi sono questi? Rifiuto di discutere in pubblico i miei affari personali. Ti ordino di farla finita, - gridò il primogenito irosamente e anche molto scioccamente e, a dire il vero, più da bambino che da uomo.
- Non ci si aspettava tanta discrezione da parte tua, te l'assicuro, - riprese Enrico, - senti quello che scrive il mio corrispondente, - e spiegò il foglio. -"E'naturalmente interesse, sia del governo, sia del gentiluomo che forse faremo bene a continuare a chiamare signor Bally, che questo accordo sia tenuto segreto; ma non è mai stato nelle nostre intenzioni tenere la sua famiglia nello stato di ansietà che voi mi dipingete con tanto sentimento, e sono lieto di essere lo strumento che pone fine a questi timori. Il signor Bally in Gran Bretagna è al sicuro quanto lo siete voi.
- E' mai possibile?- esclamò Milord guardando il tiglio con grande stupore e ancor più grande sospetto in viso.
- Caro padre, - rispose costui, che si era già molto ricomposto, - sono felice di apprendere che la cosa può essere svelata; le istruzioni che avevo avuto direttamente da Londra erano di un tenore nettamente diverso e mi ingiungevano di tenere l'indulgenza concessami segreta a tutti, non escluso voi stesso; anzi, voi eravate espressamente nominato, come vi posso far vedere, nero sul bianco, a meno che non abbia distrutto la lettera. Debbono aver cambiato idea molto presto, perché tutta la faccenda è molto recente; o piuttosto il corrispondente di Enrico deve aver male interpretato questo punto, come pare abbia fatto col resto. A dire il vero, signore, - continuò, sentendosi visibilmente più a suo agio, - avevo supposto che questa inesplicabile grazia a un ribelle fosse il risultato di una petizione da parte vostra e che l'ingiunzione di mantenere il segreto con la mia famiglia dipendesse dal vostro desiderio di tenere segreta la vostra bontà. Ho avuto quindi tanta maggior cura di osservare gli ordini ricevuti. Ora ci rimane da indovinare per quale altra via questa indulgenza sia giunta a un colpevole tanto noto quanto lo sono io, poiché non credo di dovermi difendere dall'insinuazione che mi pare contenuta nella lettera di Enrico. Non ho ancora udito parlare di un Durie che sia stato una banderuola o una spia, - aggiunse fieramente.
E così parve che fosse sfuggito illeso al pericolo; ma non aveva fatto i conti con un suo errore e con la pertinacia di Enrico, il quale stava per dimostrare di avere in sé qualcosa dello spirito del fratello.
- Hai detto che la cosa è di fresca data, - disse Enrico.
- E' recente, - ripeté il Signore di Ballantrae, con un discreto sfoggio di sicumera, ma non senza un fremito.
- Così recente? - chiese Enrico, con l'aria un po' perplessa, spiegando di nuovo la lettera.
In tutta la lettera non si faceva parola di date; ma come poteva saperlo, il Signore di Ballantrae?
- A me pare che sia venuto abbastanza tardi, - rispose con una risata. E, al suono di quel riso, falso come il suono di una campana incrinata, Milord lo guardò un'altra volta al disopra della tavola e io vidi le sue vecchie labbra serrarsi.
- No, - seguitò Enrico, sempre guardando la lettera, mi ricordo la tua espressione. Hai detto che era cosa recentissima.
E qui avemmo una prova della nostra vittoria e l'esempio più convincente dell'incredibile indulgenza di Milord, il quale, che cosa fece? s'intromise per salvare 1l suo favorito da uno smacco.
- Mi pare, Enrico, - disse con una specie di penosa sollecitudine, - mi pare che non ci sia bisogno di altre discussioni. Ci rallegriamo tutti di sapere finalmente salvo tuo fratello; su questo punto siamo tutti d'accordo; e da sudditi riconoscenti, dobbiamo, se non altro, bere alla salute del re e alla sua magnanimità.
E così il Signore di Ballantrae fu cavato d'impaccio; ma almeno si era dovuto mettere sulla difensiva, ne era uscito malconcio, e l'attrattiva del suo pericolo personale gli era stata pubblicamente strappata. Ormai Milord, nel segreto del suo cuore, sapeva che il suo favorito era una spia del governo e la signora (comunque ella si fosse spiegata la storia), aveva ora un atteggiamento notevolmente più freddo verso lo screditato eroe del suo romanzo. Ecco come, anche nel migliore ordito della duplicità, si trova sempre un punto debole che, se ben colpito, farà allentare e cadere tutta la trama. E se noi, con quella mossa fortunata non avessimo inferto un colpo all'idolo, chi può dire come sarebbe andata per noi, al momento della catastrofe?
Eppure per il momento sembrò che non fossimo venuti a capo di nulla. Prima che fossero passati un paio di giorni, egli aveva cancellato i tristi risultati della sua sconfitta e, secondo tutte le apparenze, era ancora alla stessa altezza di prima. Quanto a Lord Durrisdeer, era sprofondato nella sua parzialità paterna, che non era tanto amore (il quale dovrebbe essere una qualità attiva), quanto apatia e torpore delle altre facoltà; e il perdono (per applicare malamente una nobile parola) gli sfuggì per mera debolezza, come le lagrime della senilità.
Il caso della signora era diverso; Dio solo sa quello che egli trovò da dirle e come riuscì a vincerne il disprezzo. Una delle cose peggiori della passione amorosa è che la voce finisce col divenire più importante delle parole e colui che parla più di quanto egli dice. Certo, il Signore di Ballantrae doveva aver trovato qualche scusa e magari addirittura scovato un sistema di ritorcere a suo vantaggio lo smacco, perché, dopo un periodo di freddezza, parve che fra lui e la signora le cose andassero peggio che mai. I due erano sempre insieme. Non vorrei che mi si sospettasse di voler gettare su quella sventurata dama un'ombra di biasimo più di quanto sia dovuto a una semivolontaria cecità; ma, ancora oggi, credo che ella scherzasse troppo col fuoco e, abbia io torto o ragione, una cosa è certa e deve bastare, e cioè, Enrico la pensava così. Il povero gentiluomo stava seduto per giornate intere nella mia stanza e sembrava talmente il ritratto della disperazione, che io non mi arrischiavo mai a rivolgergli la parola; eppure bisogna credere che trovasse un certo conforto nella mia presenza e nella coscienza della mia simpatia. C'erano anche momenti in cui discorrevamo, ed era uno strano modo di discorrere: non veniva mai nominato nessuno, non ci si riferiva mai a particolari personali, eppure avevamo in mente le stesse cose e lo sapevamo ambedue. E' un'arte curiosa quella che si può usare in questo modo; parlare per ore di una cosa senza mai nominarla, né farvi il minimo accenno. E ricordo di essermi chiesto se era con un'abilità naturale dello stesso genere che il Signore di Ballantrae faceva la corte alla signora dalla mattina alla sera (il che era evidentemente quel che faceva), pur senza ridestarne gli scrupoli., Per dare un'idea del punto a cui era arrivato Enrico, trascrivo qui alcune parole pronunziate da lui il 26 febbraio 1757 (ed ho buone ragioni per non dimenticare la data). Era un tempaccio fuori stagione, una ricaduta nell'inverno; freddo intenso, senza vento, la terra tutta bianca di brina, il cielo basso e grigio, il mare nero e silenzioso come il pozzo di una cava. Enrico era seduto accanto al fuoco e ragionava (come era solito fare) se " un uomo " dovrebbe " fare certe cose ."; se " era saggio intervenire".
ed altre frasi di carattere generale che ognuno di noi applicava ai casi particolari. Io ero vicino alla finestra e guardavo fuori, quando vi passarono sotto il Signore di Ballantrae, la signora e Miss Caterina, l'ormai inseparabile terzetto. La bambina correva qua e là, felice del gelo; l'uomo parlava all'orecchio della dama con un atteggiamento che, anche a quella distanza, appariva pieno di una diabolica grazia insinuante; ed ella, da parte sua, volgeva lo sguardo a terra, come una persona tutta assorta in ciò che ode. Allora uscii dalla mia riserva:
- Se fossi in voi, signor Enrico, - parlerei chiaramente a Milord, - Mackellar, Mackellar, - rispose Enrico - voi non vedete com'è debole la mia posizione. Non posso far parte a nessuno di pensieri tanto meschini, a mio padre meno che a chiunque altro; significherebbe restare schiacciato dal suo disprezzo. La debolezza della mia posizione ha origine in me stesso che non sono uomo da farsi amare. Io ho la loro gratitudine, me lo dicono tutti; ne ho da vendere, di gratitudine! Ma non sono presente al loro pensiero. Non si sentono indotti a pensare con me, né a pensare per me. Questa è la mia disgrazia!
Si alzò e spense il fuoco calpestandolo.
- Ma un sistema bisogna trovarlo, Mackellar, - disse poi, voltandosi a un tratto a guardarmi al disopra della spalla, - un mezzo bisogna trovarlo. Io sono un uomo molto paziente, troppo paziente... troppo. Comincio a disprezzarmi. Eppure, certo nessuno si è mai trovato impigliato in una trappola simile!
E ricadde nella sua meditazione.
- Coraggio, - dissi io, - finirà col venire a capo da sé.
- Ormai non vado più in collera, - mi rispose Enrico, con così poca coerenza con la mia osservazione, che lasciai cadere il discorso.



CAPITOLO QUINTO


RESOCONTO DI TUTTO QUELLO CHE AVVENNE LA NOTTE DEL 27 FEBBRAIO 1757

La sera del colloquio su riferito, il Signore di Ballantrae andò fuori; rimase fuori anche buona parte del giorno seguente, quel fatale 27; ma, fino al giorno seguente, nessuno di noi si curò di domandare dove andasse né cosa facesse. Se così avessimo fatto e se per caso fossimo venuti a saperlo, forse tutto sarebbe andato diversamente. Ma poiché noi agimmo nell'ignoranza, ed è così che le nostre azioni vanno giudicate, narrerò questi episodi tali e quali apparvero a noi al momento in cui presero forma, e riserberò per il momento della scoperta tutto quanto scopersi in seguito. Poiché sono ormai giunto ad una delle parti oscure del mio racconto e sono costretto a sollecitare l'indulgenza del lettore per il mio padrone.
Tutto il giorno 27 il tempo si mantenne rigidissimo; il freddo mozzava il respiro; le persone che passavano sembravano tanti comignoli fumanti; il grande camino del salone era ricolmo di legna; alcuni uccellini primaverili che si erano già avventurati al nord e in quei paraggi, assediavano le finestre della casa o saltellavano sul prato gelato, come creaturine smarrite. Verso mezzogiorno usci un raggio di sole e rischiarò un graziosissimo paesaggio invernale di colli e boschi tutti bianchi di brina, con il due alberi di Crail in attesa del vento, sotto. la Craig Head, e il fumo che saliva dritto nell'aria da ogni fattoria e da ogni capanna. Col sopraggiungere - della sera, la caligine in alto si richiuse; cadde la notte, cupa, silenziosa e senza stelle e freddissima; una notte assolutamente fuori stagione e intonata a strani avvenimenti.
La signora, come era ormai solita fare, si ritirò prestissimo. Noi, negli ultimi tempi, avevamo preso l'abitudine di passare la serata facendo una partita a carte; altro sintomo che il nostro visitatore cominciava ad essere molto stanco della vita di Durrisdeer. Non avevamo cominciato da molto, quando Milord scivolò via dal suo posto accanto al fuoco e, senza una parola, se ne andò in cerca del calore del letto. I tre rimasti non avevano affetto, né riguardi l'uno per l'altro, e nessuno di noi sarebbe rimasto alzato un minuto di più per far piacere agli altri due; ma per la forza dell'abitudine e perché le carte erano state 'appena distribuite, restammo per finire il giro. Avrei dovuto dire che avevamo preso l'abitudine -di far tardi e che, sebbene Milord si fosse ritirato prima del solito, mezzanotte era suonata da un bel po' e i servitori erano a letto da un pezzo. Un'altra cosa che avrei dovuto dire è che, sebbene non avessi mai veduto il Signore di Ballantrae sotto i fumi del vino, pure quella sera egli aveva bevuto abbondantemente e forse (benché non lo desse a divedere) era appena un pochino eccitato.
Comunque fosse, egli eseguì allora una delle sue solite diversioni; e, non appena l'uscio si fu richiuso alle spalle di Milord, senza il minimo mutamento di intonazione passò da una conversazione normale e cortese a una fiumana di insulti.
- Caro Enrico, tocca a te, - aveva cominciato a dire. E quindi proseguì: - E' veramente strano che tu riesca a mettere in mostra la tua rusticità anche in una piccolezza come una partita a carte. Tu, Giacobbe, giuochi come un parroco di campagna o come un marinaio all'osteria; la stessa ottusità, la stessa avidità meschina, cette lenteur d'hébété qui me fait rager; è strano che io abbia un fratello simile. Perfino Piedi Dolci dà prova di una certa vivacità quando la sua posta è in gioco; ma la noia di una partita con te... francamente, mi mancano le parole per descriverla.
Enrico seguitava a fissare le sue carte, come se riflettesse molto ponderatamente alla mossa; ma Il suo pensiero era altrove.
- Dio mio, quando ti deciderai? - esclamò il fratello. - Che lourdeau! ma perché infastidirti con espressioni francesi che sono buttate via con un ignorante simile? Un lourdeau, caro fratello, è ciò che noi chiameremmo un broccolo, uno zoticone, un tanghero; un tipo senza grazia, senza leggerezza, senza prontezza; uno che non ha alcun talento per piacere, che è incapace per natura di brillare; un tipo che, se lo desideri, puoi vedere nello specchio. Ti dico queste cose per il tuo bene, credimi; e poi, Piedi Dolci, (guardandomi e soffocando uno sbadiglio), - per me, in questo noiosissimo posto, è un diversivo farvi abbrustolire a lento fuoco come caldarroste, voi e il vostro padrone.
Nel caso vostro, mi fa un gran piacere perché ho notato che il vostro nomignolo, per rozzo che sia, ha sempre il potere di farvi fremere dalla rabbia. Invece, qualche volta, mi riesce più difficile con questo caro figliolo che, a quanto pare, si è addormentato sulle sue carte. Non vedi come ti si addice l'epiteto che ti ho spiegato or ora, caro Enrico? Ora te lo dimostro. Per esempio, con tutte quelle solide qualità che io godo nel riconoscerti, non ho mai incontrato una donna che non preferisse me; anzi, credo, - continuò con la più raffinata deliberazione, - credo, che non " continuasse " a preferire me.
Enrico posò le carte. Si alzò adagio adagio, sempre con l'aria di una persona immersa in profondi pensieri.
- Vigliacco! disse piano, come se parlasse a se stesso. E poi, senza fretta e senza neppure una speciale violenza, colpì il Signore di Ballantrae sulla bocca.
Questi balzò in piedi, come trasfigurato:
- Uno schiaffo! - gridò, - non me lo farei dare neppure da Dio Onnipotente!
- Abbassa la voce; vuoi che mio padre si intrometta un'altra volta in tua difesa?
- Signori, signori, - esclamai e cercai di interpormi.
Il Signore di Ballantrae mi afferrò per una spalla e mi tenne a distanza col braccio teso; e, sempre rivolto al fratello:
- Sai quello che vuol dire? - chiese.
- E stato l'atto più deliberato di tutta la mia vita, - rispose Enrico.
- Sangue devo avere, per questo, sangue, - disse il Signore di Ballantrae.
- Piaccia a Dio che sia il tuo, - disse Enrico, e andò verso la parete e tirò giù due spade nude che erano appese lì insieme ad altre armi. Le presentò al fratello, tenendole per la punta.
- Mackellar sorveglierà l'incontro, - disse; - credo che sia necessario.
- Non c'è bisogno di- altri insulti, - rispose il Signore di Ballantrae prendendo una delle spade a casaccio, - ti ho odiato tutta la vita.
- Mio padre è appena andato a letto, - proseguì Enrico, - bisogna andare in qualche posto fuori di casa.
- C'è un posto ottimo giù nel boschetto, - rispose il Signore di Ballantrae.
- Signori, - intervenni. - Onta su entrambi! Figli della stessa madre, vorreste attentare alla vita che ella vi ha dato?
- Proprio così., Mackellar, - rispose Enrico con lo stesso contegno perfettamente calmo di cui aveva fatto mostra fin dal principio.
- E' quello che impedirò, - dissi io.
E qui c'è una macchia nella mia vita. Alle mie parole, il Signore di Ballantrae rivolse la lama contro il mio petto; vidi un lampo correre lungo l'acciaio, e allora alzai le braccia e caddi in ginocchio sull'impiantito innanzi a lui.
No, no, - gridai, come un bambino.
- Costui non ci sarà più d'impaccio, - disse il Signore di Ballantrae. - E' bene avere un codardo, in casa.
- Avremo bisogno di luce, - disse Enrico, come se non ci fosse stata alcuna interruzione.
- Questo essere tremebondo può portare un paio di candele, - rispose il fratello.
Sia detto a mia vergogna, ero ancora così accecato dal lampeggiare della spada sguainata, che mi offersi di portare una lanterna.
- Non ci occorre una lanterna, - disse il Signore di Ballantrae, rifacendomi il verso. - Non spira 'un alito di vento. Su, alzati, prendi un paio di candelieri e va avanti. Io ti seguo da presso con questo... - e, mentre parlava, fece luccicare la lama.
Io presi i candelieri e precedetti i due fratelli; darei le dita di una mano, ora, per tornare su quei passi; ma un codardo non è mai nulla più di uno schiavo; e mentre camminavo, battevo ancora i denti. Fuori, era come mi era stato detto; non spirava un alito di vento; la morsa immobile del gelo serrava l'aria e mentre avanzavamo nella luce delle candele, il nero della notte era crome un tetto sul nostro capo. Non fu pronunziata una parola; non si udiva un suono, all'infuori dello scricchiolio dei nostri passi sul sentiero gelato. Il freddo della notte mi si rovesciò addosso come una secchia d'acqua; tremavo, nell'andare, non di solo terrore; ma i miei compagni, a capo scoperto come me e appena usciti dalla sala riscaldata, non parevano neppure consci del mutamento.
- Ecco il posto. - disse Enrico. - Mettete giù le candele.
Feci quanto mi veniva ordinato e subito le fiamme si levarono, ferme come in una camera, in mezzo agli alberi gelati e io vidi i due fratelli mettersi in posizione.
- Ho la luce negli occhi, - disse il primogenito.
- Ti darò tutti i vantaggi, - rispose Enrico, cambiando posizione sul terreno, - perché credo che tu sia vicino a morire.
Parlava con accento più che altro triste, ma c'era una vibrazione metallica nella sua voce.
- Enrico Durie, - disse il primogenito, - due parole prima di cominciare: tu sei schermitore e sai reggere un fioretto; non sai com'è diverso tenere in mano una spada! E per questo so che tu soccomberai. Ma vedi com'è forte la mia posizione! Se cadi tu, io me ne vado da questo paese, là dove già si trova il mio denaro. Se cado io, tu come resti? Mio padre, tua moglie che è innamorata di me (e tu lo sai benissimo), perfino la tua bambina che mi preferisce a te, come mi vendicheranno, tutti! Ci avevi pensato, caro Enrico? - e guardò il fratello. con un sorriso; poi salutò con la spada come in sala di scherma.
Enrico- non disse una parola, ma rispose al saluto e le spade cozzarono tintinnando.
Non posso dar giudizi sul combattimento; del resto, avevo perduto la testa, tra il freddo, l'orrore e la paura; ma pare che Enrico prendesse e mantenesse il sopravvento, fin dall'inizio dello scontro, incalzando il nemico con furia contenuta e ardente. Passo passo gli si fece sempre più vicino, finché a un tratto il Signore di Ballantrae fece un balzo indietro con un'imprecazione che parve un singulto e credo che quel movimento gli portasse di nuovo la luce negli occhi. Ripresero il combattimento nella nuova posizione, ma ora mi parevano più impegnati; Enrico incalzava più rabbiosamente e la sicurezza dell'altro era indubbiamente scossa. Indubbiamente si vide perduto e sentì il freddo mortale della paura; altrimenti non avrebbe mai tentato quel colpo sleale. Non posso dire di averlo seguito, perché il mio occhio non esercitato non era tanto pronto da afferrare i particolari, ma a quanto pare, afferrò con la sinistra la lama del fratello, e questa é una mossa non lecita. Certo, Enrico si salvò solo balzando da una parte; ed é altrettanto certo che l'altro, dando a fondo a vuoto, inciampò nel ginocchio del fratello e, prima che potesse muoversi, la spada gli aveva trapassato il corpo.
Gettai un grido soffocato e corsi verso di lui; ma il corpo era già caduto a terra, dove si contorse un momento come un verme calpestato e poi rimase immobile.
- Guardategli la mano sinistra, - disse Enrico.
- E' tutta insanguinata - risposi.
- Nel palmo? - chiese Enrico.
- C'é un taglio nel palmo, - risposi.
- Me lo immaginavo, - disse Enrico e si voltò dall'altra parte.
Io sbottonai le vesti al caduto; il cuore era immobile, senza un palpito.
- Dio ci perdoni, signor Enrico! - esclamai. - È morto!
- Morto? - ripeté Enrico come trasognato; e poi. alzando d'improvviso la voce: - Morto? morto? - aggiunse, e a un tratto scagliò a terra la spada insanguinata.
- Che si deve fare? - chiesi. - Rientrate in voi, signore. E troppo tardi, ormai; dovete rientrare in voi. Egli si voltò e mi guardò con gli occhi sbarrati.
- Oh, Mackellar! - esclamò; e si nascose il viso tra le mani. Lo afferrai per la giubba.
- Per l'amor di Dio, per l'amore di noi tutti, siate più coraggioso! - dissi. - Che si deve fare?
Egli si scoperse il viso e mi guardò con lo stesso sguardo trasognato.
- Fare? - ripeté. Il suo sguardo cadde sul corpo.
- Oh! - gridò, portandosi la mano alla fronte come se l'avesse dimenticato; e poi, voltandomi le spalle, prese a correre verso casa con passo stranamente malfermo.
Ebbi un momento di esitazione; poi mi parve che il mio dovere mi chiamasse molto chiaramente a fianco del vivo e lo rincorsi, lasciando sul terreno gelato le candele che illuminavano il corpo disteso sotto gli alberi. Ma, per quanto corressi, egli era in vantaggio ed era già entrato in casa, dove lo trovai, nel salone, in piedi davanti al fuoco; aveva di nuovo nascosto il viso tra le mani e rabbrividiva visibilmente.
- Signor Enrico, signor Enrico. - dissi - questo sarà la rovina di noi tutti.
- Che cosa ho fatto? - gridò Enrico; e poi, guardandomi con un'espressione che non dimenticherò mai: - Chi lo dirà al vecchio? - aggiunse.
A quelle parole ebbi un tuffo al cuore; ma non era il momento di debolezze. Andai e gli versai un bicchiere di acquavite.
- Bevete questo, - gli dissi. - Mandate giù.
Lo obbligai a inghiottirlo, come se fosse stato un bambino; e siccome ero ancora intirizzito dal freddo della notte, feci altrettanto anch'io.
- Bisogna dirlo, Mackellar, - diss'egli, - dobbiamo dirlo. - E d'improvviso si lasciò cadere su. di una sedia (era la sedia del vecchio Lord, presso il camino) e scoppiò in singhiozzi senza lagrime.
Lo sconforto mi invase l'animo; era chiaro che non si poteva contare su Enrico.
- Ebbene, - dissi, - state lì seduto e lasciate fare a me.
E, prendendo una candela, uscii dalla stanza e mi inoltrai nella casa buia. Nulla si muoveva; c'era da credere che tutto si fosse svolto inosservato, e ora si trattava di fare quello che restava da fare con altrettanta segretezza. Non era il momento di farsi degli scrupoli; apersi la porta della camera della signora senza neppur bussare ed entrai decisamente.
- E' successa una disgrazia? - esclamò la signora, levandosi a sedere sul letto.
- Signora, - dissi, - io ritorno nel corridoio e voi infilatevi i vestiti più presto che potete; c'è molto da fare.
Ella non fece domande e non mi fece aspettare. Prima che avessi il tempo di preparare una parola di quello che avevo da dirle, era sulla soglia e mi faceva cenno di entrare.
- Signora, - dissi, - se non potete essere molto coraggiosa, dovrò andare altrove; perché, se nessuno mi aiuta stanotte, questa sarà la fine della casa di Durrisdeer.
- Sono coraggiosissima-, mi rispose, guardandomi con una specie di sorriso, molto penoso a vedersi, ma anche molto valoroso.
- E' andata a finire con un duello, - dissi.
- Un duello! - ripeté la signora. - Un duello! Enrico e...
- E il Signore di Ballantrae, - finii. - Tante cose sono state sopportate per tanto tempo; cose di cui voi non sapete nulla e che non credereste se ve le raccontassi. Ma stanotte sono giunte a tal segno che, quando egli vi ha insultata...
- Aspettate - diss'ella. - Egli? Chi?
- Oh, signora, - esclamai in uno scoppio di amarezza, - e mi fate una domanda simile? Davvero bisogna che vada altrove in cerca di aiuto; non c'è nulla da sperare qui!
- Non capisco in che cosa io vi abbia offeso, - rispose. - Perdonatemi. Liberatemi da quest'ansietà.
Ma io non osavo ancora dirle tutto; non mi sentivo sicuro di lei; e, fra il dubbio e il senso di impotenza che ne derivava, investii la povera donna con un sentimento molto simile all'ira.
- Signora, - dissi, - stiamo parlando di due uomini; uno di loro vi ha insultata e voi mi chiedete chi é stato. Vi aiuterò a trovare la risposta. Con uno di questi uomini avete passato tutte le vostre ore; l'altro, vi ha rimproverata? Con uno di loro, siete sempre stata buona; con l'altro, com'è vero che Dio ci vede ed è giudice fra noi due, credo, non sempre. Vi è mai venuto meno il suo amore? Stanotte, uno di questi uomini ha detto all'altro in mia presenza, in presenza di un estraneo, un dipendente, che voi eravate innamorata di lui. Prima che io dica un'altra parola sola, dovrete rispondere voi alla vostra domanda: "Chi è stato?".- Anzi, signora, risponderete a un'altra domanda: " Se la cosa è finita in quest'orrenda maniera, di chi è la colpa?".
Ella mi fissava come imbambolata.
- Buon Dio! - disse una volta, e l'esclamazione parve proromperle dal petto; e poi, una seconda volta, a se stessa, in un bisbiglio: - Gran Dio! In nome di Dio, Mackellar, cosa è successo? - gridò. - Io sono pronta; posso udire tutto.
- Non siete degna di udirlo, - risposi. - Qualunque cosa sia, prima dovete dire che è stata colpa vostra.
- Oh, - esclamò, facendo l'atto di torcersi le mani, - quest'uomo mi farà impazzire! Non potete smettere di pensare a me?
- A voi non penso affatto, - risposi; - non penso ad altri che al mio caro e sventurato padrone.
- Ah! - esclamò, portandosi la mano al cuore. E' morto Enrico?
- Abbassate la voce, - dissi. - L'altro.
La vidi vacillare come una pianta mossa dal vento; e non so se per viltà o per desolazione, mi volsi dall'altra parte e guardai a terra.
- Queste sono tristissime nuove, - dissi finalmente, quando il suo silenzio cominciò a ispirarmi qualche timore, - e voi ed io dobbiamo essere tanto più arditi se vogliamo che la casa si salvi.
Ella taceva sempre.
- C'è poi Miss Caterina, - aggiunsi - e se non riusciamo a portare in fondo questa faccenda, la sua sarà probabilmente un'eredità di vergogna.
Non so se fosse il pensiero della bambina o la cruda parola "vergogna" che la scosse; ma non appena ebbi parlato, le sfuggì dalle labbra un suono quale non avevo mai udito: era come se ella giacesse sepolta sotto una montagna e si sforzasse di rimuoverne il peso. Un istante dopo aveva ritrovato qualcosa di simile a una voce.
- E stato un combattimento? - sussurrò. - Non è stato... - e si fermò a quella parola.
- E stato un combattimento leale da parte del mio caro padrone, - risposi. - Quanto all'altro, è stato ucciso proprio nell'atto di tentare un colpo sleale.
- Non ora! - esclamò.
- Signora, - dissi, - l'odio per quell'uomo mi divampa in cuore come una fiamma ardente; sì, anche ora che è morto. Sa Iddio che avrei impedito il duello, se avessi osato. Che .io non l'abbia fatto, è la mia vergogna. Ma se quando l'ho visto cadere, mi fosse rimasto un pensiero che non fosse di pietà per il mio padrone, sarebbe stato di esultanza per la nostra liberazione.
Non so se ella mi badasse; ma la sua prima parola fu:
- Milord?
- Me ne occuperò io, - dissi.
- Non parlerete a lui come avete parlato a me? - chiese.
- Signora, - dissi, - non avete qualcun altro a cui pensare? Lasciate Milord a me.
- Qualcun altro? - ripeté.
- Vostro marito, - dissi. Ella mi guardò con un'espressione indecifrabile.
- Gli volterete le spalle? - domandai. Ella mi guardava sempre; poi si portò la mano al cuore un'altra volta.
- No, - rispose.
- Dio vi benedica per questa parola! - esclamai. - Andate da lui, ora, in salone. Parlategli; poco importa quello che gli direte. Dategli la mano, ditegli: so tutto; e se Dio vi dà grazia, ditegli: perdonami.
- Dio vi dia forza e vi dia misericordia, - mi disse. - Vado da mio marito.
- Lasciate che vi faccia lume, - dissi, prendendo la candela.
- Troverò la via anche al buio, - rispose con un fremito; e credo che quel fremito fosse per me.
Così ci separammo; ella andò giù per le scale verso un po' di luce che brillava alla porta della sala, e io per il corridoio che menava alla camera di Milord. E difficile dire perché, ma non potei fare irruzione dal vecchio come avevo fatto con la giovane; sebbene con riluttanza, dovetti bussare. Ma il suo sonno di vegliardo era leggero o forse egli non dormiva; e, al primo colpo, fui invitato a entrare. Anch'egli si levò a sedere sul letto; sembrava vecchissimo ed esangue; e, mentre quando era vestito, con la luce del giorno, aveva una certa imponenza d'aspetto, ora appariva piccolo e fragile, e il suo volto (ora che egli aveva messo via la parrucca) non più grande di quello di un bambino. Quella vista mi intimidì, non meno dell'angoscioso presagio di sventura che aveva nello sguardo. Nondimeno, la sua voce era calma, quando mi chiese cosa c'era. Posai la candela su di una sedia, mi appoggiai alla spalliera ai piedi del letto e lo guardai.
- Lord Durrisdeer, - dissi, - sapete benissimo che io faccio delle parzialità nella vostra famiglia.
- Spero che nessuno di noi faccia parzialità, - mi rispose. - Sono sempre stato lieto di riconoscere che voi siete sinceramente affezionato a mio figlio.
- Oh, Milord, - non è più tempo di fare scambio di cortesia, - replicai. - Se vogliamo salvare qualcosa dal disastro, dobbiamo guardare in faccia il fatto nudo e crudo. Io sono parziale; tutti lo siamo stati, ed è come tale che sono venuto, in piena notte, a scongiurarvi. Ascoltatemi; e prima di andarmene, vi dirò il perché.
- Vi ascolterei in ogni caso, Mackellar, - diss'egli, - a qualsiasi ora del giorno o della notte, perché sarei sempre sicuro che lo fareste con una ragione. Una volta parlaste molto a proposito, non l'ho dimenticato.
- Sono qui per difendere la causa del mio padrone, - dissi. - Non occorre che vi dica come egli agisce. Voi sapete in che situazione si trovi. Sapete con quanta generosità è sempre venuto incontro all'altro... incontro ai vostri desideri, - mi corressi, incespicando sulla parola " figlio"-.Sapete... dovete sapere... quanto ha sofferto... quanto ha sofferto a causa di sua moglie.
- Signor Mackellar! - esclamò Milord, dando un balzo sul letto come un leone barbuto.
- Avete detto che mi avreste ascoltato, - continuai.
- Ciò che voi non sapete, ciò che dovreste sapere, una delle cose che sono venuto a dirvi, è la persecuzione che egli ha dovuto sopportare in segreto. Voi non fate in tempo a voltare le spalle, che immediatamente una persona che non oso nominarvi, comincia a tormentarlo nel modo più spietato; gli rinfaccia (perdonate, Milord), gli rinfaccia la vostra preferenza, lo chiama Giacobbe, lo chiama zotico, lo perseguita con ignobili canzonature che nessuno al mondo tollererebbe. E se uno di voi comparisce, egli cambia all'istante, e il mio padrone è costretto a sorridere e a trattare gentilmente l'uomo che lo ha ricoperto di insulti; lo so, perché ne ho avuto anch'io la mia parte e vi dico che è una vita intollerabile. Tutti questi mesi è durata; è cominciata col suo sbarco; è stato con il nome di Giacobbe che il mio padrone si è udito salutare di primo incontro.
Milord fece l'atto di gettare da parte le coperte e di alzarsi.
- Se c'è qualcosa di vero in tutto ciò... - disse.
- Ho l'aria di uno che menta? - interruppi, fermandolo con la mano.
- Avreste dovuto dirmelo fin dal principio, - disse.
- Ah, Milord! Davvero avrei dovuto, e ben potete odiare la faccia di questo servo infedele! - esclamai.
- Metterò ordine immediatamente, - disse Milord, e fece di nuovo l'atto di alzarsi.
Di nuovo lo arrestai.
- Non ho finito, - dissi. - Volesse Iddio che così fosse! Tutto ciò il mio caro e sventurato padrone ha sopportato senz'aiuto e senza sostegno. La vostra migliore parola, Milord, è stata soltanto gratitudine. Oh, ma anch'egli era vostro figlio! Non aveva altro padre. In paese era odiato, Dio sa quanto ingiustamente. Ha avuto un matrimonio senza amore. Non ha avuto affetto né sostegno da nessuna parte, caro, generoso, sventurato, nobile cuore!
- Le vostre lagrime fanno molto onore a voi e molta vergogna a me, - disse Milord, con un tremito da paralitico. - Ma voi mi fate un po' di torto. Enrico mi è sempre stato caro, anzi carissimo. Giacomo (non lo nego, Mackellar) mi è forse anche più caro; voi non avete veduto il mio Giacomo in luce molto favorevole; egli ha . molto sofferto per le sue disgrazie; e noi possiamo soltanto ricordare quanto sono state grandi e immeritate. E anche ora, il suo è il carattere più affettuoso. Ma non vi voglio parlare di lui. Tutto quello che dite di Enrico è verissimo, non me ne stupisco, so che è veramente magnanimo; voi direte che io ne approfitto? E' possibile; ci sono virtù pericolose, virtù che tentano gli sfruttatori. Mackellar, gliene darò ricompensa! Metterò tutto a posto. Sono stato debole e, quel che è peggio, sono stato ottuso.
- Non posso ascoltare i rimproveri che rivolgete a voi stesso, con tutto quello che ho ancora da dirvi e che mi pesa sulla coscienza, Milord, - risposi. - Voi non siete stato debole; siete stato ingannato da un dissimulatore diabolico. Voi stesso avete veduto come vi ha ingannato a proposito del suo pericolo; vi ha ingannati ad ogni passo del suo cammino. Vorrei sradicarvelo dal cuore: vorrei farvi rivolgere a forza gli occhi verso l'altro figlio; ah, avete un figlio in lui!
- No, no, - rispose egli. - due figli... ho due figli. Ebbi un gesto di disperazione che lo colpì. Egli mi guardò con espressione mutata.
- C'è di peggio? - chiese. E la voce gli mancò, nel momento stesso in cui formulava la domanda.
- Molto peggio, - risposi. - Stanotte egli ha detto a Enrico queste parole: " Non ho mai conosciuto una donna che non mi preferisse a te e che, credo, non continuasse a preferirmi...".
- Non voglio sentir nulla contro mia figlia, - gridò egli; e dalla sua prontezza nell'arrestarmi in quella direzione, conclusi che i suoi occhi non erano offuscati come avevo creduto e che aveva assistito non senza apprensione all'assedio della signora.
- Non penso a biasimarla, - risposi. - Non si tratta di questo. Queste parole furono dette a Enrico in mia presenza; e, se non le trovate ancora abbastanza chiare, eccone altre pronunziate poco dopo: "Tua moglie, che è innamorata di me".
- Hanno litigato? - chiese Milord.
Accennai di si.
- Volo da loro, - esclamò Milord, accingendosi ancora una volta a lasciare il letto.
- No, no! - gridai, tendendo le mani.
- Voi non sapete, - disse Milord, - sono parole pericolose, queste.
- Non c'è nulla che vi possa far capire, Milord? - esclamai.
I suoi occhi mi scrutarono, cercando la verità. Io mi gettai in ginocchio accanto al letto.
- Oh, Milord, - gridai, - pensate a colui che vi rimane. Pensate al povero peccatore che avete generato, che vostra moglie ha partorito, che nessuno di noi ha sostenuto come avrebbe dovuto; pensate a lui, non a voi stesso! Anch'egli soffre; pensate a lui! Quella è la porta del dolore; la porta di Cristo, la porta di Dio! Oh! è spalancata. Pensate a lui, come egli ha pensato a voi."Chi lo dirà a quel povero vecchio?", queste sono state le sue parole. E' per questo che sono venuto; per questo che sono qui ai vostri piedi a implorarvi.
- Fatemi alzare, - gridò, spingendomi da una parte; e fu in piedi prima di me. La sua voce tremava come una vela al vento, pure egli parlava abbastanza forte; il suo viso era bianco come la neve, ma i suoi occhi erano fermi e asciutti.
- Troppe parole, - disse. - Dov'è stato?
- Nel boschetto, - risposi.
- Ed Enrico? - chiese. E quando glielo ebbi detto, il suo vecchio volto si aggrottò, pensieroso.
- E Giacomo? - disse.
- L'ho lasciato disteso accanto alle candele, - risposi.
- Le candele! - esclamò. E corse subito alla finestra, l'aperse e guardò fuori.
- Si potrebbe vedere dalla strada, - disse.
- Non passa nessuno a quest'ora, - replicai.
- Non fa nulla, - ribatté egli. - Potrebbe darsi. Ascoltate! - esclamò. - Che cos'è?
Era il rumore di qualcuno che remava, molto guardingo, nella baia; glielo dissi.
- I contrabbandieri, - disse Milord. - Correte subito, Mackellar, spegnete quelle candele. Intanto io mi vesto; al vostro ritorno, discuteremo sul partito più saggio da prendere.
Scesi le scale e trovai la porta a tentoni. A una considerevole distanza era visibile un chiarore che punteggiava di luce il boschetto; in una notte così nera si sarebbe potuto notare per miglia all'ingiro, ed io mi rimproverai aspramente la mia poca cautela. E tanto più aspramente me la rimproverai, quando fui giunto sul posto! Uno dei due candelieri era stato rovesciato e la candela si era spenta. L'altro seguitava ad ardere da solo e disegnava un vasto spazio di luce sul terreno gelato. Entro quel cerchio luminoso, per contrasto con l'oscurità circostante, tutto sembrava più chiaro che in pieno giorno. Nel mezzo c'era la macchia di sangue e, un po' più in là, la spada di Enrico con l'elsa d'argento; ma del corpo, nessuna traccia. Il cuore mi martellava contro le costole e i capelli mi si rizzavano sul capo, mentre mi guardavo intorno, tanto strano era quello spettacolo e tanto atroci erano i timori che ridestava. Guardai a destra e a sinistra; ma il terreno indurito dal gelo non rivelava nulla. Rimasi in ascolto finché cominciarono a dolermi gli orecchi, ma la notte intorno a me era una cavità senza suono come una chiesa vuota; non si udiva neppure lo sciacquio di un'onda sulla spiaggia; si sarebbe potuto udire uno spillo cadere nella contea. Spensi la candela, e il nero della notte fonda mi piombò addosso; era come se una folla mi avesse circondato; e tornai verso la casa di Durrisdeer, voltandomi continuamente a guardarmi alle spalle, trasalendo, lungo la via, per vili timori. Sulla porta una figura mi si fece incontro e io fui sul punto di gridare di terrore, prima di riconoscere la signora.
- Glielo avete detto? - mi chiese.
- È lui che mi ha mandato, - risposi. - Non c'è più. Ma voi perché siete qui?
- Non c'è più! - ripeté. - Che cosa non c'è più?
- Il corpo, - dissi. - Perché non siete con vostro marito?
- Non c'è più? - disse ella. - Non potete aver guardato. Torniamoci.
- Non c'è luce, ora; - dissi. - Non oso.
- Io ci vedo anche al buio. Sono stata qui tanto tempo... tanto tempo, - disse. - Venite, datemi la mano.
Tenendoci per mano, tornammo nel boschetto e nel luogo fatale.
- Badate al sangue, - dissi.
- Sangue? - gridò, e fece un balzo indietro.
- Immagino che sia lì, - dissi, - io sono come cieco.
- No! - diss'ella. - Niente! Non avete sognato?
- Ah, Dio volesse! - esclamai.
Ella scorse la spada; la raccolse, e poi, vedendo il sangue, la lasciò ricadere aprendo le mani. - Ah! - gridò.
E poi, con subito coraggio, l'afferrò un'altra volta e la cacciò fino all'elsa nel terreno gelato.
- La riporterò a casa e la pulirò per bene, - disse, e poi guardò tutto in giro.
- Non potrebbe darsi che non fosse morto? - chiese poi.
- Il cuore non aveva più un palpito, - dissi; e poi, ricordando: - Perché non siete con vostro marito?
- E' inutile, - rispose. - Non mi vuoi parlare.
- Non vuoi parlare a voi? - ripetei. - Oh! Non avete provato.
- Avete il diritto di dubitare di me, - rispose con dolce dignità. A quelle parole, per la prima volta, provai pena per lei.
- Dio sa, signora, - esclamai, - Dio sa che non sono duro come sembro; chi, in questa notte spaventosa, potrebbe misurare le parole? Ma sono amico di chiunque non sia nemico di Enrico Durie.
- E' duro allora, che esitiate verso sua moglie.
Allora, come per il lacerarsi di ,un velo, vidi ad un tratto con quanta nobiltà ella avesse sopportato quella atroce sventura e con quanta generosità i miei rimproveri.
- Bisogna tornare indietro e dirlo a Milord,- dissi.
- Non posso affrontare Milord, - disse la signora.
- Vedrete che è il meno turbato di tutti noi, dissi.
- Eppure non lo posso affrontare, - ripeté.
- Ebbene, - dissi, - potete tornare dal signor Enrico e io andrò da Milord.
Mentre tornavamo, io portando i candelieri ed ella la spada (strano fardello per quella donna), ella ebbe un altro pensiero:
- Dobbiamo dirlo a Enrico? - domandò.
- Lasciamo decidere a Milord, - risposi.
Milord era quasi vestito, quando giunsi alla sua camera. Mi ascoltò aggrottando la fronte.
- I contrabbandieri, - disse. Ma vivo o morto?
- Io lo credevo... - dissi e mi fermai, vergognandomi della parola.
- Lo so; ma potreste benissimo esservi ingannato. Perché lo avrebbero portato via, se non era vivo? Oh! - aggiunse, - s'apre una gran porta alla speranza. Bisogna mettere in giro la voce che è partito, come era venuto, senza preavviso. Dobbiamo evitare ogni scandalo.
Vidi che anch'egli, come tutti noi, si era messo a pensare alla casa innanzi tutto. Ora che tutti i membri viventi della famiglia erano irrimediabilmente sprofondati nel dolore, era strano che ci rivolgessimo tutti all'idea astratta della famiglia e cercassimo di puntellare quella bolla d'aria che era la sua riputazione; e non i Durie soltanto, ma anche l'amministratore stipendiato da loro.
- Dobbiamo dirlo a Enrico? - chiesi.
- Vedremo, - rispose. - Prima andrò a trovarlo; poi verrò con voi a esaminare il boschetto e ci penseremo.
Scendemmo in sala. Enrico era seduto vicino al tavolo con la testa appoggiata alla mano e sembrava di sasso. La moglie era in piedi, un po' indietro, con la mano davanti alla bocca; era evidente che non era riuscita a scuoterlo. Il vecchio Lord si mosse con passo fermissimo alla volta del figlio; anche l'espressione del suo volto era ferma, ma mi parve un po' fredda. Quando gli fu proprio- accanto gli tese tutt'e due le mani e disse:
- Figlio mio!
Con un grido strozzato, Enrico balzò su e si gettò fra le braccia del padre, gridando e piangendo; era lo,spettacolo più pietoso di cui un uomo sia mai stato testimonio.
- Oh, padre! - gridava. - Lo sapete che gli volevo bene; lo sapete che gli volevo bene in principio; sarei morto per lui, voi lo sapete! Avrei dato la vita per lui e per voi. Oh! ditemi che lo sapete! Oh, ditemi che mi perdonate! Oh, padre, padre, che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto? E siamo stati bambini insieme!
E piangeva e singhiozzava e carezzava il vecchio e si stringeva a lui, con la frenesia di un bimbo terrorizzato.
E poi scorse (si sarebbe detto per la prima volta) la moglie che piangeva nell'ascoltarlo, e in un istante fu ai suoi piedi.
- Oh, bimba mia, - gridò, - anche tu mi devi perdonare! Non tuo marito... io sono stato soltanto la rovina della tua vita. Ma tu mi hai conosciuto quando ero un ragazzino; non c'era cattiveria in Enrico Durie allora; voleva, sì, esserti amico, allora. E' lui, è il ragazzino di una volta che giocava con te... oh, non potrai perdonargli mai, mai più?
A tutto questo Milord assisteva come uno spettatore, freddo e cortese, con una completa padronanza di sé. Al primo grido che veramente sarebbe bastato a fare accorrere tutta la casa, mi aveva detto, al disopra della spalla: - Chiudete la porta.
E ora crollava il capo, soprappensiero.
- Possiamo lasciarlo a sua moglie, ora, - disse. - Fate lume, Mackellar.
Tornando fuori con Milord, ebbi la sensazione di uno strano fenomeno; sebbene fosse ancora completamente buio e la notte non molto inoltrata, mi parve di avvertire nell'aria il profumo dell'alba. Nello stesso momento, un fremito passò fra i rami dei sempreverdi che frusciarono come un mare calmo, e un soffio d'aria ci alitò su] viso e la fiammella della candela vacillò. Quel tramestio intorno a noi ci fece ancora affrettare il passo; visitammo la scena del duello, e Milord guardò il sangue con stoicismo; inoltrandoci verso l'approdo, trovammo finalmente qualche traccia dell'avvenuto. Anzitutto il ghiaccio di una pozzanghera proprio nel mezzo del sentiero era stato sfondato, evidentemente dal peso di più uomini; poco oltre, c'era un arboscello schiantato, e giù, vicino all'approdo, nel punto in cui di solito venivano tirate in secco le barche dei contrabbandieri, un'altra macchia di sangue segnava il posto dove, indubbiamente, il corpo era stato adagiato per permettere a chi lo portava di riposare.
Ci mettemmo a lavare la macchia con l'acqua del mare, portandola nel cappello di Milord; ed eravamo occupati in questa bisogna, quando un'improvvisa folata sopraggiunse ululando sommessamente e ci lasciò al buio all'istante.
- Sta per nevicare, - disse Milord. - È il meglio che si possa sperare. Torniamo indietro; non si può far nulla al buio.
Mentre tornavamo verso casa, il vento si era calmato di nuovo; udimmo un forte picchiettio intorno a noi, nella notte e quando uscimmo dal riparo degli alberi, ci accorgemmo che pioveva a dirotto.
Per tutto il tempo, la chiarezza d'idee di Milord non cessò di imporsi alla mia ammirazione, come pure la sua vitalità fisica. Egli coronò l'opera con, il consiglio che tenemmo al nostro ritorno. I contrabbandieri si erano certamente impadroniti del Signore di Ballantrae, sebbene ci restasse da congetturare se vivo o morto; la pioggia, molto prima dell'alba, avrebbe cancellato ogni traccia dell'accaduto; dovevamo approfittarne. Il Signore di Ballantrae era arrivato inopinatamente dopo il calar del sole; bisognava ora dare a credere che fosse ripartito, altrettanto inaspettatamente, prima dello spuntar del giorno; e, per rendere plausibile la cosa, non mi restava che andare su nella sua camera, mettere la sua roba nei bauli e nascondere il bagaglio. E' vero che saremmo stati pur sempre alla mercé dei contrabbandieri, ma quello era irrimediabilmente il punto debole del nostro fallo.
Lo ascoltai, come ho detto, con ammirazione, e mi affrettai ad obbedire. Enrico e la signora avevano lasciato la sala; Milord si affrettò a ritornare a letto in cerca di calore; i servi non davano ancora segno di vita, e io, nel salire le scale e nell'entrare nella camera del morto, mi sentivo gravare sull'animo l'orrore della solitudine. Con mio enorme stupore trovai ogni costa nel disordine della partenza. Delle tre sacche da viaggio, due erano già state chiuse; la terza era aperta e quasi piena. Mi balenenò subito alla mente il sospetto della verità. Dunque colui era stato sul punto di andarsene; non aveva aspettato che Crail, e Crail non aspettava che il vento; verso le prime ore della notte, i marinai si erano accorti di un mutamento nel tempo e la barca era venuta a terra per avvertire del mutamento e per chiamare a bordo il passeggero, e la ciurma aveva inciampato nell'uomo che giaceva a terra immerso nel proprio sangue.
Proprio così; ma c'era dell'altro. Quella partenza prestabilita faceva una certa luce sull'incomprensibile insulto della sera prima; era il colpo di grazia, ora che l'odio non era più tenuto a freno da ragioni diplomatiche. E, per dirne un'altra, sia la natura dell'insulto che il contegno della signora parevano indicare un'unica conclusione che non ho mai certificato e che, ormai, non potrò verificare fino al giorno del Giudizio finale; la conclusione, cioè, che egli alla fine aveva perduto il dominio di sé, si era spinto troppo oltre nella sua corte e ne aveva ricevuto un rabbuffo. Questo, come ho detto, non si può provare; ma quella mattina, fra i bagagli, ci pensavo, e quel pensiero mi pareva dolce come il miele. Frugai un po' nella sacca da viaggio aperta, prima di chiuderla. I più bei merletti e la biancheria più fine. molti di quei begli abiti in tinta unita che egli si compiaceva di indossare; un paio dei libri migliori, i Commentari di Cesare, un volume di Hobbes, l'Henriade di Voltaire, un libro sulle Indie, uno di matematica, molto più esteso di quella da me studiata; questi furono gli oggetti che esaminai con sentimenti assai contrastanti. Ma nella sacca aperta, non c'erano carte di sorta. Questo mi dette da pensare. Poteva darsi che l'uomo fosse morto; ma, dal momento che i contrabbandieri lo avevano portato via, non era probabile. Poteva anche darsi che morisse in conseguenza della ferita, ma poteva anche darsi di no. E, in quest'ultimo caso, ero ben deciso a procurarmi i mezzi della difesa.
Uno dopo l'altro, portai i bauli in un abbaino in cima alla casa che tenevamo sempre chiuso; andai in camera mia a prendere le chiavi e tornai all'abbaino, dove ebbi la soddisfazione di trovarne due che andavano veramente bene. In una delle sacche c'era una cartella per le lettere in pelle di zigrino ed io l'apersi tagliandola col temperino; e da quel momento, quell'uomo fu alla mia mercé. C'era una gran quantità di lettere galanti, soprattutto dell'epoca parigina; e, ciò che rispondeva meglio allo scopo, c'erano le copie dei suoi rapporti al Segretario di Stato inglese e gli originali delle risposte; una raccolta di lettere ignobili, la cui pubblicazione sarebbe bastata a disonorare il Signore di Ballantrae e a mettere a prezzo la sua vita. Nello scorrere quei documenti, ridacchiavo fra me e me, mi stropicciavo le mani e, nel mio giubilo, cantavo ad alta voce. L'alba mi trovò intento alla gradevole bisogna; ma neanche allora rallentai la mia attività, se non per andare alla finestra, guardar fuori un momento e vedere che il gelo era finito e la terra era ridiventata nera e il vento e la pioggia imperversavano sulla baia e per assicurarmi che il due alberi aveva levato l'ancora e che il Signore di Ballantrae (morto o vivo che fosse) era ormai sballottato dalle onde sul mare d'Irlanda.
Mi pare opportuno aggiungere qui quel poco che riuscii in seguito a ricostruire dei fatti di quella notte. Per raccapezzare questi dati mi ci volle moltissimo tempo, perché noi non osavamo fare domande dirette, e i contrabbandieri mi consideravano con ostilità, se non con disprezzo. Passarono quasi sei mesi prima che venissimo a sapere per certo che il Signore di Ballantrae era sopravvissuto; e ci vollero anni prima che io apprendessi da uno degli uomini di Crail, il quale aveva messo su un'osteria coi suoi loschi guadagni, alcuni particolari che avevano un certo sapore di verosimiglianza. A quanto pare, i contrabbandieri trovarono il caduto che si sforzava di sollevarsi sul gomito, guardandosi attorno e poi,fissando volta a volta la candela e la mano ricoperta di sangue, come uno smemorato. Quando li vide avvicinarsi parve ritrovare la memoria e ordinò loro di portarlo a bordo e di star zitti, e al capitano che gli chiedeva come avesse fatto a cacciarsi in quei guai, rispose con uno scoppio di bestemmie furibonde e svenne immediatamente.
Quelli discussero un po', ma aspettavano che si levasse il vento da un momento all'altro, erano molto ben pagati per farlo passare in Francia di nascosto e non avevano voglia di rinviare. A parte questo, quegli abbominevoli scellerati gli volevano abbastanza bene; lo credevano sotto pena capitale, non sapevano in quale tafferuglio si fosse buscata la ferita e ritennero di fare opera buona allontanandolo dal pericolo. E così fu portato a bordo; durante, la traversata guarì e fu sbarcato convalescente al porto di Le-Havrede-Grace. Cosa veramente degna di nota, non fece mai parola a nessuno del duello; e nessuno dei contrabbandieri ha mai saputo fino ad oggi, in quale contesa e per mano di quale avversario egli fosse caduto. In chiunque altro avrei attribuito il silenzio a un naturale senso di decoro; in lui, ad orgoglio. Non poteva adattarsi a confessare, forse neppure a se stesso, di essere stato sconfitto da un uomo che aveva tanto insultato e che disprezzava tanto fieramente.



CAPITOLO SESTO


SOMMARIO DEGLI AVVENIMENTI VERIFICATISI DURANTE LA SECONDA ASSENZA DEL SIGNORE DI BALLANTRAE

Quando penso alla grave malattia che si manifestò il mattino seguente, posso giudicarla con imparzialità, l'ultima disgrazia vera e propria toccata al mio padrone; e chi sa che non sia stata in fondo una grazia; perché quale sofferenza del corpo avrebbe mai potuto eguagliare in lui il tormento dell'anima? La signora ed io vegliavamo al suo capezzale. Il vecchio Lord veniva di tanto in tanto a chiedere notizie, ma di solito non oltrepassava la soglia. Una volta, ricordo, che quasi non c'era più speranza, si avvicinò al letto, guardò un po' in viso il figlio e poi si scostò alzando la mano e volgendo il capo con un. gesto singolare che mi è rimasto nella memoria come qualcosa di tragico, tali erano il dolore e lo sprezzo delle cose terrene che vi erano espressi. Ma, per lo più, la signora ed io eravamo soli in camera; ci davamo il turno di notte, e il giorno ci facevamo compagnia, perché l'assistenza ci era grave. Enrico, con il capo rasato avvolto in un fazzoletto, si dibatteva senza posa, percuotendo il letto con le mani. La sua lingua non si fermava mai, la sua voce scorreva come un fiume, senza intermittenze, tanto che avevo perfino il cuore stanco a furia di udirne il suono. Cosa degna di nota (e per me causa di indicibile mortificazione), egli parlava sempre di cose senza importanza; arrivi e partenze, cavalli (che ordinava sempre di sellare, forse illudendosi, poveruomo, di poter sfuggire alla sua pena), questioni che riguardavano il giardino, reti per i salmoni e (ciò che mi indispettiva in particolar modo) i suoi affari, citando numeri e cifre e disputando con i fittavoli. Mai una parola del padre, né della moglie, né del fratello, salvo che per un giorno o due, in cui la sua mente fu rivolta interamente al passato ed egli si credette di nuovo bambino, intento con il fratello a qualche innocente gioco infantile. Particolare che rese più commovente la cosa, pare che a quel tempo il primogenito avesse corso un rischio mortale, perché il grido: Oh, Giacomino annega! salvate Giacomino! ., ritornava di continuo in tono appassionato.
Questo, come ho detto, commosse sia la signora che me; ma il bilancio dei vaneggiamenti del mio padrone non tornò a suo onore. Si sarebbe detto che si fosse messo d'impegno a giustificare tutte le calunnie del fratello, come se avesse voluto provarci di essere un uomo arido, intento solo a far quattrini. Se fossi stato solo non me ne sarei turbato più che tanto; ma mentre ascoltavo, calcolavo l'effetto sulla moglie e ml dicevo che, giorno per giorno, egli cadeva sempre più in basso nella sua stima. Io ero l'unica persona sulla faccia della terra che lo comprendesse e avrei voluto che ce ne fosse un'altra. Sia che egli fosse condannato a morire e le sue virtù a scomparire con lui, sia che fosse destinato a salvare i suoi giorni e a ritornare a quel retaggio di dolore che era la sua sana memoria; avrei voluto che fosse sentitamente rimpianto nel primo caso e spontaneamente bene accolto nel secondo, dalla persona che gli era più cara, sua moglie.
Alla fine, non riuscendo a trovare l'occasione di parlare liberamente, pensai di preparare una specie di rivelazione documentata; e per qualche notte, quando ero libero e avrei dovuto essere a letto, dedicai il mio tempo alla preparazione di ciò che potrei chiamare il mio incartamento. Mi dovetti accorgere, però, che questa era la parte più facile del mio compito e che invece ciò che mi restava da fare, cioè la presentazione della pratica alla signora era quasi superiore alle mie forze. Per parecchi giorni andai in giro con le mie carte sotto il braccio, spiando la possibilità di uno spiraglio nella conversazione che mi servisse di introduzione. Non negherò che se ne presentasse qualcuna; soltanto, ogni volta, la lingua non mi si voleva spiccicare dal palato e credo che porterei in giro il mio pacco ancora oggi, se un caso fortunato non mi avesse aiutato a vincere la mia esitazione. Questo capitò una sera che io ero in procinto di lasciare la camera senza aver fatto ancora nulla, disperato della mia vigliaccheria.
- Che cosa vi portate dietro. Mackellar? -. chiese la signora. - In questi ultimi giorni, vi ho sempre veduto entrare e uscire con quella bracciata di roba.
Ritornai sui miei passi senza una parola, posai le carte sul tavolo innanzi a lei e la lasciai alla sua lettura. Per darvi qui un'idea di che si trattasse, la cosa migliore sarà di riprodurre una mia lettera che era la prima dell'incartamento, e di cui, secondo un'ottima abitudine, ho serbato la minuta. Servirà anche a provare la mia discrezione in questa faccenda, cosa che alcuni hanno inconsideratamente messo in dubbio.

Durrisdeer, 1757
Onoratissima signora,
Garantisco che non mi prenderei mai una libertà senza ragione; ma ho veduto quanto male è derivato per il passato a tutti i componenti della vostra nobile famiglia dall'infelice mania della segretezza e della reticenza e, inoltre, le carte sulle quali mi permetto di richiamare la vostra attenzione sono carte di famiglia che meritano ampiamente di essere portate a vostra conoscenza.
Unisco un'appendice contenente alcune indispensabili osservazioni e sono, onoratissima signora, obbligatissimo e obbedientissimo servo della Signoria Vostra Ill.ma
EFRAIM MACKELLAR
Lista dei documenti:
A. Minuta di dieci lettere inviate da Efraim Mackellar all'on., Giacomo Durie, detto Signore di Ballantrae, durante la residenza a Parigi di quest'ultimo; in data... (seguono le date).
Nota: da leggersi in relazione a B. e C.
B. Sette lettere originali del detto Signore di Ballantrae al detto E. Mackellar (n data... (seguono le date).
C. Tre lettere originali del detto Signore di Ballantrae all'ill.mo sig. Enrico Durie, in data... (seguono le date).
Nota: Datemi per la risposta dal sig. Enrico Durie, copie delle risposte ai numeri A4, A5 e A9 di questa pratica. Il tenore delle comunicazioni del sig. Enrico (delle quali non ho potuto trovare la minuta) si può desumere dal contenuto delle lettere del suo snaturato fratello.
D. Corrispondenza (originali e minute) comprendente un periodo di tre anni fino al gennaio dell'anno in corso, fra il detto Signore di Ballantrae e X. Y., Sottosegretario di Stato. Ventisette in tutto.
Nota: trovate fra le carte del Signore di Ballantrae.

Sfinito com'ero dalle veglie e dalle ansie, mi fu impossibile prender sonno. Passeggiai tutta la notte per la camera rimuginando in mente quale sarebbe stato il risultato della mia mossa; e talvolta rammaricandomi amaramente della temerità con cui mi ero immischiato in affari così personali; e, con la prima luce dell'alba, tornai in camera del malato. La signora aveva spalancato gli scuri e anche i vetri, perché la temperatura era mite. Guardava fisso innanzi a sé, dove non c'era nulla da vedere, se non l'azzurro del mattino che s'insinuava fra i boschi. Al rumore che feci entrando non volse neppure il capo; questa circostanza mi parve di pessimo augurio.
- Signora... - cominciai; e poi, di nuovo - Signora...
Ma non riuscii a proseguire, né la signora venne in mio soccorso con una sola parola. In quel frangente, cominciai a riunire le carte sparse sul tavolo, e la prima cosa che mi colpì fu che la loro mole sembrava diminuita. Le scorsi una volta, e poi una volta ancora; ma la corrispondenza con il Segretario di Stato, sulla quale io avevo tanto contato in vista dell'avvenire, non c'era più. Guardai nel caminetto; fra le braci fumanti, nere ceneri di carta palpitavano nella corrente d'aria; e, a quella vista, la mia timidezza svanì:
- Buon Dio, signora, - gridai, con voce che mal si addiceva alla camera di un malato. - Buon Dio, signora, che ne avete fatto delle mie carte?
- Le ho bruciate, - rispose la signora voltandosi. -
Basta, ed è anche troppo, ché le abbiamo vedute voi ed io.
- Avete fatto una buona nottata di lavoro! - esclamai. - E tutto per salvare la riputazione di un uomo che inzuppava il suo pane nel sangue del fratello, come io inzuppo la penna nell'inchiostro.
- Per salvare la riputazione della famiglia che servite, Mackellar, - ribatté la signora, - e per la quale avete già fatto tanto.
- E' una famiglia che non servirò più a lungo, - gridai,. - perché voi mi avete spinto alla disperazione. Mi avete strappato l'arma di mano, ci avete lasciato tutti senza difesa. Avevo quelle lettere e potevo sempre tenergliele sospese sul capo, e ora che faremo? La nostra posizione è tanto falsa che non osiamo mettere alla porta quell'uomo; tutto il contado farebbe fuoco e fiamme contro di noi; e io avevo quell'unica presa su di lui...
e ora non l'ho più. Quell'uomo può tornare domani e noi tutti ci dovremo sedere a tavola con lui e accompagnarlo a fare due passi in terrazza, o magari, fare perfino una partitina a carte per divagarlo! No, signora! Dio vi perdoni, se può, ma io non posso.
- Mi stupisco di trovarvi tanto ingenuo, Mackellar, - rispose la signora. - Che valore ha la riputazione per quell'uomo? ma egli sa quanto la valutiamo noi; sa che preferiremmo morire piuttosto che pubblicare quelle lettere; e voi credete che, sapendolo, non ne approfitterebbe? Quella che voi chiamate la vostra arma, Mackellar (e che difatti sarebbe tale contro un uomo che avesse un avanzo di decoro), non sarebbe che un'arma di cartapesta contro di lui. Vi riderebbe in faccia, a una minaccia simile. Egli si appoggia alla sua abbiezione e ne fa la sua forza; è vano lottare con gente come lui.
Disse le ultime parole quasi con disperazione e poi aggiunse con più calma:
- No, Mackellar; ci ho pensato tutta la notte e non c'è via d'uscita. Carte o non carte, la porta di questa casa gli è aperta; egli è il legittimo erede. Se tentassimo di escluderlo, tutto ricadrebbe sul povero Enrico e lo vedremmo un'altra volta preso a sassate per le strade. Ah! se Enrico muore, è. un'altra faccenda. Hanno abolito il maggiorasco per il loro tornaconto; la proprietà
passa a mia figlia, e voglio vedere allora chi ci metterà piede. Ma se Enrico vive, caro Mackellar, e quell'uomo ritorna, dovremo soffrire. Solo, questa volta soffriremo insieme.
Nel complesso, ero molto contento dell'atteggiamento della signora e non potevo disconoscere una certa logica in quello che aveva accennato a proposito delle carte.
- Non ne parliamo più, - dissi. - Mi rincresce soltanto di avere affidato a una dama gli originali; il che, se non altro, è stato un procedere indegno di un uomo di affari. Quanto a lasciare il servizio della famiglia, quello che ho detto, l'ho detto solo con la bocca. Io appartengo a Durrisdeer, signora, come se ci fossi nato.
Per renderle giustizia, debbo dire che ella apparve molto sollevata; cosicché da quella mattina i nostri rapporti si stabilirono, come dovevano continuare per tanti anni, su una conveniente base di reciproca indulgenza e reciproco rispetto.
Lo stesso giorno che certamente doveva essere consacrato alla gioia, notammo in Enrico il primo sintomo di miglioramento; verso le tre del pomeriggio seguente riprese conoscenza e mi chiamò per nome, con i segni dell'affetto più vivo. Anche la signora era in camera, ai piedi del letto; ma egli non parve accorgersi di lei. E veramente, ora che la febbre era cessata, egli era talmente debole che dopo quell'unico sforzo, ricadde nel suo letargo. Da allora la sua guarigione seguì un corso lento ma regolare; l'appetito aumentava di giorno in giorno e, settimana per settimana, lo si vedeva aumentare di peso e rimettersi in carne. Prima della fine del mese aveva lasciato il letto e cominciava perfino ad essere portato in terrazza sulla seggiola. Forse fu quello il periodo in cui la signora ed io ci sentimmo più inquieti. Le apprensioni per la sua vita erano finite ed erano state sostituite dalla paura di qualcosa di peggio. Ci rendevamo conto che ogni giorno che passava ci avvicinava alla resa dei conti; e i giorni passavano e ancora non accadeva nulla. Enrico riacquistava le forze, faceva con noi lunghe conversazioni su una quantità di argomenti diversi; suo padre veniva e si sedeva accanto a lui e poi se ne andava; e ancora nessun accenno alla passata tragedia o ai primi guai che ne erano stati la causa. Ricordava egli e celava il suo tremendo ricordo? o tutto era stato cancellato dalla sua mente? Questo era il problema che ci teneva sospesi e tremanti tutto il giorno e che ci teneva desti la notte nei nostri letti solitari. Non sapevamo neppure in quale alternativa sperare, tanto entrambe apparivano poco. naturali e tanto nettamente indicatrici di una mente insana. Una volta ridestatosi questo timore sorvegliai la sua condotta con attenzione scrupolosa. Qualcosa di infantile era evidente in lui: una gaiezza del tutto estranea al suo carattere di una volta, un interesse facilmente eccitato (e poi tenacissimo) per piccole cose che prima di allora aveva sempre disprezzato. Fino al momento della malattia, io ero stato il suo solo confidente e, posso dire, il suo solo amico, e i suoi rapporti con la moglie erano stati molto tesi; al momento della guarigione, tutto cambiò: il passato parve dimenticato e la moglie divenne il primo, anzi l'unico pensiero. Egli si rivolgeva a lei in tutte le sue emozioni, come un bambino alla madre e pareva sicuro della sua comprensione; la chiamava in tutte le sue necessità, con un po' di quella familiarità stizzosa di chi è certo di trovare indulgenza; e debbo dire, a onore della donna, che non veniva mai deluso. Per lei, veramente, quel mutato contegno era inesprimibilmente penoso, e credo che, dentro di sé, lo sentisse come un rimprovero; e, nei primi tempi, l'ho veduta spesso uscire dalla camera di soppiatto per poter dare libero sfogo alle lagrime. Ma a me quel mutamento non sembrava naturale e osservandolo unitamente a tutto il resto, cominciavo a chiedermi, con molto crollar di capo, se la ragione di Enrico fosse perfettamente a posto.
Siccome questo dubbio si protrasse per molti anni e, anzi, durò fino alla morte del mio padrone e stese un'ombra su tutti i nostri ulteriori rapporti, posso soffermarmi a parlarne più diffusamente.
Quando egli fu in grado di riprendere in parte la cura dei suoi interessi, ebbi spesso occasione di sondarlo con più esattezza. Non c'era in lui mancanza di comprensione e neppure di autorità; ma l'antico ininterrotto interesse era completamente scomparso; si stancava presto e cominciava a sbadigliare; e nelle questioni di denaro (dove la cosa è certamente fuori luogo) metteva una facilità che confinava con la trascuratezza. E' vero che da quando non avevamo più da far fronte alle estorsioni del Signore di Ballantrae, avevamo meno bisogno di elevare la rigidezza a principio e di sostenere battaglie per i centesimi. Era anche vero che in quella sua rilassatezza non c'era nulla di eccessivo, altrimenti io non me ne sarei mai reso complice. Ma tutto l'insieme era indizio di un cambiamento, lievissimo, sì, ma chiaramente percettibile; e sebbene nessuno, certo, potesse dire che il mio padrone era uscito di senno, nondimeno nessuno poteva negare che avesse deviato dal suo vero carattere. Fu così fino all'ultimo momento, anche nell'aspetto, e nel modo di fare. Qualcosa del calore della febbre gli era rimasto nelle vene; i movimenti un po' frettolosi, la parola notevolmente più volubile, ma né quelli né questa veramente sconnessi. Tutto il suo animo era aperto alle impressioni gradevoli, le accoglieva con gioia e ne godeva profondamente; ma il minimo accenno di fastidio o di dolore era ricevuto con visibile impazienza e quindi abbandonato con immediato sollievo. Fu a questa disposizione di spirito che egli dovette la felicità dei suoi ultimi anni; eppure, se quell'uomo poteva essere chiamato insano in qualche cosa, era proprio in questo. Gran parte di questa vita consiste nella contemplazione di cose che non ci è dato rimediare; ma Enrico, se non riusciva a ignorare le preoccupazioni, doveva sull'istante e a qualunque costo, annientarne la causa; e in tal modo, faceva, volta a volta, la parte dello struzzo e quella del toro. E' a questa persistente viltà di fronte alla sofferenza che debbo attribuire tutti i passi disgraziati o esagerati della sua successiva carriera. Fu certo questa la ragione per cui picchiò McManus, lo staffiere; una cosa tanto fuori delle sue consuetudini di prima e che sollevò tanti commenti a quel tempo. Ed è sempre alla stessa causa che debbo attribuire la perdita totale di quasi duecento sterline, di cui avrei potuto salvare più della metà, se la sua impazienza me lo avesse permesso. Ma egli preferiva qualunque perdita e qualunque disperato espediente a una sofferenza morale prolungata.
Tutto ciò mi ha fatto divagare da quella che era allora la nostra preoccupazione immediata; sapere, cioè; se egli ricordasse o avesse dimenticato la sua recente terribile azione; e, nel caso che la ricordasse, in che luce la considerasse. La verità ci scoppiò sulla testa all'improvviso e fu veramente una delle maggiori sorprese della mia vita. Enrico era già uscito parecchie volte e ora cominciava anche a camminare un pochino con l'aiuto del mio braccio, quando mi avvenne di trovarmi solo con lui sulla terrazza. Egli si voltò verso di me con un sorriso stranamente furtivo, come quello di uno scolaretto colto in fallo e, in un bisbiglio sommesso e senza il minimo preambolo, chiese: - Dove lo avete seppellito?
Non riuscii a emettere neanche un suono in risposta.
- Dove lo avete seppellito? - ripeté. - Voglio vedere la tomba.
Pensai che avrei fatto meglio a prendere il toro per le corna.
- Signor Enrico, - dissi, - ho da darvi una notizia che vi rallegrerà moltissimo. Secondo ogni umana probabilità, le vostre mani sono monde di sangue. Lo deduco da certi indizi; da questi indizi, sembrerebbe che vostro fratello non sia morto, ma che sia stato portato privo di sensi a bordo del due alberi. A quest'ora, potrebbe essere perfettamente guarito.
Non riuscivo a leggere quello che gli passava sul viso in quel momento.
- Giacomo? - domandò.
- Vostro fratello Giacomo, - risposi. - Non vorrei dare adito a speranze che potrebbero dimostrarsi fallaci, ma in cuor mio credo molto probabile che egli sia ancora vivo.
- Ah! - disse Enrico; e, alzandosi a un tratto dalla sedia con più vivacità di cui avesse dato prova fino allora, mi puntò il dito sul petto e mi gridò, in una specie di stridulo bisbiglio: - Mackellar! - (furono queste le sue parole), - - nessuno può uccidere quell'uomo. Non è mortale. E' legato sul mio groppone per l'eternità, per tutta l'eternità!
Così disse, e poi, rimettendosi a sedere, ricadde in un ostinato silenzio.
Un paio di giorni più tardi, con lo stesso sorriso furtivo e dopo essersi guardato attorno come per assicurarsi che eravamo soli: - Mackellar, - mi disse, - quando sentirete dire qualcosa, mi raccomando, fatemelo sapere. Bisogna che lo teniamo d'occhio, se no ci coglierà di sorpresa, quando meno ce l'aspettiamo.
- Non si farà più vedere qui, - risposi.
- Oh, sì che verrà, - disse Enrico, - dovunque sarò io sarà anche lui, - e di nuovo si guardò attorno.
- Non vi dovete fissare su quest'idea, signor Enrico, - dissi.
- No, - rispose, - questo è un ottimo consiglio. Non ci penseremo mai, eccetto quando avrete notizie. E poi, - aggiunse, - ancora non lo sappiamo; potrebbe anche esser morto.
Il tono del suo discorso ml convinse pienamente di ciò che non avevo neppure osato sospettare; e cioè che, lungi dal provare rimorso per il suo attentato, Enrico non ne lamentava che il fallimento. Fu una scoperta che tenni per me, temendo che lo pregiudicasse presso la moglie. Ma mi sarei potuto risparmiare la pena; ella l'aveva indovinato da sola e trovava che era un sentimento perfettamente naturale. Per la verità, debbo dire che eravamo in tre, tutti dello stesso parere, e nessuna nuova sarebbe stata tanto bene accetta a tutti a Durrisdeer, quanto l'annunzio della morte del Signore di Ballantrae.
Questo mi conduce a parlare dell'eccezione, il vecchio Lord. Non appena la mia ansia per il mio padrone cominciò a distendersi, notai nel vecchio gentiluomo suo padre un mutamento che pareva minacciare conseguenze mortali.
Il suo viso era pallido ed enfiato; quando sedeva nel canto del fuoco col suo latino, si addormentava e il libro ruzzolava giù fra la cenere; a volte strascicava i piedi, a volte gli si inceppava la lingua. L'amabilità dei suoi modi era estrema; pieno di scuse per il minimo disturbo, pieno di sollecitudine per tutti; verso di me, poi, di una cortesia molto lusinghiera. Un giorno che aveva mandato a chiamare il suo avvocato ed erano rimasti appartati a lungo, lo incontrai mentre attraversava la sala a passi faticosi; mi prese benevolmente per la mano e mi disse:
- Mackellar, ho avuto molte occasioni di apprezzare al loro giusto valore i vostri servigi; e oggi, stendendo di nuovo il mio testamento, mi son preso la libertà di nominarvi mio esecutore testamentario. Credo che portiate abbastanza amore alla nostra casa per rendermi questo servigio.
Proprio a quel tempo, egli passava la maggior parte delle sue giornate immerso in un sopore dal quale molto spesso era difficile scuoterlo. Sembrava aver perduto il conto degli anni, e diverse volte (specialmente al momento di svegliarsi) aveva chiamato la moglie e un vecchio servitore la cui tomba era ormai tutta verde di muschio. Davanti a un tribunale avrei dovuto dichiararlo incapace di testare; eppure, mai testamento fu steso più sensatamente in ogni sua parte, o fu dettato da una più profonda conoscenza degli uomini e degli affari.
Il suo disfacimento, sebbene non durasse a lungo, procedette per gradi infinitesimali. Le sue facoltà declinavano progressivamente; la forza delle membra era quasi scomparsa; egli era estremamente sordo; i suoi discorsi si erano ridotti a un semplice borbottio; eppure, fino alla fine egli seppe fare in modo da manifestare un po' della cortesia e della bontà di una volta, stringendo la mano di chiunque. lo aiutasse, regalandomi uno dei suoi libri latini sul quale aveva faticosamente tracciato il mio nome e rammentandoci in mille modi la grandezza della perdita che potevamo quasi dire di aver già subita. Verso la fine, la capacità di articolare le parole gli tornava a sprazzi; sembrava che avesse dimenticato l'arte della parola come un bambino dimentica la lezione, e che, a momenti, gliene tornasse alla memoria una parte.
L'ultima sera della sua vita, ruppe il silenzio a un tratto con queste parole di Virgilio: Gnatique patrisque, alma, precor, miserere., pronunziate con chiarezza perfetta e con l'accento giusto. All'improvviso e chiaro suono di quella voce, trasalimmo tutti, distolti dalle nostre varie occupazioni; ma invano ci volgemmo verso di lui; egli sedeva al suo posto, silenzioso e, secondo ogni apparenza, inconscio. Poco dopo, fu accompagnato a letto con maggior difficoltà del solito; e a un certo punto della notte, senza scosse mortali, il suo spirito s'involò.
In tempo molto più recente mi avvenne di parlare di questi particolari con un medico, uomo di così chiara fama che mi faccio scrupolo di citarne il nome. Secondo il suo modo di vedere, tanto il padre quanto il figlio soffrivano dello stesso male. Tanto al padre (per lo strazio della sua immane sciagura) quanto al figlio (forse a causa dell'eccitazione febbrile) si era rotto un vaso sanguigno del cervello, e probabilmente (aggiunse il dottore) c'era nella famiglia una predisposizione a casi del genere. Il padre soccombette, il figlio invece riacquistò tutte le apparenze della salute; ma probabilmente qualcosa era andato distrutto in quei delicati tessuti dove lo spirito dimora e svolge il suo compito terreno; quanto a quello celeste, voglio sperare che non venga in tal guisa intralciato da incidenti materiali. Del resto, riflettendo meglio, tutto ciò non ha importanza; poiché Colui che giudicherà dei trascorsi della nostra vita, è lo stesso che ci ha foggiati nella nostra fragilità.
La morte del vecchio Lord dette origine a una nuova sorpresa per tutti noi che osservavamo il contegno del suo successore. Nell'opinione di tutte le persone sensate. i figli avevano, fra tutti e due, ucciso il padre, e di colui che aveva posto mano alla spada si poteva ben dire che l'avesse ucciso di sua mano; ma nessun pensiero del genere parve turbare il nuovo Lord. Era serio come si conveniva; potrei a stento dire che era afflitto, se non di un'afflizione gradevole; parlava del morto con sereno rimpianto, citando antichi esempi del suo carattere, sorridendo a questi con la coscienza tranquilla; e, quando giunse il giorno del funerale, ne fece gli onori con la debita correttezza. Mi accorsi, inoltre, che provava un autentico piacere nell'accedere al titolo e che era puntiglioso nell'esigerlo.
A questo punto entra in scena un nuovo personaggio che ha anch'egli la sua parte in questa storia; parlo dell'attuale Lord, Alessandro, la cui nascita (17 luglio 1757) colmò la coppia della felicità del mio povero padrone. Non aveva più nulla da desiderare e, a dire il vero, neppure il tempo di avere desideri. Difatti, non ci fu mai padre tanto tenero e infatuato. In assenza del figlio era sempre inquieto. Il bambino era fuori? Il padre teneva d'occhio le nuvole per timore che piovesse. Era notte?
Si alzava dal letto per sorvegliarne il sonno. La sua conversazione era diventata perfino fastidiosa per gli estranei, perché si aggirava quasi unicamente sul figlio. In questioni riguardanti la proprietà, tutto veniva disposto con particolare riguardo ad Alessandro; ed era sempre un:"Cominciamo subito, così il bosco sarà cresciuto per quando Alessandro sarà maggiorenne"., oppure: " Questo capiterà proprio a proposito per le nozze di Alessandro ". Questo totale assorbimento della sua personalità nel figlio si faceva più evidente di giorno in giorno, con molti particolari commoventi e alcuni molto biasimevoli. Ben presto il bambino fu in grado di andare a passeggio con lui per mano, prima sulla terrazza e più tardi in giro per la tenuta; e questa divenne la principale occupazione di Milord. Il suono delle loro voci (udibile a distanza perché parlavano forte) divenne familiare nel vicinato; e, per parte mia, lo trovavo più gradevole del canto degli uccelli. Era bello vedere i due tornare carichi di rovi, il padre accaldato e qualche volta inzaccherato come il bambino, perché prendevano parte insieme a ogni genere di passatempi infantili, scavando buche sulla spiaggia, costruendo dighe nei ruscelli e via discorrendo; e ricordo di averli visti guardare le mucche attraverso una staccionata con la stessa espressione infantile di assorto interesse.
L'aver fatto menzione di queste passeggiate mi riporta alla mente una strana scena di cui fui testimonio. C'era un sentiero che io stesso non seguivo mai senza emozione, tante volte vi ero passato con incombenze penose e tante cose vi si erano svolte ai danni della casa di Durrisdeer. Ma il sentiero era comodo da tutti i punti al di là della Muckle Ross; e io, molto a malincuore, ero indotto a prenderlo forse una volta ogni due mesi. Quando Alessandro aveva sette od otto anni, accadde che io avessi qualcosa da fare in un punto lontano della tenuta ed entrassi nel boschetto, sulla via del ritorno, verso le nove di un mattino luminoso.
Era la stagione in cui i boschi sono tutti rivestiti dei loro colori primaverili e i rovi sono tutti in fiore e gli uccelli cantano a piena gola. In contrasto con tanta letizia, il boschetto sembrava ancora più triste, e io ero più che mai oppresso dai ricordi che vi erano associati.
In quella disposizione di spirito, fui sgradevolmente sorpreso di udire delle voci un po' più oltre e di riconoscere le inflessioni di Milord e di Alessandro. Proseguii e poco dopo li scorsi. Erano insieme sullo spiazzo dove si era svolto il duello; Milord teneva una mano sulla spalla del figlio e gli parlava con una certa solennità. Mi parve, quando alzò il capo al mio sopraggiungere, che egli si rischiarasse in volto.
- Ah! - disse. - Ecco il buon Mackellar. Stavo proprio raccontando a Sandrino la storia di questo posto e gli dicevo che una volta il diavolo cercò di uccidere un uomo e che invece poco ci mancò che quell'uomo uccidesse il diavolo.
Mi era sembrato abbastanza strano che egli conducesse il bambino in quel punto; ma che si mettesse addirittura a discorrere della propria azione, era una cosa che passava il segno. Il peggio, però, doveva ancora venire; e difatti egli aggiunse, rivolgendosi al figlio:
- Domandalo a Mackellar; lui c'era e l'ha visto.
- E' vero, Mackellar? - domandò il bambino. - Hai visto davvero il diavolo?
- Non ho mai sentito questa storia, - risposi, - e ho fretta, perché ho affari urgenti.
Dissi questo con una certa asprezza, cercando di destreggiarmi in quella situazione imbarazzante; e d'improvviso, tutta l'amarezza del passato e tutto l'orrore di quella scena a lume di candela, mi ricolmarono l'animo. Pensai che sarebbe bastata la differenza di un secondo nella prontezza di una parata, perché il bambino che avevo dinanzi non venisse alla luce, e l'emozione che sempre mi faceva palpitare il cuore in quell'oscuro boschetto trovò sfogo nelle parole.
- Ma quel che è vero, - esclamai, - è che ho incontrato il diavolo in questo bosco e che qui l'ho veduto sconfitto... Dio sia lodato per averci salvato la vita, Dio sia lodato che ancora rimangono pietra su pietra i muri di Durrisdeer! e, oh! signor Alessandro, se fossi in voi e se mai capitassi in questo bosco, fosse pure tra cent'anni e con la più gaia e più nobile compagnia del paese. mi farei da parte e mi ricorderei- di dire una preghiera.
Milord chinò il capo con solennità.
- Ah, - disse, - Mackellar ha sempre ragione. Su, Alessandro, levati il berretto.
E con ciò, anch'egli si scoprì il capo e tese la mano.
- O Signore, - disse, - io ti ringrazio e mio figlio ti ringrazia per le tue grandi e molteplici misericordie. Dacci la pace per un po' di tempo; difendici dal malvagio. Colpiscilo, o Signore, sulla bocca bugiarda!
Le ultime parole gli proruppero dal labbro come un grido; e a questo punto, sia che al ricordo la collera gli mozzasse la parola, sia che si accorgesse che quello era uno strano genere di preghiera, si interruppe a un tratto; e dopo un momento si rimise il cappello in testa.
- Credo che abbiate dimenticato qualche parola, Milord, - dissi. - Rimettici i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Poiché tuo è il regno del cieli e il potere e la gloria, ora e sempre. Amen.
- Ah, è facile a dirsi, - rispose Milord. - È facilissimo, a dirsi, Mackellar. Ma per me, perdonare! Credo che farei una figura molto meschina se avessi l'ipocrisia di fingerlo.
- Il figliolo, Milord! - esclamai con una certa severità, perché mi pareva che certe espressioni mal si addicessero all'orecchio di un bambino.
- Già, già, verissimo, - diss'egli. - Non sono cose per un figliolo. Andiamo a caccia di nidi.
Non ricordo se fu proprio lo stesso giorno, ma fu certo poco dopo che Milord, trovandomi solo, si aperse un po' di più sullo stesso argomento.
- Mackellar, - disse, - io ora sono un uomo molto felice.
- Lo credo anch'io, Milord, - risposi, - ed è uno spettacolo che mi allieta il cuore.
- Si hanno dei doveri, nella felicità, non credete? - disse, con aria meditabonda.
- Lo credo davvero, - risposi, - e anche nell'afflizione. Se non siamo qui per cercare di fare del nostro meglio, secondo il mio umile parere, più presto ce ne andiamo e meglio è per tutti.
- Già, ma se foste nei miei panni, gli perdonereste? - domandò Milord.
L'attacco improvviso mi imbarazzò un pochino.
- E nostro preciso dovere, - risposi.
- Storie! - ribatté Enrico. - Queste sono parole! Voi, gli avete perdonato?
- Ebbene... no! - dissi. - Dio mi perdoni, no.
- Qua la mano! - esclamò Milord, con una specie di giovialità.
- E un brutto sentimento per stringersi la mano fra cristiani, - risposi. - Credo che vi darò la mia in una occasione più evangelica.
Dissi questo sorridendo un po'; ma Milord uscì dalla stanza ridendo forte.

Per la schiavitù di Milord verso il bambino non riesco a trovare espressione adeguata. Egli smarriva se stesso in quell'ininterrotto pensiero; affari, amici e moglie erano tutti del pari dimenticati, o ricordati soltanto con uno sforzo penoso, come di uno che lotti contro un narcotico. La cosa era degna di nota soprattutto nei _riguardi della moglie. Da quando io ero a Durrisdeer, ella era sempre stata l'oggetto dei suoi pensieri e la calamita dei suoi occhi; ed ora era ripudiata addirittura. Ricordo di averlo veduto affacciarsi dalla porta di una stanza, guadarsi in giro e passare oltre Milady con lo sguardo, come se ella fosse stata un cane davanti al fuoco. Cercava Alessandro e la signora lo sapeva bene. L'ho anche udito rivolgerle la parola così bruscamente che quasi quasi avrei trovato il coraggio di intervenire; la cagione era sempre la stessa: ella aveva contrariato Alessandro in qualche modo. Senza dubbio questo era un giudizio divino sceso sulla signora. Senza dubbio le parti erano invertite a suo danno, come solo la provvidenza sa fare; ella che per tutti quegli anni era rimasta fredda di fronte a tante prove di tenerezza, doveva ora, a sua volta, essere negletta. Tanto maggiore era il suo merito nel far bene la sua parte.
Ne risultò una situazione curiosa, in casa ci furono un'altra volta due partiti, e questa volta lo appartenevo a quello di Milady. Non che in me venisse mai meno l'amore che portavo al mio padrone. Ma, per dirne una, egli aveva meno bisogno della mia compagnia. Per dirne un'altra, non potevo non fare un confronto tra il caso di Alessandro e quello di Caterina, per la quale Milord non aveva mai avuto la minima attenzione. E, per dirne un'altra ancora, ero addolorato per il suo mutato contegno verso la moglie che mi colpiva come un'infedeltà.
Inoltre non potevo non ammirare la costanza e la bontà di cui ella dava prova? Forse il suo sentimento per Milord, che fin dal principio si era fondato sulla compassione, era piuttosto il sentimento di una madre che quello di una sposa; forse le faceva piacere, se così posso dire, vedere i suoi due bambini tanto felici insieme, specialmente sapendo che uno di loro aveva tanto ingiustamente sofferto per il passato. Ma ciò malgrado e sebbene io non riuscissi mai a scorgere in. lei neppure un'ombra di gelosia, ella era costretta a rifugiarsi nella compagnia della povera negletta Caterina; e io, da parte mia, presi a passare le mie ore libere sempre più spesso con. la madre e con la figlia. Si potrebbe facilmente dar troppo peso a questa divisione, perché la famiglia, parlando in generale, era una famiglia abbastanza unita; eppure, la divisione c'era; sono in dubbio se Milord lo sapesse o no. Credo di no, era talmente ingolfato nel figlio; ma noi tutti lo sapevamo, e, in certo modo; soffrivamo di saperlo.
Quello che ci impensieriva di più, però, era il grande e crescente pericolo che minacciava il bambino. Milord agiva come suo padre, tale e quale, e c'era da temere che il figlio diventasse un secondo Signore di Ballantrae. Il tempo ha dimostrato che questi timori erano molto esagerati. Certo, oggi non c'è in tutta la Scozia un più degno gentiluomo del settimo Lord Durrisdeer. A me non si addice parlare del mio esodo dal suo servizio, soprattutto in un memorandum scritto al solo scopo di giustificare suo padre.

[Nota dell'editore: qui sono omesse cinque pagine del manoscritto di Mackellar. Dal loro esame ho ricevuto l'impressione che il signor Mackellar in vecchiaia fosse diventato un servitore piuttosto esigente. Contro il settimo Lord Durrisdeer (col quale, in ogni modo, non abbiamo alcun rapporto), nulla di concreto e addebitato].

...Ma a quel tempo il nostro timore era che, nella persona del figlio, egli ci desse una seconda edizione del fratello. Milady aveva cercato di instaurare un po' di salutare disciplina; ma era stata lieta di rinunziarvi ed ora doveva accontentarsi di assistere, con segreto sgomento; a volte vi faceva allusione, a volte, quando veniva a conoscenza di qualche esempio mostruoso dell'indulgenza di Milord, si tradiva con un gesto o magari con un'esclamazione. Quanto a me, quel pensiero mi perseguitava giorno e notte, non tanto per amor del bambino, quanto per amor del padre. Quell'uomo si era addormentato e sognava, e senza fallo un brusco risveglio sarebbe stato fatale. Era inconcepibile che potesse sopravvivere al crollo del suo sogno; e, al pensiero del suo disonore, mi nascondevo il viso fra le mani. Questa continua preoccupazione finì con lo strapparmi una rimostranza; e la cosa merita di essere narrata nel suoi particolari. Un giorno, Milord ed io eravamo seduti al medesimo tavolo per qualche affare noioso e minuzioso; ho già detto come egli avesse perduto l'interesse di una volta per questo genere di occupazione; era evidente che fremeva dalla voglia di andarsene e aveva l'aria irrequieta, stanca e, mi parve, più vecchia di quanto avessi mai notato prima di allora. Credo che fosse la vista di quel. suo viso smunto che mi spinse improvvisamente all'azione.
- Milord, - dissi a testa bassa e fingendo di continuare la mia occupazione, - o meglio, lasciate che vi chiami ancora col nome di signor Enrico, perché temo la vostra collera e desidero che ripensiate al tempo antico...
- Mio buon Mackellar! - diss'egli in tono tanto benevolo che io per poco non abbandonai il mio proposito. Ma mi ricordai che parlavo per il suo bene e tenni duro.
- Vi è mai passato per la mente quello che state facendo? - domandai.
- Quello che sto facendo? - ripeté Enrico. - Non sono mai stato bravo a risolvere gli indovinelli.
- Quello che state facendo con vostro figlio? - dissi.
- Ebbene, - disse Enrico, con un certo tono di sfida.
- che cosa sto facendo con mio figlio?
- Vostro padre era una bravissima persona, - ripresi . abbandonando la via diretta. - Ma credete che sia stato un padre saggio?
Ci fu una pausa prima che egli parlasse e poi:
- Non dico niente contro di lui, - rispose, - forse avrei qualche ragione par farlo; ma non dico niente.
- Ecco, vedete, - dissi, - voi avreste, se non altro, la ragione. Eppure, vostro padre era un uomo buono; non ne ho mai conosciuto uno migliore né più saggio, salvo che in una unica cosa. Dove egli ha inciampato, un altro potrebbe facilmente cadere. Egli aveva due figli...
Improvvisamente. Milord dette un violento colpo sul tavolo.
- Cos'è questa storia? -. gridò. - Parlate chiaro!
- Parlerò, - risposi con voce quasi soffocata dal martellare del cuore. - Se continuate a darle tutte vinte al signorino Alessandro, seguite le orme di vostro padre. E badate, Milord, che crescendo vostro figlio non segua quelle del Signore di Ballantrae.
Non era stata mia intenzione presentargli la cosa tanto crudamente; ma. quando si è al colmo della paura sopravviene un coraggio veramente brutale, quel che ci può essere di più brutale; e io, con quelle chiare parole, bruciai i miei vascelli. Non ricevetti risposta. Quando alzai il capo, Milord si era levato in piedi e, un istante dopo, cadeva pesantemente a terra. L'attacco non durò a lungo; egli tornò 1n sé con lo sguardo assente, si portò la mano alla testa che io sorreggevo e disse, con voce rotta:
- Mi sono sentito male, - e, poco dopo: - Aiutatemi. Lo aiutai ad alzarsi, ed egli si resse in piedi abbastanza bene, pur aggrappandosi al tavolo.
- Mi sono sentito male, Mackellar, - disse ancora.
Si è spezzato qualcosa, Mackellar... o stava per spezzarsi e poi tutto è scomparso. Mi pareva di essermi adirato moltissimo. Non importa, Mackellar; non importa, caro amico. Non ti torcerei un capello. Troppe cose sono andate e venute. E' una certa cosa fra noi due. Ma credo, Mackellar, che andrò dalla signora... credo che andrò dalla signora, - disse, e uscì dalla stanza con passo abbastanza fermo, lasciandomi sopraffatto dai rimorsi. Un momento dopo, la porta si spalancò e Milady irruppe nella stanza con occhi sfavillanti.
- Cos'è questa storia? - gridò. - Cosa avete fatto a mio marito? Possibile che non vi si possa insegnare a stare al vostro posto, in questa casa? Non la smetterete mai di intromettervi e di impicciarvi?
- Milady, - risposi, - da quando sono in questa casa, ho ricevuto parole dure in abbondanza. Per un periodo, sono state il mio pane quotidiano e io le ho mandate giù tutte. Ma oggi potete dirmi quello che vi pare; non troverete mai una parola abbastanza dura per uno sproposito simile. Eppure, la mia intenzione era buona.
Le dissi tutto candidamente, tale e quale come è scritto qui; e quando mi ebbe ascoltato fino in fondo, ella rifletté un po' e la sua animosità cadde.
- Sì, - disse, - la vostra intenzione era veramente buona. Spesso ho avuto anch'io lo stesso pensiero, o meglio, la stessa tentazione e per questo vi perdono. Ma, Dio mio, non capite che Enrico non ne può più? Non ne può più! - gridò. - La corda è tesa da spezzarsi. Che importa l'avvenire, se possiamo avere uno o due giorni di bene?
- Amen, - risposi. - Non mi intrometterò più. Sono abbastanza contento che riconosciate la mia buona intenzione.
- Sì, - rispose Milady, - ma debbo credere che, al momento di parlare, vi sia venuto meno il coraggio; perché quello che avete detto, lo avete detto crudelmente.
Si fermò e mi guardò; poi, d'improvviso, sorrise un poco e disse una cosa curiosa:
- Sapete che cosa siete voi, Mackellar? Siete una vecchia zitella.

Nessun altro incidente degno di nota accadde in famiglia fino al ritorno di quel malaugurato Signore di Ballantrae. Ma bisogna che io inserisca qui un secondo estratto dalle memorie del cavalier Burke, interessante di per se stesso e assolutamente necessario al mio scopo. E l'unica notizia che abbiamo del Signore di Ballantrae al tempo dei suoi viaggi in India, ed è la prima volta che in questi fogli si fa menzione di Secundra Dass. Bisogna osservare un fatto che qui appare chiarissimo, un fatto che, se lo avessimo saputo una ventina di anni fa, ci avrebbe risparmiato tante calamità e tante sofferenze! e cioè, che Secundra Dass sapeva l'inglese.



CAPITOLO SETTIMO


AVVENTURA DEL CAVALIER BURKE IN INDIA
(ESTRATTO DALLE SUE MEMORIE)

... Eccomi dunque per le vie di quella città di cui non riesco a ricordare il nome e della cui posizione avevo allora così scarsa contezza, che non sapevo neppure se andare verso sud o verso nord. L'allarme era stato improvviso e io ero. corso fuori senza calze né scarpe; il cappello mi era stato strappato di testa nella mischia; il mio zaino era tra le mani degli inglesi; non avevo compagni all'infuori dei cipaye, non armi all'infuori della spada e non il becco d'un quattrino in tasca. Insomma, io ero, in tutto e per tutto, come uno di quei dervisci con i quali il signor Galland ci ha fatto far conoscenza nei suoi eleganti racconti. Come ricorderete, quei signori si imbattevano sempre in avventure straordinarie; e io ero proprio sull'orlo di un'avventura talmente sbalorditiva che, giuro al cielo, ancora oggi non riesco a spiegarmela.
Il cipaye era un uomo assai dabbene; aveva servito molti anni nell'esercito francese e si sarebbe fatto tagliare a pezzi per uno dei valorosi compatrioti del signor Lally. Era lo stesso tipo (il nome mi sfugge completamente) di cui ho già riferito un sorprendente esempio di generosità d'animo, allorché trovò sui bastioni il signor de Fessac e me, completamente sopraffatti dal vino e ci ricoperse con della paglia, mentre passava di lì il comandante. Lo consultai, quindi, con piena fiducia. Il da farsi era un bel problema; ma finimmo col decidere di dare la scalata al muro di un giardino dove avremmo certo potuto dormire all'ombra degli alberi e fors'anche trovare il modo di impadronirsi di un paio di pantofole e di un turbante. In quella parte della città, non avevamo che l'imbarazzo della scelta, perché il quartiere era tutto giardini, e i viali che li dividevano a quell'ora della notte erano deserti. Detti una mano al cipaye e in un istante ci calammo in un vasto recinto pieno d'alberi. Il luogo era fradicio di guazza che in quel paese è eccessivamente insalubre, soprattutto per i bianchi; ma la mia stanchezza era estrema, ed ero già mezzo addormentato, allorché il cipaye mi richiamò alla realtà. Proprio in fondo al recinto, si era improvvisamente accesa una luce viva che continuava a brillare tra le foglie. Era un particolare veramente insolito a quell'ora e in quel luogo e, data la nostra situazione, ci conveniva agire con una certa cautela. Mandai in ricognizione il cipaye; questi tornò quasi subito con l'informazione che eravamo capitati veramente a sproposito, perché la casa apparteneva a un bianco, il quale, con ogni probabilità, era inglese.
- Affé, - dissi, - se c'è da vedere un bianco, gli vaglio dare un'occhiata; giacché, sia lode al Signore, ce n'è più di una razza.
Allora il cipaye mi condusse in un punto donde potevo avere una chiara visione della casa. Era circondata da una larga veranda; una lampada accuratamente preparata era sul pavimento e di qua e di là della lampada erano seduti due uomini con le gambe incrociate all'orientale. Entrambi, inoltre, erano tutti infagottati nella mussola, come due indigeni; eppure uno di loro era, non solo un bianco, ma anche un uomo ben noto a me e al lettore; infatti era, né più né meno che quel Signore di Ballantrae della cui galanteria e del cui genio ho avuto tanto spesso occasione di parlare. La voce della sua venuta nelle Indie mi era giunta all'orecchio, ma non ci eravamo mai incontrati e io avevo udito parlare poco della sua attività. Ma certo, non appena lo ebbi riconosciuto e mi fui accorto di essere capitato tra le braccia di un così vecchio camerata, immaginai che le mie tribolazioni fossero finite. Uscii apertamente alla luce della luna che brillava in tutto il suo splendore e, chiamato . Ballantrae per nome, in poche parole lo misi al corrente della mia incresciosa situazione. Egli si voltò, trasalì impercettibilmente, mi guardò dritto in faccia mentre parlavo e, quando ebbi finito, rivolse la parola al compagno nel barbaro dialetto indigeno. La seconda persona, che era d'aspetto straordinariamente delicato, con due gambe sottili come canne da passeggio e dita come cannucce di pipa, si alzò in piedi.
- Il sahib, - disse, - non capisce lingua inglese. Io capisco e vedo che voi fate un piccolo sbaglio... oh! che può accadere molto spesso. Ma Il sahib sarebbe lieto di sapere come voi venuto in giardino.
- Ballantrae! - gridai, - non avrai la maledetta impudenza di rinnegarmi al mio cospetto?
Ballantrae non mosse un muscolo e seguitò a fissarmi come un'immagine in una pagoda.
- Il sahib non capisce lingua inglese, - ripeté l'indigeno, evasivo come prima. - Egli contento di sapere come voi venuto in giardino.
- Ohi il diavolo se lo porti! - esclamai. - Sarebbe contento di sapere come sono venuto in giardino, ma davvero? Ebbene, allora, caro il mio uomo, abbiate la finezza di dire al sahib, coi miei saluti affettuosi, che qua ci sono due soldati che egli non ha mai né visto né conosciuto, ma che il cipaye è una pasta di figliolo e che sono una pasta di figliolo anch'io; e che se non ci dà un buon pasto e un turbante e un paio di pantofole e il corrispettivo di un mohur d'oro in moneta spicciola per le piccole spese, vivaddio, caro amico, scommetto le dita di una mano che in giardino ci sarà baruffa.
Quelli continuarono la commedia al punto di conversare ancora un po', in indostano; e poi l'indù disse con lo stesso sorriso, ma sospirando un po', come se fosse stanco di ripeterlo:
- Il sahib sarebbe contento di sapere come voi venuto in giardino.
- Ah, è così che la intende? - risposi e, mettendo mano alla spada, ordinai al cipaye di sguainare la sua. L'indù di Ballantrae, sempre sorridendo, si cavò di seno una pistola e, sebbene Ballantrae. non muovesse un sol muscolo, io lo conoscevo abbastanza per sapere di certo che era pronto.
- Il sahib pensa che per voi meglio andar via, - disse l'indù.
Bene, per essere schietti, era quello che pensavo anch'io, perché lo sparo della pistola sarebbe stato, Dio ne guardi, il mezzo per farci impiccare tutti e due.
- Dite al sahib che non lo considero un gentiluomo,
- dissi, e girai sui tacchi con un gesto di disprezzo.
Non avevo fatto nemmeno tre passi, quando la voce dell'indù mi richiamò: - Il sahib sarebbe contento di sapere se voi siete un maledetto volgarissimo irlandese.
- disse l'indù, - il sahib dice che siete pari e patta.
- Dite al sahib che lo concerò io per il dì delle feste, quando ci rivedremo, - gridai.
I due sorridevano ancora quando me ne andai.
Senza dubbio, anche nella mia condotta è possibile trovare, cercandola, qualche pecca; e quando un uomo, per quanto valoroso, si appella alla posterità stendendo una relazione delle proprie gesta, si deve aspettare di condividere il fato di Cesare -e di imbattersi in qualche denigratore. Ma c'è una cosa di cui non si potrà mai far carico a Francis Burke: egli non ha mai voltato le spalle a un amico...
(Segue un brano che il cavalier Burke si è dato la pena di cancellare prima di inviarmi il manoscritto. Si trattava senza dubbio di qualche naturalissima lagnanza per quello che egli supponeva indiscrezione da parte mia, sebbene, a dire il vero, io non riesca a richiamarne alla memoria nessuna. Forse Enrico era stato meno guardingo; ed è anche possibile che il Signore di Ballantrae abbia trovato il modo di esaminare la mia corrispondenza e abbia letto la lettera mandatami da Troyes; e che quello scherzo crudele sia stato perpetrato ai danni del cavalier Burke in tanta. ambascia, per vendetta. Il Signore di Ballantrae, nonostante tutta la sua perfidia, non mancava di un certo sentimento naturale e credo che fosse sinceramente affezionato al cavalier Burke, in principio; ma l'idea del tradimento dissecca le sorgenti della tutt'altro che profonda amicizia, mettendo a nudo la sua indole detestabile).



CAPITOLO OTTAVO


IL NEMICO IN CASA

E' strano che io non riesca a rintracciare una data... la data, oltre tutto, di un incidente che portò un mutamento essenziale nella mia vita e che ci mandò tutti in terra straniera. Ma la verità è che mi trovai bruscamente strappato a tutte le mie consuetudini, e vedo che i miei diari sono tutti in disordine, senza indicazioni di date per una o due settimane di seguito e, nell'insieme, il loro aspetto suggerisce l'idea di un uomo sull'orlo della disperazione. Ma fu almeno verso la fine di marzo o il principio di -aprile del 1764.
Avevo dormito di un sonno pesante e mi ero destato con un presentimento di sventura. Questo mi gravava talmente sull'animo, che mi affrettai a scendere le scale in pantaloni e camicia solamente, e ricordo che la mano mi tremava sulla ringhiera.- Era un mattino freddo e assolato e c'era uno spesso strato bianco di brina. Nel giardino il canto dei merli era insolitamente dolce e forte e da tutte le camere si udiva il rumore del mare. Mentre mi avvicinavo alla porta del salone, un altro suono mi arrestò... un suono di voci. Mi avvicinai ancora di più e rimasi come trasognato. Era certo una voce umana e in casa del mio padrone, eppure io non la conoscevo; era certo un linguaggio umano e del mio paese natio, ma, per quanto ascoltassi, non riuscivo ad afferrarne una sillaba. Mi tornò in mente una certa leggenda di una fata (o forse era solo una viandante straniera) che era venuta alla dimora dei miei padri qualche generazione addietro e si era fermata qualcosa come una settimana, parlando spesso in una lingua che non aveva significato per gli ascoltatori; e se ne era andata come era venuta, nell'oscurità della notte, senza lasciarsi dietro neppure il nome. Avevo, sì, un po' di paura; ma la curiosità era anche di più; apersi la porta della sala ed entrai.
Le stoviglie della cena erano ancora sul tavolo; le imposte erano ancora chiuse, ma la luce filtrava tra le connessure; e la grande sala era illuminata soltanto da una candela e dal vacillante riverbero del fuoco. Due uomini erano seduti vicino al camino. Quello avviluppato nel mantello e con gli stivali ai piedi, lo riconobbi subito; era l'uccello del malaugurio che era di ritorno. Dell'altro, che era seduto proprio accosto alle braci ardenti, tutto infagottato come una mummia, potei vedere soltanto che era un forestiero, dalla pelle più scura di quella di un europeo, dall'aspetto fragilissimo, dalla fronte singolarmente alta e dall'occhio misterioso. Diversi fagotti e una valigetta erano posati a terra; a giudicare dall'esiguità del bagaglio e dalle condizioni degli stivali del Signore di Ballantrae, grossolanamente rappezzati da qualche ciabattino campagnolo di pochi scrupoli, si sarebbe detto che la malvagità non aveva prosperato.
Al mio entrare, il Signore di Ballantrae si alzò; i nostri occhi si incontrarono, e io non so perché, ma il coraggio si levò come un'allodola in un mattino di primavera.
- Ah! siete voi? - dissi, compiaciuto del tono di indifferenza della mia voce.
- Sono proprio io, degno Mackellar, - disse il Signore di Ballantrae.
- Questa volta vi siete portato dietro il cane nero, - continuai.
- Parlate di Secundra Dass? - domandò il Signore di Ballantrae. - Permettete che vi presenti; è un autentico gentiluomo indiano.
- Uhm! - dissi. - Non voglio un gran bene, né a voi, né ai vostri amici, signor Bally. Ma voglio fare un po' di luce e darvi un'occhiata.
E così dicendo apersi le imposte della finestra a levante.
Alla luce del mattino vidi che l'uomo era mutato. Più tardi, quando fummo tutti insieme, fui colpito nel vedere con quanta leggerezza la mano del tempo lo avesse sfiorato; ma la prima impressione fu diversa.
- State diventando vecchio, - dissi.
Un'ombra gli passò sul viso.
- Se vi vedeste, - rispose, - forse non vi soffermereste su quest'argomento.
- Bah! - replicai, - la vecchiaia non è nulla per me. Credo di essere sempre stato vecchio; e ora sono, grazie a Dio, meglio conosciuto e più rispettato. Non tutti possono dire altrettanto, signor Bally! Le rughe sulla vostra fronte sono calamità; la vostra vita comincia a richiudersi su di voi come una prigione; presto la morte batterà alla vostra porta e io non vedo a qual fonte potrete attingere conforto.
A questo punto, il Signore di Ballantrae rivolse la parola a Secundra Dass in indostano; dalla qual cosa, dedussi (e, confesso francamente, con grandissimo piacere) che le mie osservazioni lo indispettivano. Per tutto quel tempo, come potete credere, la mia mente era stata affaccendata in tutt'altri pensieri, anche mentre canzonavo il mio nemico; pensavo soprattutto al modo di comunicare prontamente e segretamente con Milord. A questo pensiero, nel breve momento di respiro che mi era concesso, rivolsi tutte le forze della mia mente; ma, a un tratto, volgendo gli occhi, mi accorsi che Milord in persona era nel vano della porta, secondo ogni apparenza, perfettamente calmo. Non appena ebbe incontrato il mio sguardo, oltrepassò la soglia. Il Signore di Ballantrae lo udì venire e ai fece avanti dall'altra parte; a circa un metro di distanza, i due fratelli si fermarono e si scrutarono con sguardo fermo; poi Milord sorrise, fece un lieve inchino e poi si voltò vivamente dall'altra parte.
- Mackellar, - disse, - bisogna pensare alla colazione per questi viaggiatori.
Era chiaro che il Signore di Ballantrae era un pochino sconcertato; ma assunse un tono e un modo di fare ancora più impudenti.
- Ho una fame da lupo, - disse. - Fa in modo che ci sia qualcosa di buono, Enrico.
Milord si rivolse a lui, con lo stesso sorriso duro:
- Lord Durrisdeer, - corresse.
- Oh, non in famiglia! - ribatté il Signore di Ballantrae.
- Tutti in questa casa mi chiamano col titolo che mi spetta, - disse Milord. - Se vi fa piacere fare un'eccezione, lascerò considerare a voi l'impressione che ne potrà derivare agli estranei e se non vi pare che ciò possa venire interpretato come effetto di gelosia impotente.
Avrei battuto le mani dalla gioia, tanto più che Milord non lasciò all'altro tempo per la risposta, ma, ordinandomi con un cenno di seguirlo, uscì senz'altro dalla sala.
- Venite presto, - disse. - Bisogna liberare la casa dai parassiti,
E si slanciò per i corridoi a un passo così rapido che a stento riuscivo a tenergli dietro; andò dritto dritto alla porta della camera di Giampaolo, l'aprì senza bussare ed entrò. Giampaolo era, secondo ogni apparenza, profondamente addormentato, ma Milord non fece neppure le viste di svegliarlo.
- Giampaolo, - disse più pacatamente di quanto l'avessi mai udito parlare, - hai servito mio padre a lungo e perciò non ti caccio da casa come un cane. Se fra mezz'ora te ne sarai andato, continuerai a ricevere il salario a Edimburgo. Se ti fermi qui o a Saint Bride, non ti varrà l'esser vecchio né servo antico e troverò un modo sorprendente di farti scontare la tua slealtà. Alzati e vattene. La porta da cui li hai fatti entrare ti servirà per uscire. Non desidero che mio figlio riveda la tua faccia.
- Mi rallegro di vedere che la prendete con- tanta calma, - dissi, quando fummo di nuovo soli.
- Con calma? - esclamò Enrico, e mi prese la mano e se la posò sul cuore che gli martellava nel petto come un maglio.
Quella rivelazione mi ricolmò l'animo di stupore e di spavento. Nessuna costituzione avrebbe potuto sopportare uno sforzo tanto violento, e la sua che era già scossa, meno di qualunque altra. Dentro di me decisi che era ora di porre un termine a quella mostruosa situazione.
- Credo che farei bene ad avvertire Milady, - dissi. In realtà avrebbe dovuto andare egli stesso, ma io contavo, e non invano, sulla sua indifferenza.
- Sì, - rispose, - andate pure. Io vado a sollecitare la colazione; dobbiamo presentarci a tavola tutti, anche Alessandro; non debbiamo apparire turbati.
Corsi in camera da Milady e, senza crudeli preamboli, svelai la nuova.
- La mia decisione è presa da un pezzo, - diss'ella. - Dobbiamo fare i bauli stanotte. Grazie al cielo, abbiamo un'altra casa. La prima nave che farà vela ci porterà tutti a New York.
- E di lui che ne facciamo? - chiesi.
- Gli lasciamo Durrisdeer, - rispose Milady. - Ne può fare quello che vuole.
- Questo no, con vostra licenza, risposi. - Alle sue calcagna ci sarà un cane che non lascerà la presa. Egli avrà letto e vitto e cavallo, se si comporterà bene; ma le chiavi, se credete, Milady, saranno lasciate in mano a un certo Mackellar. Tutto sarà ben custodito; per questo, fidatevi di lui.
- Mackellar, - esclamò Milady, - grazie di questo pensiero. Tutto sarà lasciato in mano vostra. Se saremo costretti ad andare in un paese selvaggio, lascio a voi di fare le nostre vendette. Mandate Macconochie a Saint Bride a fissare i cavalli in segreto e a chiamare l'avvocato. Milord deve lasciare una procura.
In quel momento Milord apparve sulla soglia e noi gli svelammo il nostro piano.
- Non ne voglio sentir parlare, - gridò. - Penserebbe che ho avuto paura di lui. Io resterò in casa mia, a Dio piacendo, fino alla morte. Non esiste l'uomo capace di stanarmi da casa mia. Una volta per tutte, qui sono e qui rimango, a dispetto di tutti i diavoli dell'inferno.
Non posso rendere un'idea della veemenza delle sue parole e del suo tono; noi due eravamo esterrefatti, specialmente io che ero stato testimone del suo autocontrollo di poco prima.
Milady mi gettò uno sguardo supplichevole che mi andò dritto al cuore e mi fece tornare in me.. Le feci di nascosto cenno di andar via, e quando Milord ed io fummo soli, mi avvicinai a lui che in fondo alla stanza andava e veniva come un forsennato e gli posai con fermezza una mano sulla spalla.
- Milord, - dissi, - vi voglio parlar chiaro ancora una volta: e se sarà l'ultima, tanto meglio, perché comincio a essere stanco di questa parte.
Nulla mi farà mutar parere, - rispose. - Dio mi guardi dal rifiutare di ascoltarvi; ma nulla mi farà mutar parere.
Disse questo con tono deciso, ma senza nulla della violenza di poco prima, il che mi incoraggiò a sperare.
- Benissimo, - dissi, - mi posso permettere il lusso di sprecare il fiato.
Indicai una seggiola ed egli sedette e mi guardò.
- Mi ricordo di un tempo in cui Milady vi trascurava moltissimo, - dissi.
- Finché la cosa è durata non ne ho parlato mai, - rispose Milord con una vampata di rossore; - e ora è tutto cambiato.
- Sapete quanto? - ripresi. - Sapete quanto è cambiato tutto? Le parti si sono invertite, Milord! Ora è Milady che vi corteggia per ottenere da voi una parola, uno sguardo.., sì, e vi corteggia invano. Sapete con chi passa le giornate, mentre voi ve ne andate a spasso per la tenuta? Milord, si contenta di passarle con un vecchio e arido contabile, chiamato Efraim Mackellar; e credo che siate capace di ricordare ciò che questo significa, perché, o sbaglio di grosso o una volta anche voi vi trovaste ridotto a contentarvi della stessa compagnia.
- Mackellar! - gridò Milord. - O Dio mio, Mackellar!
- Non sarà il nome di Mackellar e neppure il nome di Dio a cambiare la verità, - risposi, - e io vi sto dicendo un fatto. Ora, domando a voi che avete sofferto tanto, vi pare che impartire la stessa sofferenza a un'altra persona sia un'azione da cristiano? Ma voi siete così ingolfato nella vostra nuova amicizia che avete dimenticato tutti gli amici vecchi. Sono semplicemente svaniti dalla vostra memoria. Eppure vi sono stati accanto nei momenti più oscuri; Milady non meno degli altri; e il pensiero di Milady vi passa mai per la mente? Vi ha mai attraversato la mente il pensiero di quello che Milady ha passato quella notte? e che moglie è stata per voi da allora in poi? e in che razza di posizione si trovi oggi? Mai. Per orgoglio volete restare e affrontare quell'uomo, e Milady deve restare con voi. Oh! l'orgoglio di Milord! questo è l'importante! Eppure, ella è donna e voi siete un uomo grande e grosso! Ed è la donna che avete giurato di proteggere; e, fra l'altro, è la madre di quel vostro figlio!
- Queste sono parole molto amare, Mackellar, - rispose Milord. - Ma, sa Iddio, ho paura che siano anche troppo vere. Non ho saputo essere degno della mia felicità. Riconducete qui Milady.
Milady era lì vicino in attesa del risultato del colloquio.
Quando l'ebbi condotta nella stanza, Milord ci prese le mani e se le posò sul petto.
- Ho avuto due amici nella vita, - disse. - Tutto il conforto che ho avuto, mi è sempre venuto dall'uno
o dall'altra di voi. Dal momento che voi due siete dello stesso parere, credo che sarei uno sconoscente se... - Strinse forte le labbra e ci guardò con occhi umidi.
- Fate di me quello che volete, - aggiunse. - Solo non pensate... Fate di me quello che volete, - ripeté. - Dio sa che vi amo e vi onoro.
E, lasciando andare le nostre mani, ci voltò le spalle e andò a guardare fuori della finestra. Ma Milady gli corse dietro, chiamandolo per nome e gli buttò le braccia al collo in uno scoppio di pianto appassionato.
Uscii e mi chiusi dietro la porta e poi mi fermai e ringraziai Dio dal fondo del cuore.
Secondo il piano di Milord, ci incontrammo tutti intorno alla tavola della colazione. Nel frattempo, il Signore di Ballantrae si era cavato gli stivali e aveva fatto una toilette intonata alle circostanze; Secundra Dass non era più infagottato nei suoi cenci e indossava un semplice e decente abito nero che gli stava stranamente male, e i due guardavano fuori del finestrone quando entrò la famiglia. Si voltarono; l'uomo nero (come già era stato soprannominato in casa) si inchinò fin quasi a inginocchiarsi, ma il Signore di Ballantrae fece l'atto di correre loro incontro, come uno di casa. Milady lo fermò con una profonda riverenza dal fondo della sala, tenendo i figli dietro di sé; Milord era un po' più avanti; ed ecco i tre cugini di Durrisdeer faccia a faccia. Le tracce del tempo erano visibilissime in tutti; mi parve di leggere sui loro volti mutati un memento mori; e ciò che mi fece più pena fu il vedere che il malvagio era colui che portava meglio i suoi anni. Milady era completamente trasformata nella matrona, una donna che sarebbe stata bene a capo di una gran tavolata di figli e di dipendenti. Milord si era afflosciato in tutte le membra; era curvo; camminava con moto frettoloso, come se l'avesse imparato di nuovo da Alessandro; Il suo viso tirato sembrava un'idea più lungo di un tempo; e qualche volta aveva un sorriso strano e indefinibile che ai miei occhi appariva amaro e patetico al tempo stesso. Ma il Signore di Ballantrae conservava tuttora un portamento eretto, sebbene, forse, con un certo sforzo; la sua fronte era segnata nel mezzo da linee imperiose, la bocca era atteggiata al comando. Aveva tutta la gravità e forse qualcosa dello splendore di Satana nel Paradiso Perduto.
Non potei fare a meno di guardarlo con ammirazione; soltanto, ero sorpreso di averne così poca paura. Veramente (finché fummo a tavola) si sarebbe detto che la sua autorità era completamente svanita e che la belva avesse perduto le zanne. Lo avevamo conosciuto come un mago che controllava gli elementi; ed eccolo trasformato in un gentiluomo qualsiasi che chiacchierava con i suoi vicini intorno alla tavola della colazione. Ora che il padre era morto e Milord e Milady si erano riconciliati, in quale orecchio avrebbe riversato le sue calunnie? Come in una visione, mi balenò alla mente il sospetto di avere enormemente sopravvalutato l'astuzia di quell'uomo. Era ancora malvagio; era più falso che mai, ma scomparsa la ragione della sua forza, sedeva lì impotente; era ancora una vipera, ma ormai sprecava il suo veleno su di una lima. Altri due pensieri mi traversarono la mente, mentre eravamo ancora seduti a colazione; il primo, che egli era confuso, direi quasi sgomento, nello scoprire che la sua perfidia era assolutamente vana; il secondo fu che forse Milord aveva ragione e che facevamo male a fuggire innanzi a un nemico già fuori combattimento. Ma mi tornarono alla memoria i balzi del cuore del mio povero padrone e ricordai che era per salvargli la vita che agivamo da codardi. Quando il pasto fu terminato, il Signore di Ballantrae mi seguì in camera mia e, prendendo una seggiola (che io non gli avevo offerto), mi chiese che intenzioni avevamo a suo riguardo.
- Ma, signor Bally, - dissi, - la casa vi sarà ancora aperta per un po' di tempo.
- Per un po' di tempo? - ripeté. - Mi pare di non capirvi bene.
- E' abbastanza chiaro, - risposi. - Vi terremo per riguardo alla nostra riputazione; non appena vi sarete pubblicamente disonorato con qualche mala azione, vi butteremo fuori un'altra volta.
- Siete diventato uno sfacciato, - disse il Signore di Ballantrae, aggrottando la fronte in modo minaccioso.
- Ho imparato a una buona scuola, - replicai. - E voi vi dovete accorgere che, con la morte del vecchio Lord, la vostra potenza è completamente finita. Io ora non vi temo, signor Bally. Credo perfino, Dio mi perdoni, di provare un certo piacere nella vostra compagnia.
Egli dette in uno scoppio di risa ed io vidi chiaramente che era simulato.
- Sono venuto a tasche vuote, - disse, dopo una pausa.
Non credo che correrà denaro. Vi consiglierei di non contarci.
- Avrò qualcosa da dire a questo proposito, - replicò egli.
- Davvero? - dissi. - Non riesco proprio a indovinare di che si tratti.
- Oh, voi fate sfoggio di sicumera, - disse il Signore di Ballantrae. - Ma io sono ancora in posizione vantaggiosa: voialtri temete lo scandalo e io invece ne godo.
- Chiedo scusa, signor Bally, - risposi. - Noi non abbiamo il minimo timore di uno scandalo contro di voi. Egli rise un'altra volta.
- Vi siete esercitato a botta e risposta, - disse. - Ma i discorsi sono molto facili e, qualche volta, molto ingannevoli. Vi avverto onestamente: vi accorgerete che sarò come il vetriolo in questa casa. Sareste più saggi se pagaste e mi rimandaste via.
E con queste parole, mi fece un cenno di saluto con la mano e lasciò la stanza.
Poco dopo, venne Milord con l'avvocato, il signor Carlyle; fu portata una bottiglia di vino e tutti bevemmo un bicchiere prima di dedicarci agli affari. Gli atti necessari furono quindi preparati ed eseguiti, e la proprietà scozzese costituita in fedecommesso affidato al signor Carlyle e a me.
- C'è un punto, signor Carlyle, - disse Milord quando tutti gli affari furono sistemati, - circa il quale desidero che voi ci facciate rendere giustizia. Questa partenza improvvisa in coincidenza con il ritorno di mio fratello, verrà certamente commentata. Vorrei che smentiste qualsiasi rapporto fra.i due fatti.
- Sarà mia cura particolare, Milord, - disse l'avvocato Carlyle. - Allora, il Signor di Ba... il signor Bally non vi accompagna?
- un punto a cui debbo ancora accennare, - rispose Milord.
- Il signor Bally rimane a Durrisdeer sotto la sorveglianza del signor Mackellar; e intendo che egli non venga a conoscenza della nostra destinazione.
- La voce pubblica, però... - cominciò l'avvocato.
- Ah! ma, signor Carlyle, questo è un segreto che deve assolutamente rimanere fra noi, - interruppe Milord.
- Nessuno, all'infuori di voi e del signor Mackellar deve essere informato dei miei movimenti.
- E il signor Bally resta qui? Benissimo, benissimo, - disse l'avvocato. - I poteri che voi lasciate... - Poi si interruppe un'altra volta.
- Signor Mackellar, - disse, - abbiamo sulle spalle un fardello piuttosto pesante.
- Senza dubbio, signore, - risposi.
- Senza dubbio, - ripeté l'avvocato. - Il signor Bally non avrà mandato?
- Non avrà mandato, - rispose Milord, - e, spero, neppure influenza. Il signor Bally non è un buon consigliere.
- Capisco, - disse l'avvocato. - A proposito: il signor Bally ha mezzi?
- Mi par di capire che non ha nulla, - rispose Milord. - Io gli do vitto, fuoco e candela in questa casa.
- E in fatto di assegni? Capirete che, se debbo assumere una parte di responsabilità, è sommamente desiderabile che io afferri le vostre intenzioni, - disse l'avvocato. - Per la questione degli assegni?
- Non ci saranno assegni, - disse Milord. - Desidero che il signor Bally viva molto appartato. Non abbiamo avuto sempre a lodarci della sua condotta.
- E in fatto di denaro, - aggiunsi, - si è dimostrato un amministratore infame. Date un'occhiata a questo registro, signor Carlyle, in cui ho annotato le diverse somme che questa persona ha prelevato dalla proprietà negli ultimi quindici o venti anni.E' un bel totale.
L'avvocato Carlyle atteggiò le labbra a un fischio:
- Non ne avevo nessun sospetto, - disse. - Scusatemi ancora, Milord, se ho l'aria di insistere, ma è veramente desiderabile che io penetri le vostre intenzioni. Il signor Mackellar potrebbe morire, laddove io mi troverei solo ad amministrare questo fedecommesso. Vossignoria non preferirebbe forse che il signor Bally, ehm, lasciasse il paese?
Milord guardò l'avvocato:
- Perché me lo domandate? - disse.
- Ho l'impressione, Milord, che il signor Bally non sia la consolazione della sua famiglia, - disse l'avvocato con un sorriso.
Il viso di Milord si accigliò subitamente.
- Vorrei che fosse all'inferno! - esclamò, e si riempì un bicchiere di vino, ma con mano così tremante che se .ne rovesciò la metà sul petto. Era la seconda volta che, nel bel mezzo di un contegno del più savi e normali, la sua animosità lo tradiva, La cosa sorprese l'avvocato Carlyle che da quel momento osservò, Milord con curiosità dissimulata; e in me ribadì la certezza che agivamo nel modo migliore per la salute e per la ragione di Milord.
A parte questo scoppio, l'intervista si svolse molto felicemente. Senza dubbio il signor Carlyle avrebbe parlato un po' alla volta,, come fanno gli avvocati. Sentivamo di avere in tal modo gettato le basi di sentimenti migliori nel paese, e la cattiva condotta del nostro uomo avrebbe certamente portato a compimento l'opera iniziata da noi. Infatti, prima di andarsene, l'avvocato ci fece capire che qualche barlume della verità aveva già cominciato a trapelare.
- Forse vi dovrei spiegare, Milord, - disse, fermandosi col cappello in mano, - che le disposizioni della signoria vostra nei riguardi del signor Bally, non mi hanno sorpreso del tutto. Qualcosa del genere era trapelato l'ultima volta che era stato a Durrisdeer. Ci fu qualche chiacchiera sul conto di una donna verso la quale voi avevate agito molto bene e che il signor Bally aveva trattata con non poca crudeltà. Poi ci fu l'affare del maggiorasco che fu molto discusso. Insomma, le chiacchiere non sono mancate, pro e contro, e qualcuno dei nostri sputasentenze ha anche espresso delle opinioni molto decise. Io ero rimasto in sospeso, come si conviene a uno della mia professione; ma il registro del signor Mackellar mi ha definitivamente aperto gli occhi. Non credo, signor Mackellar, che voi ed io gli daremo tanta corda.
Il resto di quell'importante giornata trascorse felicemente. La nostra tattica consisteva nel tener d'occhio il nemico e io feci la sentinella a turno con gli altri. Ho l'impressione che il vederci tanto attenti gli risollevasse il morale, mentre io so per certo che il mio andava insensibilmente declinando. Quello che soprattutto mi intimoriva, era la singolare destrezza con la quale quell'uomo riusciva a insinuarsi nelle nostre angustie. Può darsi che vi sia capitato, dopo una caduta da cavallo, di sentire la mano di un chirurgo separare e interrogare con arte i muscoli e poi fermarsi sicura sul punto dolente? Tale era la lingua del Signore di Ballantrae, tanto acuta nell'interrogare, e tali erano i suoi occhi, tanto pronti nell'osservare. Pareva che non avessi detto nulla e che avessi rivelato tutto. Prima che mi rendessi conto del come, il Signore di Ballantrae si condoleva meco della trascuratezza di Milord per Milady e della sua dannosa indulgenza per il figlio. Mi accorsi, con terror panico, che ritornava spesso su questo punto. Il ragazzo aveva mostrato una certa repulsione per lo zio; avevo un forte sospetto che il padre fosse stato tanto sciocco da imbeccare il figlio; il che non era un saggio principio; e quando guardavo l'uomo che mi stava dinanzi, ancora tanto prestante, tanto bel parlatore, con una tale varietà di avventure da narrare, capivo che era proprio il personaggio adatto a cattivare la fantasia di un ragazzo. Giampaolo se n'era andato appena quella mattina; non era il caso di credere che fosse stato completamente muto per quanto si riferiva al suo argomento prediletto; e così ecco Alessandro nella situazione di Didone, con un'ardente curiosità di ascoltare, ed ecco il Signore di Ballantrae come un Enea diabolico, con una quantità di cose da narrare fra le più gradite al mondo per un orecchio giovanile: battaglie, naufragi, fughe, le foreste del west e (dopo il suo ultimo viaggio) le antiche città delle Indie. Vedevo chiarissimamente con quanta astuzia l'esca avrebbe potuto venire usata, e come, a poco a poco, tutto un impero avrebbe potuto venir fondato nell'animo di qualsiasi ragazzo. Nessuna proibizione, finché quell'uomo fosse rimasto in casa, sarebbe stata abbastanza forte da tener separati quei due; poiché, se incantare i serpenti è cosa ardua, non è molto difficile gettare un sortilegio su di un pezzettino di umanità che ha messo da poco i calzoncini. Mi ricordai di un vecchio marinaio che abitava in una casa solitaria al di là di Figgate Whins (credo che la chiamasse Portobello) e di come i ragazzi uscissero a frotte da Leith, il sabato e si fermassero ad ascoltare i suoi racconti pieni di imprecazioni; erano fitti come i corvi intorno a una carogna; era una cosa che avevo osservato spesso quando, giovane studente anch'io, passavo, inteso ai miei più riflessivi passatempi delle vacanze. Non c'è dubbio che molti di quei ragazzi ci andassero a dispetto di un'espressa proibizione; molti temevano e perfino odiavano il vecchio bruto di cui avevano fatto il loro eroe; e io li ho veduti scappare via da lui quando era brillo e prenderlo a sassate quando era ubriaco. Eppure ci andavano tutti t sabati! Quanto più facilmente un ragazzo come Alessandro avrebbe subito l'influenza di un avventuriero gentiluomo dall'aspetto altero e dalla parola altisonante che avesse preso gusto a intrappolarlo; e una volta che costui si fosse assicurata quest'influenza, quanto facile gli sarebbe stato esercitarla per pervertire il bambino! Credo che il nostro nemico non avesse nominato Alessandro neppure tre volte, che io già avevo capito a che cosa mirava; tutto il. suo processo mentale passò nella mia mente in una sola pulsazione; e si può dire che facessi un balzo indietro, come se si fosse aperta una voragine sul mio cammino. Alessandro: ecco il punto debole, ecco l'Eva del nostro precario paradiso; e già il serpente sibilava sulle sue tracce. Vi assicuro che mi dedicai con tanto più ardore ai preparativi della partenza. Svaniti gli ultimi scrupoli, il pericolo del rinvio mi si parava dinanzi, scritto a caratteri enormi. Da quel momento mi pare di non essermi seduto e di non avere ripreso fiato un solo istante. Ora ero al mio posto di guardia, col Signore di Ballantrae e il suo indiano; ora in soffitta a chiudere una valigia; ora mandavo Macconochie per la porta di servizio a portarla all'imbarcadero; e por a consultarmi frettolosamente con Milady. Questo fu il rovescio della nostra vita a Durrisdeer, quel giorno; ma sul " dritto ", tutto sembrava perfettamente in ordine, come si addiceva a una famiglia che risiedeva nella dimora dei suoi padri. Anche se il Signore di Ballantrae avesse notato un po' di turbamento, lo avrebbe certo attribuito alla sensazione causata dal suo arrivo inopinato e al timore che era avvezzo a ispirare.
La cena si svolse decorosamente e, dopo un freddo scambio di saluti, la compagnia si ritirò nelle diverse camere. Io accompagnai il Signore di Ballantrae fino all'ultimo momento. Lo avevamo messo in una camera attigua a quella del suo indiano, nell'ala nord, perché era la più lontana e si poteva separare dal resto della casa chiudendo una porta. Osservai che era un buon amico, o un buon padrone (comunque fosse) per il suo Secundra Dass e che si occupava del suo benessere, attizzando il fuoco di sua mano, perché l'indiano si lamentava del freddo, informandosi del riso che era la base dei regime alimentare dello straniero, conversando piacevolmente con lui in indostano, mentre io stavo lì vicino, con la candela in mano, fingendo di cascare dal sonno. Alla fine, il Signore di Ballantrae si accorse dei miei sintomi di sconforto.
- Mi accorgo, - disse, - che avete conservato tutte le antiche abitudini: presto a letto e presto alzati. Andate a sbadigliare fuori di qui!
Una volta in camera mia, compii tutti i soliti movimenti per spogliarmi, in modo da calcolar bene il tempo; e quando il ciclo fu compiuto, preparai l'acciarino e spensi la candela. Qualcosa come un'ora dopo, riaccesi il lume, mi infilai le pantofole di pezza che portavo quando assistevo Milord, e mi mossi per andare a chiamare i viaggiatori. Erano tutti vestiti e in attesa; Milord, Milady, Miss Caterina, Alessandro e la cameriera di Milady, Christie; e notai l'effetto del sotterfugio anche su gli innocenti, i quali, uno dopo l'altro, mi mostrarono, nello spiraglio della porta, i visi bianchi come questo foglio. Sgusciammo fuori della porta di servizio nella notte fonda dove brillavano appena una o due stelle, tanto che sulle prime, ci muovevamo a tentoni incespicando nei cespugli. Un centinaio di metri più avanti, sul sentiero del bosco, Macconochie ci aspettava con una gran lanterna; così, per il resto del cammino procedemmo abbastanza agevolmente, ma sempre in silenzio, come dei colpevoli. Poco oltre l'abbazia, il sentiero sboccava nella strada maestra e, circa un quarto di miglio più oltre, nel punto chiamato Engles, dove comincia la brughiera, vedemmo brillare i fanali delle due carrozze ferme lungo la via.
Sì e no due parole furono scambiate al momento della separazione e anche quelle a proposito di affari: una silenziosa stretta di mano, un volger del viso dall'altra parte, e tutto fu finito; i cavalli staccarono il trotto, la luce dei fanali passò rapida come un fuoco fatuo sulla brughiera Ineguale, sprofondò al di là di Stony Brae; ed io e Macconochie, con la nostra lanterna, ci ritrovammo soli per la strada. C'era da aspettare solo un'altra cosa e cioè, che la carrozza riapparisse su Cartmore. A quanto pare, si fermarono sulla vetta, si voltarono a guardarsi indietro un'ultima volta e videro che la nostra lanterna non si era ancora mossa dal luogo della separazione, perché un fanale venne staccato da una delle carrozze e agitato tre volte in su e in giù, in segno di addio. E poi, dopo aver gettato un'ultima occhiata al caro tetto di Durrisdeer, scomparvero per davvero,col viso rivolto verso una barbara terra. Mai prima di allora avevo conosciuto la vastità della gran volta della notte in cui noi due poveri servitori (uno vecchio e l'altro anziano) restavamo derelitti; mai prima di allora avevo sentito tanto la mia dipendenza dalla presenza d'altri. Il senso di isolamento mi bruciava nelle viscere come il fuoco. Era come se noi rimasti a casa fossimo i veri esiliati e come se Durrisdeer e Solwayside e tutto ciò che faceva di quel paese il mio paese natio e me ne rendeva salubre l'aria e gradito il linguaggio fosse andato via, lontano lontano sul mare con i miei antichi padroni.
Per tutto il resto della notte, camminai su e giù per la liscia strada maestra, meditando sul futuro e sul passato. I miei pensieri che, sulle prime, si erano soffermati con tenerezza su coloro che erano appena partiti, assunsero un carattere più virile quando cominciai a riflettere a quanto mi restava ancora da fare. Il sole spuntava sulle cime delle montagne entro terra e gli uccelli cominciavano a stridere e il fumo delle capanne a levarsi dal seno bruno della brughiera, quando io rivolsi il viso verso casa e ridiscesi il sentiero alla volta del tetto di Durrisdeer che luccicava nella luce del mattino, vicino al mare.
Alla solita ora, feci chiamare il Signore di Ballantrae e aspettai la sua venuta in sala, con animo tranquillo. Egli dette uno sguardo in giro, alla stanza vuota e alla tavola apparecchiata per tre.
- Siamo una comitiva ridotta, - disse. - Come mai?
- E' la comitiva a cui ci dovremo abituare, - risposi. Egli mi guardò con subita durezza:
- Che storta è questa? - chiese.
- Voi ed io e il vostro amico signor Dass, siamo tutta la compagnia, ormai, - risposi. - Milord, Milady e i bambini sono in viaggio.
- Parola d'onore! - esclamò egli. - E' mai possibile? Ho dunque, spaurito i Volsci a Corioli! Ma questa non è una ragione perché la colazione si raffreddi. Prego, accomodatevi, signor Mackellar, - e si sedette, sempre parlando, a capo tavola, dove avevo avuto l'intenzione di mettermi io, - e, mentre mangiamo, potrete darmi i particolari dell'evasione,
Mi accorsi che era più turbato di quanto lo comportassero le sue parole e decisi di eguagliarlo in sangue freddo.
- Stavo per pregarvi di mettervi a capo tavola, - dissi, - poiché, sebbene io mi trovi ora forzato ad ospitarvi, non potrei mai dimenticare che, nonostante tutto, siete. stato un membro della famiglia.
Per un po' egli recitò la parte dell'anfitrione, dando a Macconochie ordini che questi riceveva di malagrazia e occupandosi in modo speciale di Secundra.
- E dove si è ritirata la mia cara famiglia? - chiese con noncuranza.
- Ah, signor Bally, questa è un'altra faccenda, - risposi, - non ho avuto ordini di comunicare la loro destinazione.
- A me, - egli corresse.
- A chicchessia, - risposi.
- E' meno accentuato, - osservò il Signore di Ballantrae-. "c'est de bon ton"; mio fratello fa progressi con l'andar del tempo. E io, caro Mackellar?
- Voi avrete vitto e alloggio, signor Bally, - dissi. - Mi è permesso darvi la sovrintendenza delle cantine che sono passabilmente ben fornite. Basta che vi portiate bene con me, il che non è molto difficile, e non vi mancherà né vino né cavallo da sella.
Egli trovò un pretesto per mandare Macconochie fuori della stanza.
- E quattrini? - domandò. - Mi devo portar bene col mio caro amico Mackellar anche per avere gli spiccioli? Questo è un piacevole ritorno alle consuetudini dell'adolescenza.
- Non ci sono assegni, - dissi, - ma prenderò su di me la cosa e farò in modo che siate provveduto con moderazione.
- Con moderazione, - egli ripeté, - e prenderete la cosa su di voi?
Si alzò e guardò le file scure dei ritratti tutto intorno alla sala.
- In nome dei miei antenati, vi ringrazio, - disse. E poi, con un ritorno di ironia: - Ma certo ci deve essere un assegno per Secundra Dass? - disse. - Non è possibile che abbiano commesso quest'omissione?
- Ne prenderò nota e chiederò istruzioni quando scriverò, - risposi. Al che, egli, cambiando improvvisamente atteggiamento e sporgendosi avanti con un gomito sul tavolo: - Vi sembra che questo sia proprio saggio? - domandò.
- Io eseguisco gli ordini, signor Bally, - risposi.
- Profondamente modesto, - disse il Signore di Ballantrae, - forse non altrettanto veritiero. Ieri mi avete detto che il mio potere era finito con la morte di mio padre. E come mai, allora, un Pari del regno fugge, col favor delle tenebre, da una casa nella quale i suoi padri hanno resistito a tanti assedi? e cela il suo indirizzo, il che deve essere motivo di inquietudine per la Sua Graziosa Maestà e per l'intero reame? e mi lascia in consegna e sotto la paterna sorveglianza del suo inestimabile Mackellar? Tutto ciò mi pare che sappia di considerevolissima e schietta apprensione.
Cercai di interromperlo con qualche diniego non molto sincero; ma egli mi impose silenzio col gesto e seguitò il discorso,
- Ho detto che sa di apprensione, - disse, - ma non insisterò oltre, perché credo che l'apprensione sia fondata. Sono venuto in questa casa con una certa riluttanza. Considerando il modo in cui ne venni via l'ultima volta, nulla, se non la necessità, avrebbe potuto indurmi al ritorno. Comunque, denaro è ciò che debbo avere. Voi non me lo volete dare con le buone; bene, io. ho il potere di cavarvelo con la forza. Entro una settimana, senza lasciare Durrisdeer, scoprirò dove sono scappati quegli stolti. Li inseguirò; e quando avrò raggiunto la mia preda, caccerò in quella famiglia un cuneo che la ridurrà in schegge. Vedremo allora se Lord Durrisdeer (pronunziò la parola con rabbia e disprezzo indescrivibili) preferirà comprare la mia assenza, e vedrete tutti, allora, se deciderò per il guadagno o per la vendetta.
Ero stupefatto nell'udire quell'uomo parlare così apertamente. La verità è che si rodeva di rabbia per la fuga ben riuscita di Milord, sentiva di fare la figura di chi si è lasciato raggirare e non era d'umore da pesare le parole.
- Vi pare che "questo" sia proprio saggio? - dissi, copiando le sue parole.
- Per vent'anni ho vissuto della mia modesta saggezza, - rispose con un sorriso che apparve quasi sciocco nella sua vanità.
- E alla fine vi ritrovate pezzente, - dissi, - se pezzente è una parola abbastanza espressiva.
- Vorrei che osservaste, signor Mackellar, - esclamò egli con subito calore e un'imperiosità che non potei non ammirare, - che io sono sempre scrupolosamente educato; copiatemi in questo e saremo buoni amici.
Fin dal principio del dialogo, mi ero sentito a disagio perché Secundra Dass mi osservava. Nessuno di noi, fin dalle prime parole, aveva neppur fatto le viste di mangiare; gli occhi dell'uno erano fissi sul viso dell'altro, turbavano per una certa luce mutevole, quasi di comprensione. Ma allontanai quel pensiero, dicendomi ancora una volta che l'indiano non capiva l'inglese; soltanto, dal tono serio delle due voci e dallo sprezzo e dall'ira che, di tanto in tanto, risuonavano in quella del Signore di Ballantrae. aveva fiutato che c'era per aria qualcosa d'importante.
Per un periodo di circa tre settimane, continuammo a vivere insieme nella casa di Durrisdeer e fu quello l'inizio di quel singolare capitolo della mia vita che debbo chiamare la mia intimità con il Signore di Ballantrae. Sulle prime, il suo contegno fu mutevole; ora era cortese, ora tornava alla vecchia abitudine di insultarmi in faccia; e, in tutti e due i casi, io gli tenevo testa. Grazie alla provvidenza, ora non dovevo più usar cautela con quell'uomo, e non ho mai avuto paura delle facce scure, ma soltanto delle spade sguainate. Cosicché, provavo un certo divertimento in quelle schermaglie di scortesie e non ero sempre male ispirato nelle mie repliche. Alla fine (eravamo a cena) ebbi un'espressione buffa che lo conquistò interamente. Rise e rise e poi:
- Chi avrebbe mai detto, - esclamò, - che questa vecchia comare avesse un certo spirito nascosto sotto le gonnelle?
- Non è spirito, signor Bally, - replicai, - è arido umorismo scozzese e del più arido che ci sia.
E difatti, non ho mai avuto la minima pretesa di essere giudicato spiritoso.
Da quel momento egli non fu mai brusco con me; fra noi tutto si svolgeva in maniera scherzosa.
Uno dei casi in cui facevamo specialmente i mattacchioni era quando egli aveva bisogno di un cavallo, di un'altra bottiglia, o di un po' di soldi. Mi faceva degli approcci alla maniera di uno scolaretto, e io sostenevo la burla, facendo la parte del padre, con infinito sollazzo da ambo le parti. Non potevo non accorgermi che egli mi stimava di più, la qual cosa solleticava in me quel misero lato della natura umana che è la vanità.
Egli si lasciò andare inoltre (debbo credere, inconsciamente) a un modo di fare non solo familiare, ma addirittura amichevole; e questo era tanto più insidioso da parte di uno che mi aveva detestato tanto a lungo. Egli usciva poco; qualche volta rifiutò perfino degli inviti.
- No, - diceva, - cosa me ne importa di questi zoticoni di gentiluomini di campagna? Voglio stare a casa, Mackellar. Ci divideremo una bottiglia in pace e ci faremo una delle nostre belle chiacchierate.
E veramente, l'ora dei pasto a Durrisdeer, sarebbe stata un godimento per chiunque, tanto la conversazione era brillante. Spesso egli esprimeva meraviglia per essere stato tanto indifferente alla mia compagnia per il passato.
- Ma vedete, - soggiungeva, - noi eravamo in campi opposti. Ci siamo ancora oggi, ma non ne parliamo. Vi stimerei molto meno, se non foste fedele al vostro principale.
Bisogna tener presente che egli mi sembrava ormai ridotto all'impotenza e incapace di fare del male, e che la forma di adulazione più avvincente è il far credere a un uomo che, dopo molti anni, venga resa tarda giustizia al suo carattere e alle sue azioni. Ma non intendo scusarmi. La mia condotta fu riprovevole; gli permisi di allettarmi e, a farla breve, credo che il cane da guardia fosse lì per addormentarsi, quando fu risvegliato bruscamente.
Avrei dovuto dire che l'indiano andava continuamente su e giù per la casa. Non parlava mai, salvo che nel suo idioma e con il suo padrone; camminava senza rumore e si faceva trovare sempre dove uno meno se l'aspettava, sempre immerso in una profonda astrazione, dalla quale si riscuoteva al mio sopraggiungere, per farsi gioco di me con una delle sue riverenze striscianti. Sembrava così silenzioso, così fragile e così immerso nelle proprie fantasticherie, che io giunsi a lasciarlo perdere senza tanti riguardi e perfino a compatirlo come un essere inoffensivo esiliato dal suo paese. Eppure, senza dubbio, quell'essere origliava; e senza dubbio fu a causa delle sue abitudini sornione e della mia sicurezza che il nostro segreto giunse a conoscenza del Signore di Ballantrae.
Fu una sera di tempaccio, dopo cena e dopo che eravamo stati allegri più del solito, che il colpo mi cadde addosso.
- Tutto questo è bellissimo, - disse il Signore di Ballantrae, - ma faremmo meglio ad andare a chiudere le valige.
- Perché? - esclamai. - Partite?
- Partiamo tutti domattina, - rispose. - Prima per il porto di Glasgow e poi per la provincia di New York. Credo che mi sfuggisse un gemito.
- Sì, - riprese egli, - mi ero vantato a torto. Avevo detto una settimana e mi ci sono voluti quasi venti giorni. Ma non importa; in compenso, camminerò più presto.
- Avete denaro per il viaggio? - chiesi.
- Caro ed ingenuo personaggio, ce l'ho, - diss'egli, - rimproveratemi, se credete, la mia doppiezza; ma, mentre spremevo i soldini dal mio babbino, avevo messo da parte una provvista per la brutta stagione. Voi pagherete la vostra traversata, se credete di accompagnarmi in marcia affiancata; ho abbastanza denaro per Secundra e per me, ma non di più; abbastanza da essere pericoloso, ma non abbastanza da essere generoso. Però c'è un sedile esterno sulla carrozza e io ve lo cederò a un prezzo equo; e così il serraglio può andare al completo: il cane da guardia, la scimmia e la tigre, tutti insieme.
- Vengo con voi, - dissi.
- Ci conto, - rispose il Signore di Ballantrae. - Mi avete veduto sconfitto e intendo che mi vediate vittorioso. Per ottenere questo, correrò il rischio di farvi inzuppare come un pulcino, con questo tempaccio.
- Se non altro, - dissi, - sapete benissimo che non mi potete cacciar via.
- Non sarebbe facile, - rispose. - Mettete il dito sulla piaga col vostro solito magnifico buon senso. Non lotto mai con l'inevitabile.
- Immagino che pregarvi sia inutile, - dissi.
- Perfettamente, credetemi, - rispose.
- Eppure, se mi deste tempo, potrei scrivere... - cominciai.
- E quale sarebbe la risposta di Lord Durrisdeer? - domandò egli.
- Già, - dissi io, - qui sta il punto.
- E, in ogni modo, è tanto più sbrigativo che vada io in persona! - disse il Signore di Ballantrae. - Ma questo è tutto fiato sprecato. Domattina alle sette la carrozza sarà alla porta. Perché io mi muovo dalla porta, Mackellar, non me la svigno per i boschi per poi prendere la carrozza lungo la via... diciamo, a Engles?
Ormai la mia decisione era presa.
- Potete aspettarmi un quarto d'ora a Saint Bride? - dissi. - Ho un affaruccio indispensabile con Carlyle.
- Un'ora, se preferite, - rispose. - Non tento neppure di negare. che il denaro del vostro posto mi sta a cuore; e poi voi potreste sempre arrivare prima a Glasgow con un cavallo da sella.
- Ebbene, - dissi, - non avrei mai creduto di lasciare la vecchia Scozia.
- Vi farà diventare più arzillo, - rispose.
- Questo viaggio finirà male per qualcuno, - dissi, - per voi, credo, signore. Il cuore me lo dice e mi dice chiaramente che questo è un viaggio nefasto.
- Se vi date alle profezie, - rispose. - ascoltate un po' questo.
Dall'aperto Solway giunse una raffica violenta e la pioggia sbatté contro le grandi finestre.
- Sai che vuoi dire questo, stregone? - disse con un forte accento locale, - vuoi dire che un certo Mackellar avrà un bel mal di mare.
Quando fui tornato in camera mia, rimasi a sedere in uno stato di penosa agitazione, ascoltando l'imperversare della bufera che batteva in pieno su quel frontone della casa. Un po' per l'oppressione dell'animo e un po' per gli urli raccapriccianti del vento fra le cime delle torricelle e l'incessante fremito della casa di pietra, il sonno fuggì completamente dalle mie pupille. Rimasi seduto presso la candela, fissando i vetri neri della finestra, di dove pareva che la tempesta dovesse da un momento all'altro irrompere nella stanza; e su quello sfondo vuoto, vedevo un succedersi di conseguenze che mi faceva rizzare i capelli sul capo. Il bambino corrotto, il focolare distrutto, il mio padrone morto o peggio che morto, la mia padrona sprofondata nella desolazione... Tutto questo io mi vedevo davanti, dipinto a vivi colori nell'oscurità; e l'urlo lamentoso del vento pareva farsi gioco della mia inazione.



CAPITOLO NONO


VIAGGIO DI MACKELLAR COL SIGNORE DI BALLANTRAE

La carrozza giunse alla porta sotto una fitta acquerugiola che inzuppava fino alle ossa. Prendemmo commiato in silenzio dalla casa di Durrisdeer che, con le grondaie stillanti e le finestre chiuse, sembrava un luogo consacrato alla malinconia., Osservai che il Signore di Ballantrae sporgeva il capo, volgendosi a guardare i muri bagnati e i tetti luccicanti finché non sparvero, inghiottiti a un tratto dalla caligine; e debbo credere che al momento della partenza una certa naturale tristezza si impadronisse di quell'uomo, o forse era un presentimento della fine? Comunque fosse, nel risalire il lungo pendio che si diparte da Durrisdeer, mentre camminavamo a fianco a fianco sotto l'acquerugiola, egli si mise prima a zufolare e poi a cantare la più triste delle nostre canzoni popolari, una di quelle che fanno piangere la gente nelle taverne, Willie il viandante. Non ho mai udito altrove le parole cantate da lui e non sono mal riuscito a procurarmene una copia; ma alcune che erano le più intonate alla nostra partenza, mi sono rimaste nella memoria. Una strofa cominciava:
La casa era una casa, piena di dolci visi; Per i bimbi una casa era, tutta sorrisi, e finiva all'incirca così:
Ora, quando la sera cade sulla brughiera. E' nudo un casolare, è un freddo focolare... Son mura abbandonate, da che siete partiti Voi, cuori, che amavate i vecchi luoghi aviti.
Non mi sarebbe stato possibile giudicare dei pregi di quei versi, talmente erano consacrati dalla malinconia dell'ambiente e cantati (o meglio, accarezzati) da un vero maestro cantore e 1n un'ora così adatta. Quando ebbe finito, egli mi guardò in faccia e vide che avevo le lagrime agli occhi.
- Ah, Mackellar, - disse, - credete che io non abbia mai rimpianti?
- Non credo che potreste essere tanto cattivo, - risposi, - se non aveste in voi tutto il meccanismo per essere buono.
- No, non tutto, - diss'egli, - non tutto. Qui siete in errore. La malattia di non volere, caro il mio evangelista.
Ma mi parve che sospirasse mentre risaliva in carrozza.
Per tutta la giornata viaggiammo con quel tempo infame; la nebbia ci premeva da vicino e il cielo piangeva senza posa sul mio capo. La strada passava sui colli della brughiera, dove non s'udiva altro suono all'infuori delle strida degli uccelli nell'aria bagnata e lo scrosciare dei ruscelli rigonfi. A volte mi appisolavo per piombare immediatamente in incubi orrendi dai quali mi destavo soffocando. A volte, se la strada era ripida e le ruote giravano lentamente, ml giungevano, dall'interno della vettura, le voci dei viaggiatori che parlavano in quella lingua tropicale che a me pareva inarticolata come il pigolio degli uccelli. A volte, su per una lunga salita, il Signore di Ballantrae metteva piede a terra e mi camminava al fianco, per lo più senza parlare. E sempre, nel sonno o nella veglia, io mi vedevo davanti la stessa cupa prospettiva della rovina che si avvicinava, e mi si presentavano alla vista sempre gli stessi quadri; soltanto, ora erano dipinti sullo sfondo della nebbia contro il fianco della collina. Uno, ricordo, mi si parava dinanzi nei colori di una vera e propria allucinazione. Vedevo Milord, seduto a un tavolo in una stanzetta; alzava lentamente il capo che prima aveva tenuto abbassato fra le mani e volgeva verso di me un viso dal quale era fuggita ogni speranza. L'avevo veduto per la prima volta contro i vetri neri, l'ultima notte che avevo passato a Durrisdeer. Questa visione mi perseguitò e mi tornò davanti per una buona metà del viaggio; eppure non era effetto di pazzia, poiché io sono giunto all'età matura senza decadimento intellettuale; e non era neppure, come fui tentato di supporre, un avvenimento del cielo per il futuro, poiché accadde ogni genere di calamità, ma non quella, e io vidi molti spettacoli pietosi, ma non mai quello.
Era stato deciso che avremmo viaggiato tutta la notte; e, cosa strana,. appena sceso il crepuscolo, cominciai a sentirmi un po' sollevato. I fanali che brillavano e illuminavano la nebbia e i cavalli fumanti, e il postiglione traballante, mi presentavano forse un quadro di per sé più gaio di quello che la luce del giorno mi aveva mostrato; o forse il mio animo si era stancato della propria malinconia. Fatto sta che passai alcune ore di veglia non senza qualche pensiero consolante in mente e, alla fine, caddi in un sonno regolare e senza sogni. Ma la mia mente dovette rimanere attiva anche nel più profondo del sonno, e anche con un certo grado di intelligenza. Infatti, mi destai di soprassalto, nell'atto di dire ad alta voce a me stesso:
Per i bimbi una casa era, tutta sorrisi, colpito di trovarvi (ciò che non avevo notato il giorno prima) un riferimento col detestabile scopo di quel viaggio.
Eravamo allora molto vicini alla città di Glasgow, dove ben presto fummo a colazione tutti insieme in una locanda, e dove (come piacque al diavolo) trovammo una nave proprio in procinto di salpare. Ci assicurammo i posti nella cabina e, due giorni dopo, portammo a bordo le nostre cose. Il nome della nave era Senzapari. Era una nave vecchissima e il nome era molto appropriato. Era voce generale che quella sarebbe stata la sua ultima traversata; la gente sul molo scuoteva il capo e io ricevetti per la strada parecchi avvertimenti da parte di estranei i quali asserivano che la nave era muffita come un formaggio stantio, che era troppo carica e che sarebbe affondata senza fallo se si fosse imbattuta in una mareggiata. Per questo avvenne che noi fossimo gli unici passeggeri; il capitano McMurtrie, era un uomo silenzioso e assorto, e aveva l'accento gaelico, ossia di Glasgow; i sottufficiali erano gente di mare ignorante, venuta su dalla gavetta, e il Signore di Ballantrae ed io eravamo ridotti alla compagnia l'uno dell'altro.
La Senzapari uscì dalla Clyde con vento favorevole e per circa una settimana avemmo bel tempo e la sensazione di andare avanti. Con meraviglia mi accorsi di essere un marinaio nato, almeno in quanto non soffrivo il mare; però ero lungi dal godere la mia solita buona salute. Fosse il rullio della nave sui marosi, l'isolamento, il cibo in conserva, o fossero tutte queste cose insieme, fatto sta che soffrivo di umor nero e di una penosa tensione di nervi. La natura della mia missione a bordo forse vi contribuiva, ma nulla più; la malattia, qualunque fosse, aveva origine dall'ambiente e se non era colpa della nave, doveva essere colpa del Signore di Ballantrae. Odio e paura sono cattivi compagni di letto; ma (sia detto a mia vergogna) io li ho provati in altri luoghi, mi sono posto a giacere e mi sono levato in loro compagnia e in loro compagnia ho mangiato e bevuto, eppure mai, prima, né dopo, di allora, mi sono sentito così completamente avvelenato, nell'animo e nel corpo, come a bordo della Senzapari. Confesso francamente, che il mio nemico mi dava un bell'esempio di tolleranza; nelle nostre peggiori giornate, faceva mostra della più paziente piacevolezza, mi intratteneva in conversazione finché ne avevo voglia, e se respingevo le sue cortesie, si sdraiava sul ponte a leggere. Il libro che aveva portato a bordo era la famosa Clarissa di Richardson! fra le altre piccole attenzioni, me ne leggeva dei brani ad alta voce; e nessun dicitore avrebbe potuto rendere con maggior forza le parti patetiche di quei libro. Io replicavo con brani della Bibbia (che era tutta la mia biblioteca) i quali mi erano affatto nuovi perché (mi duole dirlo) ho sempre trascurato i miei doveri religiosi, e così è ancora oggi. Egli gustava i meriti dell'opera, da quel conoscitore che era; e qualche volta mi prendeva il libro di mano, ne sfogliava le pagine da uomo che sa quello che vuole e mi rendeva, con la sua bella dizione, pan per focaccia. Era singolare però, che egli riferisse così poco ciò che leggeva a se stesso; tutto passava alto al disopra del capo, come un temporale d'estate; Lovelace e Clarissa, le storie della generosità di David,. i salmi della sua penitenza; le solenni interrogazioni del libro di Giobbe, la commovente poesia di Isaia, tutto era per lui unicamente fonte di divertimento, come il grattare di un violino in una taverna. Quella sensibilità esteriore e quell'interna durezza mi misero contro di lui; mi parevano tutt'uno con quella spudorata volgarità che io sapevo latente sotto la vernice delle sue belle maniere;e qualche volta provavo per lui un senso di ribrezzo, come se fosse stato deforme, e indietreggiavo come in presenza di qualche cosa di spettrale. C'erano dei momenti in cui avevo l'impressione che fosse un uomo di cartapesta; mi pareva che, se fossi riuscito a colpirlo con destrezza nell'usbergo della sua apparenza, non vi avrei trovato dentro null'altro che il vuoto.
Quel mio orrore (e non credo che fosse soltanto immaginazione) aumentò grandemente in me la repulsione e l'odio per la sua presenza; cominciai a sentire che qualcosa dentro di me rabbrividiva al suo avvicinarsi; a volte avevo voglia di gridare; c'erano giorni in cui mi pareva che lo avrei potuto picchiare. Questo stato d'animo era certamente accentuato da un senso di vergogna, perché negli ultimi giorni, a Durrisdeer, mi ero lasciato andare a tollerare un po' quell'uomo; e se qualcuno mi avesse detto allora che ci sarei ricascato, gli avrei riso in faccia. Può darsi che egli non si rendesse conto di quella mia estrema febbre di risentimento; credo, però, che fosse troppo pronto per non accorgersene e che piuttosto, in una lunga vita d'ozio, avesse finito col provare un vero e proprio bisogno di compagnia, e che questo lo costringesse ad affrontare e a tollerare la mia dichiarata avversione. E' certo, se non altro, che amava il suono della propria voce, come, del resto, amava ogni parte e ogni caratteristica della propria persona; è una forma di imbecillità che è quasi inseparabile dalla malvagità. L'ho visto ridursi, quando io mi mostravo recalcitrante, a fare lunghi discorsi al capitano, nonostante che questi desse chiari segni di stanchezza, agitando miserevolmente mani e piedi e rispondendo solo a grugniti.
Dopo la prima settimana di navigazione, ci imbattemmo in venti contrari e maltempo. Il mare era grosso. La Senzapari che era una nave di vecchio modello e mal caricata, rullava oltre il credibile, tanto che il capitano tremava per l'alberatura e io per la pelle. Non facevamo alcun progresso sulla nostra rotta. Un insopportabile malumore si impadronì della nave; gli uomini, ufficiali e sottufficiali, si beccavano reciprocamente tutto il santo giorno. Una parola pepata da una parte e un pugno dall'altra, erano incidenti quotidiani. A. volte, tutta la ciurma rifiutava di fare il proprio dovere; e noi del quarto di poppa venimmo armati due volte (era la prima volta che portavo armi) per paura di un ammutinamento. Nel bel mezzo dei nostri malumori, si scatenò un uragano e tutti pensammo che la nave sarebbe affondata. Io rimasi chiuso in cabina dal mezzodì di un giorno fino al tramonto del giorno seguente; il Signore di Ballantrae era sballottato in qualche punto sopra coperta e Secundra aveva ingoiato non so che droga e giaceva privo di sensi; cosicché si può dire che passassi tutte quelle ore in solitudine ininterrotta. Sulle prime ero terrorizzato al punto di essere incapace di muovermi e, quasi, di pensare; la mia mente sembrava di ghiaccio. Ma ben presto un raggio di conforto si fece strada fino a me. Se la Senzapari fosse affondata, avrebbe trascinato seco nelle profondità insondate del mare l'essere che noi tutti temevamo e odiavamo tanto; non ci sarebbe stato più il Signore di Ballantrae; i pesci avrebbero folleggiato fra le sue costole, i suoi piani sarebbero stati annientati e i suoi innocenti nemici avrebbero avuto pace. Sulle prime, come ho detto, non fu che un raggio di conforto; ma ben presto crebbe e divenne un sole splendente. Il pensiero della morte di quell'uomo, della sua scomparsa da questo mondo che egli aveva amareggiato a tanta gente, si impadronì del mio spirito. Me ne compiacevo, lo assaporavo, ne sentivo la dolcezza nelle mie viscere. Mi figuravo l'ultimo immergersi della nave, il mare che da ogni parte irrompeva nella cabina, la mia breve lotta mortale, solo in quel luogo chiuso; ne enumeravo gli orrori, direi quasi con soddisfazione; sentivo che avrei potuto sopportare tutto e anche di più, se la Senzapari avesse trascinato con sé, travolto dalla sua stessa rovina, il nemico della casa del mio povero padrone. Verso il mezzodì del secondo giorno l'urlo del vento tacque; la nave non si inclinava più tanto pericolosamente e apparve chiaro che il colmo della tempesta era passato. Com'è vero che spero nella misericordia divina, fui profondamente deluso. Nell'egoismo dell'abbietta, esclusiva passione dell'odio, dimenticavo la sorte dei nostri innocui compagni di viaggio, e pensavo soltanto a me stesso e al mio nemico. Per me, ero già vecchio; non ero mai stato giovane, non ero fatto per i piaceri del mondo, avevo pochi affetti; non valeva neppure la pena di gettare in aria una moneta d'argento per decidere se dovevo morire annegato, seduta stante, nell'Atlantico, o trascinarmi ancora qualche anno per poi morire, in maniera forse non meno terribile, di malattia, in fondo a un letto solitario. Mi buttai in ginocchio, aggrappandomi al cofano, altrimenti sarei stato scaraventato da una parte all'altra della cabina dal rullio e, alzando la voce nel frastuono dell'uragano che si andava placando, invocai empiamente da Dio la mia stessa morte.
- O Dio! - gridai, - sarei più degno di chiamarmi uomo se mi alzassi e colpissi a morte questo essere; ma tu mi facesti vile nel grembo di mia madre. O Signore, Tu ml hai fatto così. Tu sai la mia debolezza, Tu sai che il volto della morte mi fa tremare le ginocchia. Ma ecco! Il Tuo servo. è pronto e la sua debolezza mortale è stata messa da parte. Lascia che io dia la mia vita per quella di quest'uomo! Prendile tutte e due, o Signore! Prendile tutte e due e abbi misericordia dell'innocente!
In parole simili a queste, ma più. irriverenti e con ancora più scongiuri, continuai a sfogare l'animo mio. Dio non mi ascoltò, debbo credere, per misericordia; e io ero ancora assorto nelle mie suppliche angosciose, allorché qualcuno, spostando la tenda incatramata, lasciò entrare nella cabina la luce del tramonto. Mi alzai a fatica, tutto vergognoso, e fui sorpreso nell'accorgermi che barcollavo e che ero tutto indolenzito, come un uomo che fosse stato steso sul cavalletto. Secundra Dass, finito l'effetto della droga, si era svegliato ed era in piedi in un angolo non lontano e mi fissava con occhi stralunati; e dal finestrino aperto il capitano ml ringraziava delle mie invocazioni.
- Siete stato voi a salvare la nave, signor Mackellar, - disse. - Non c'è arte di marinaio che avrebbe potuto tenerla a galla; ben si può dire: "Se il Signore non protegge la città, la scolta veglia invano".
Fui sbalordito dall'errore del capitano; sbalordito anche dalla sorpresa e dal timore con cui l'indiano mi aveva guardato sulle prime e dall'ossequiosa cortesia di cui cominciò ben presto a colmarmi. Ora so che doveva avermi udito e che aveva afferrato lo speciale significato delle mie preghiere. E' certo, naturalmente, che egli riportò subito la cosa al padrone; e ora che mi guardo indietro sapendone di più, capisco una cosa che allora mi lasciava tanto perplesso: 1 sorrisi singolari e, per così dire, di approvazione con cui il Signore di Ballantrae mi onorava. Allo stesso modo, capisco una frase che, ricordo, gli sfuggì durante la conversazione, quella sera stessa, quando, levando la mano e sorridendo, mi disse:
- Ah, Mackellar non sempre l'uomo è quel vigliacco e neppure quel buon cristiano che crede di essere.
Non immaginava di essere tanto vicino al vero. Poiché sta di fatto che i pensieri nati in me nella violenza della tempesta mantennero la loro presa sul mio spirito, e le parole che mi erano venute spontaneamente alle labbra nel momento della preghiera continuarono a risuonarmi negli orecchi; ed è opportuno che io ne riferisca onestamente le vergognose conseguenze; poiché non mi si addice la slealtà di descrivere i peccati altrui e nascondere i miei.
Il vento cadde, ma il mare era più agitato che mai. Per tutta la notte, la Senzapari rullò spaventosamente; spuntò un altro giorno e un altro ancora e nulla cambiò. Attraversare la cabina era pressoché impossibile; vecchi ed esperti marinai furono scaraventati sul ponte e uno fu gravemente contuso dall'urto; ogni asse e ogni bullone della vecchia nave cigolava forte, e la grande campana vicino alle bitte delle ancore rintoccava lugubremente e senza posa. In una di quelle giornate, il Signore di Ballantrae ed io eravamo seduti insieme presso l'interruzione del ponte a poppa. Bisogna che dica che la Senzapari aveva una poppa altissima. Tutto intorno correvano grandi murate, per cui la nave aveva molta deriva; esse scendevano, ai lati, verso prua, in due belle volute scolpite, all'antica, fino a incontrarsi con le murate dell'insellatura. Il risultato di una simile disposizione che sembrava concepita più per ornamento che per utilità, è una discontinuità di protezione, soprattutto sul margine delle parti elevate, proprio dove (in certi movimenti della nave) sarebbe più necessaria. In quel punto, noi eravamo seduti, con le gambe penzoloni; il Signore di Ballantrae era fra me e il fianco della murata e io mi reggevo con tutte e due le mani alla griglia del finestrino della cabina, perché la posizione mi pareva pericolosa; tanto più che avevo continuamente avanti agli occhi la portata delle nostre evoluzioni nella persona del Signore di Ballantrae che spiccava contro il sole nell'interruzione del ponte. Ora la sua testa era allo zenith e la sua ombra veniva proiettata addirittura dalla parte opposta della Senzapari, ora tornava giù fin sotto i miei piedi e la linea del cielo balzava su al disopra di lui, come il soffitto di una camera. Guardavo e mi sentivo sempre più affascinato, come si dice che succeda agli uccelli che fissano i serpenti. Il mio cervello, inoltre, era confuso da una sorprendente varietà di rumori, perché ora che tutta la velatura era stata spiegata nella vana speranza di far avanzare la nave, questa risuonava come un cantiere per lo sbatacchiare delle vele. Prima parlammo dell'ammutinamento che ci aveva minacciati; questo ci condusse a trattare l'argomento dell'assassinio, e quest'ultimo offrì al Signore di Ballantrae una forte tentazione a cui non seppe resistere. Dovette per forza raccontarmi una storia per dimostrarmi la sua astuzia e, al tempo stesso, la sua perfidia. Era una cosa che faceva sempre con ostentazione e artificiosità e, di solito, con molto effetto. Ma quella storia, narrata ad altissima voce, in mezzo a quel tumulto, da un narratore che ora mi guardava dall'alto dei cieli e, un istante dopo, mi sbirciava di tra le piante dei piedi; proprio quella storia, ripeto, fece presa su di me in modo veramente singolare.
- Il conte mio amico, - così cominciava la storia, - aveva un nemico: un certo barone tedesco, poco noto a Roma. La ragione dell'inimicizia del conte non ha importanza; ma poiché egli era fermamente deciso a vendicarsi e ciò senza correre rischi, tenne nascosto il suo odio a tutti, perfino al barone. Del resto, questo è il principio essenziale della vendetta; l'odio che si tradisce é odio impotente. Il conte aveva una mente curiosa e investigatrice; aveva in sé qualcosa dell'artista; se gli si presentava l'occasione di fare una cosa, doveva farla sempre alla perfezione, non solo quanto al risultato, ma anche quanto ai mezzi e agli strumenti, altrimenti l'avrebbe giudicata un fallimento. Ora avvenne che un giorno, cavalcando per i sobborghi della città, giungesse a un viottolo abbandonato; e questo si perdeva nella maremma che si stende intorno a Roma. Da un lato c'era un'antica tomba romana; dall'altro, una casa abbandonata in un giardino di sempreverdi. La strada lo condusse in breve in un campo di ruderi, in mezzo ai quali egli vide, sul fianco di un colle, una porta aperta e, non lontano, un unico pino stento, non più alto di un cespuglio di ribes. Il luogo era deserto e molto nascosto; una voce interna parve sussurrare al conte che lì avrebbe trovato qualcosa che gli sarebbe stato utile. Il conte legò il cavallo al pino, prese in mano l'acciarino per farsi lume e si addentrò nella collina. La porta dava in una galleria di antica muratura romana e poco oltre si divideva in due ramificazioni. Il conte prese la svolta a destra e la seguì, a tentoni nell'oscurità, finché venne arrestato da una specie di staccionata, circa all'altezza del gomito, che sbarrava completamente la galleria. Tentando oltre il suolo col piede, trovò un orlo di pietra liscia e poi il vuoto. La sua curiosità si era ridestata; riunendo alcuni fuscelli secchi che erano sparsi a terra, il conte accese un fuoco. Davanti a lui, si apriva un pozzo profondo; senza dubbio anticamente qualche contadino dei dintorni lo aveva usato per attingerne l'acqua ed aveva piantato quella staccionata. A lungo il conte rimase appoggiato alla ringhiera, guardando giù nel pozzo. Era di costruzione romana e, come tutto ciò cui metteva mano quel popolo, sembrava costruito per l'eternità; le pareti erano ancora a picco, le connessure lisce; per chi vi fosse caduto dentro; non ci sarebbe stata via di scampo. Il conte pensava: "Un forte impulso mi ha spinto fin qui. Perché? Che ci ho guadagnato? Che cosa mi induce a guardare in questo pozzo? ". Quand'ecco, la prima sbarra della staccionata cedette sotto il suo peso e per un pelo egli non cadde a capofitto nel pozzo. Facendo un balzo indietro per mettersi in salvo, calpestò l'ultima fiammella del suo fuoco che da quel momento non dette più luce, ma solo un fumo fastidioso.
"...Forse sono stato mandato qui alla morte?", si chiese il conte; e un tremito lo scosse dal capo alle piante. E allora, un pensiero gli balenò alla mente. Avanzò carponi fino all'orlo del pozzo e cercò in aria con la mano. Il palo superiore era stato fissato a due sostegni; si era staccato da uno, ma era ancora attaccato all'altro. Il conte lo rimise come lo aveva trovato, in modo che avrebbe significato la morte del primo venuto, e uscì a tentoni dalla catacomba, barcollando come un malato.
Il giorno seguente, cavalcando per il corso in compagnia del barone, lasciò trasparire a bella posta un profondo turbamento. L'altro (secondo quanto egli aveva calcolato) gliene chiese la causa; ed egli, dopo qualche schermaglia, ammise di avere lo spirito sconvolto da un insolito sogno. Questo era calcolato per impressionare il barone che era superstizioso e fingeva di disprezzare la superstizione. Ne seguì qualche facezia, e quindi il conte, come cedendo ad un subito impulso, disse all'amico di stare in guardia, perché era proprio di lui che aveva sognato. Voi conoscete abbastanza bene la natura umana, ottimo Mackellar, per essere certo di una cosa: e cioè, che il barone non ebbe pace, finché l'altro non gli ebbe narrato il sogno. Il conte, sicuro che l'altro non avrebbe desistito dalle sue insistenze, lo tenne in ballo finché la sua curiosità fu eccitata al massimo grado e poi, con apparente riluttanza, si dette per vinto.
- Vi accerto, - disse, - che andrà a finir male; qualcosa me lo dice; ma poiché non vi può essere pace, né per voi né per me, se non a questo patto, che la colpa ricada sul vostro capo. Ecco il sogno: Mi pareva di vedervi cavalcare non so dove, ma credo che fosse nelle vicinanze di Roma, perché da una parte c'era una tomba antica e dall'altra un giardino di sempreverdi. Mi pareva di chiamarvi e di gridarvi di tornare indietro, in un vero e proprio spasimo di terrore; non so se mi udivate, ma continuavate ad avanzare ostinatamente. La strada vi conduceva in un luogo deserto fra le rovine, dove una porta si apriva sul fianco di un colle e, lì vicino, c'era un pino male sviluppato. Lì mettevate piede a terra (io seguitavo a gridarvi di stare attento), legavate il cavallo al pino, ed infilavate risolutamente la porta. Dentro era buio; ma nel sogno io vi vedevo ancora, e ancora vi scongiuravo di fermarvi. Voi avanzavate a tentoni lungo la parete di destra, prendevate un'altra galleria a destra e giungevate a una stanzetta dove c'era un pozzo con una ringhiera. Nel veder ciò, non so perché, la mia ansia per voi crebbe di mille doppi; mi pareva di urlare fino ad esser rauco, dicendovi di badare, gridando che eravate ancora in tempo, e supplicandovi di allontanarvi all'istante da. quel vestibolo. Questa era la parola che usavo nel sogno, e mi pareva allora che avesse un significato ben chiaro; ma oggi da desto, vi assicuro che non so cosa significasse. A tutte le mie grida, voi non prestavate la minima attenzione e intanto vi appoggiavate alla ringhiera e guardavate giù nell'acqua. E là, voi riceveste una comunicazione; non credo di averne afferrato il senso, ma la paura che ne provai mi scosse dal sonno di colpo e mi destai tremando e singhiozzando. Ed ora - continuò il conte, - vi ringrazio di cuore della vostra insistenza. Questo sogno gravava su di me come un peso; ma ora che l'ho raccontato in parole chiare e alla chiara luce del giorno, non mi pare un gran che.
- Non saprei, - rispose il barone, - in certi punti è un po' strano. Una comunicazione, avete detto? Oh, è un buffo sogno. È una storiella che divertirà i nostri amici.
- Non ne sono proprio sicuro, - disse il conte. - Io provo una certa riluttanza a raccontarlo. Dimentichiamolo, piuttosto.
- Certo, certo, - rispose il barone. E difatti, non fecero più allusione al sogno. Qualche giorno più tardi il conte propose una cavalcata in campagna, e il barone accettò prontamente, giacché i due divenivano ogni giorno più amici. Sulla via del ritorno a Roma, il conte insensibilmente guidò i cavalli per una certa strada. Poco dopo, tirò le redini, si coperse gli occhi con una mano e si lasciò sfuggire un'esclamazione. Poi scoperse di nuovo il viso, tutto bianco, perché era un attore consumato.
- Che avete? - esclamò il barone. - Che vi succede?
- Nulla, - rispose il conte. - Non è nulla; un accesso, non so. Torniamo presto a Roma.
Ma nel frattempo il barone si era guardato intorno; ed ecco, sul lato sinistro della strada, andando verso Roma, vide un viottolo polveroso, con una tomba da una parte e un giardino di sempreverdi dall'altra.
- Sì, - disse con voce mutata, - torniamo presto a Roma; ho paura che non vi sentiate bene.
- Oh, per l'amor di Dio! - esclamò il conte rabbrividendo, - torniamo a Roma; bisogna che mi metta a letto.
Fecero la via del ritorno senza quasi scambiare parola; e il conte che veramente avrebbe dovuto andare in società, andò invece a letto e fece sapere che aveva un leggero attacco di febbre palustre. Il giorno dopo, il cavallo del barone fu trovato legato al pino, ma del barone, da quel momento, non si udì più parlare. E ora, fu assassinio, questo? - domandò il Signore di Ballantrae, interrompendosi bruscamente.
- Siete sicuro che fosse un conte? - domandai.
- Non sono certo del titolo, - rispose, - ma era gentiluomo di nascita; il Signore vi guardi, MackeIlar, da un nemico tanto astuto!
Disse queste ultime parole sorridendomi dall'alto; un istante dopo era giù, sotto i miei piedi. Continuavo a seguire con lo sguardo le sue evoluzioni, con una fissità puerile; mi davano le vertigini e un senso di languore; parlavo come in sogno.
- Odiava il barone di un grande odio? - chiesi.
- Si sentiva rimescolare le viscere quando quell'uomo gli si avvicinava, - rispose.
- Io ho provato la stessa cosa, - dissi.
- Proprio! - esclamò il Signore di Ballantrae. - Questa si che è nuova! Mi domando se... o forse mi lusingo? o forse sono io la causa di quelle perturbazioni viscerali?
Era capacissimo di scegliere una posa aggraziata, anche se nessuno lo guardava all'infuori di me, e tanto più se c'era un po' di pericolo. In quel momento era seduto con le gambe accavallate e le braccia conserte, adattandosi con equilibrio perfetto alle ondulazioni della nave, e tale equilibrio il peso di una piuma sarebbe bastato a rovesciare. Tutto a un tratto, mi si parò dinanzi la visione di Milord seduto al tavolo col capo fra le mani; soltanto, ora, quando mi mostrò il viso, la sua espressione era carica di rimprovero. Le parole della mia preghiera ("sarei più degno di chiamarmi uomo se colpissi a morte quell'essere") mi guizzarono nello stesso istante nella memoria. Chiamai a raccolta tutte le mie energie e (la nave in quel momento si abbassava verso il mio nemico) gli detti una repentina spinta col piede. Era scritto che dovessi avere sulla coscienza la colpa dell'attentato senza averne i vantaggi. Fosse la mia esitazione o la sua incredibile prontezza, fatto sta che egli schivò la spinta balzando in piedi e afferrandosi a un tirante nello stesso memento. Non so quanto tempo passasse; io restavo disteso sul ponte, sopraffatto dal terrore, dai rimorsi e dalla vergogna ed egli in piedi con la mano sul tirante e la schiena contro la murata, guardandomi con un'espressione indefinibile. Finalmente parlò: - Mackellar, - disse, - non vi faccio rimproveri, ma vi offro un patto. Da parte vostra, non credo che ci sia desiderio di divulgare questa vostra impresa; da parte mia, ammetto francamente che non ci tengo a vivere nel perpetuo terrore di venire assassinato dall'uomo con cui siedo a tavola. Promettetemi... ma no, - si interruppe, - voi non siete ancora calmo e padrone di voi stesso; potreste credere che vi ho estorto questa promessa, profittando della vostra debolezza; e non vorrei lasciare adito alla casistica che è la disonestà della gente coscienziosa. Prendete tempo per meditare.
Con queste parole, si arrampicò come uno scoiattolo su per il ponte sdrucciolevole e sprofondò nella cabina. Circa una mezz'ora dopo tornò; io giacevo ancora dove ml aveva lasciato.
- Dunque, - disse, - mi volete promettere sulla vostra fede di cristiano e di servo fedele di mio fratello che non avrò da temere altri attentati da parte vostra?
- Ve lo prometto, - risposi.
- Dovrò esigere la vostra mano, per questo, - diss'egli.
- Avete Il diritto di imporre delle condizioni, - risposi e ci stringemmo la mano.
Egli tornò immediatamente a sedersi nello stesso posto e nello stesso pericoloso atteggiamento di prima.
- Tenetevi! - gridai, coprendomi gli occhi. - Il minimo movimento inatteso del mare vi potrebbe scaraventare di sotto.
- Siete veramente incoerente, - rispose sorridendo, ma facendo quanto gli chiedevo. - Nonostante tutto, Mackellar, desidero che sappiate che siete cresciuto di una diecina di metri nella mia stima. Credete che non sappia apprezzare la fedeltà? e per che cosa credete che io mi porti dietro in giro per il mondo quel Secundra Dass? perché domani sarebbe capace di morire o di assassinare per me; e io gli voglio bene per questo. Ebbene, vi sembrerà strano, ma dopo il fatto di oggi mi piacete di più. Vi credevo sotto l'influsso magnetico dei dieci comandamenti; ma no, Dio mi danni l'anima! - gridò, - la vecchia comare ha sangue nelle vene, tutto compreso! Il che non toglie nulla al fatto, - continuò, con un altro sorriso, - che avete fatto bene a fare quella promessa; perché dubito che fareste una brillante carriera nella vostra nuova professione.
- Immagino, - risposi, - che dovrei chiedere perdono a Dio e a voi per il mio attentato. In ogni modo, ho dato la mia parola e la manterrò lealmente. Ma quando penso a coloro che perseguitate... - Mi fermai.
- La vita è una cosa strana, - diss'egli, - e l'umanità gente stranissima. Voi credete di amare mio fratello? Vi assicuro che è solamente abitudine. Interrogate la vostra memoria e ricorderete che quando veniste a Durrisdeer per la prima volta, lo giudicaste un giovanotto comune e anche ottuso. Bene, è ancora altrettanto ottuso e comune, sebbene non sia più giovane. Se invece foste capitato con me, oggi sareste schierato al mio fianco con altrettanta convinzione.
- Non direi mai che siete un uomo comune, signor Bally, - replicai, - ma in questo vi dimostrate ottuso. Avete dato or ora una prova di fiducia nella mia parola. In altre parole, nella mia coscienza, quella stessa coscienza che istintivamente si ritrae di fronte a voi, come l'occhio si distoglie da una luce troppo viva.
- Ah! - diss'egli. - Ma io volevo dire un'altra cosa. Io intendevo dire, se mi aveste incontrato quand'ero giovane. Dovete pensare che io non sono stato sempre come sono oggi; e forse, se avessi incontrato un amico del vostro tipo, non lo sarei mai stato.
- Ma signor Bally, - dissi, - vi sareste fatto gioco di me; non avreste sprecato nemmeno dieci parole cortesi con un simile Piedi Dolci.
Ma ormai egli si era avviato su quella nuova strada di auto-giustificazione e con essa mi infastidì per tutto il resto del viaggio. Senza dubbio, per il passato aveva preso gusto a dipingersi a tinte inutilmente fosche e si era fatto un vanto della propria perfidia, fregiandosene come di un blasone. E non era tanto illogico da rinnegare anche un solo articolo delle sue antiche professioni di fede. - Ma ora che so che siete un essere umano, - mi diceva, - posso prendermi la pena di spiegarmi. Poiché vi assicuro che sono un essere umano anch'io e che ho anch'io le mie virtù, come il mio prossimo.
Ho detto che mi infastidiva, e io non avevo che un'unica parola in risposta e l'avrò ripetuta una ventina di volte: - Rinunziate al vostro proposito e tornate con me a Durrisdeer; allora vi crederò.
Allora egli scuoteva il capo:
- Ah, Mackellar, potreste vivere mille anni e non capireste mai il mio carattere, - diceva. - Ormai la battaglia è impegnata, l'ora della riflessione è passata e l'ora della misericordia deve ancora venire. La battaglia è cominciata fra noi quando prillammo una moneta nel salone di Durrisdeer, vent'anni fa. Ognuno di noi ha avuto i suoi alti e bassi, ma nessuno di noi si è mai sognato di cedere; quanto a me, una volta gettato il guanto, vita e onore lo seguono.
- Onore un fico! - rispondevo io. - E, con vostra licenza, queste similitudini guerriere sono un po' troppo altisonanti per la faccenda in questione. Voi volete un po' di sporco denaro; questa è la base della vostra contesa; e quanto ai vostri mezzi, quali sono? seminare l'afflizione in una famiglia che non vi ha mai fatto del male, corrompere, se potete, il vostro stesso nipote e spezzare il cuore al vostro legittimo fratello! Un ladrone da strada che ammazza con un lercio randello una vecchietta in cuffia per una moneta da uno scellino e un cartoccio di tabacco da naso... ecco il guerriero che siete.
Quando lo attaccavo così, o in modo simile, egli sorrideva e sospirava come un uomo incompreso. Una volta, ricordo, si difese più diffusamente ed enunciò alcuni sofismi che vale la pena ripetere perché gettano una certa luce sul suo carattere.
- Siete proprio un borghese se credete che la guerra consista in tamburi e bandiere, - disse. - La guerra, come molto saggiamente dicevano gli antichi, è l'ultima ratio. Quando si approfitta del proprio vantaggio senza pietà, allora si fa la guerra. Ah, Mackellar, voi siete un diavolo di soldato nel vostro ufficio a Durrisdeer, oppure i fittavoli vi fanno deplorevolmente torto.
- Poco m'importa di quello che è o non è la guerra, - risposi. - Ma voi mi seccate reclamando il mio rispetto. Vostro fratello è un uomo buono e voi siete un uomo cattivo; né più né meno.
- Se fossi stato Alessandro... - cominciò egli.
E' così che tutti noi la diamo a bere a noi stessi,,-esclamai. - Se io fossi stato san Paolo, sarebbe stato lo stesso; e avrei fatto una frittata di quella carriera come vedete che sto facendo della mia.
- Vi dico, - egli esclamò, sviando la mia interruzione, - se fossi stato anche il più piccolo e più Insignificante condottiero scozzese, se fossi stato il più piccolo re di negri ignudi nei deserti africani, il mio popolo mi avrebbe adorato. Sono un uomo cattivo, eh? Ah! ma io ero nato per essere un buon tiranno! Domandatelo a Secundra Dass; vi dirà che lo tratto come un figlio. Legate la vostra sorte alla mia domani, diventate mio schiavo, cosa mia, qualcosa a cui io possa comandare come comando le facoltà delle mie membra e della mia mente, e non vedrete più quei lato oscuro che rivolgo al mondo nella mia collera. Io debbo aver tutto o nulla. Ma quanto mi vien dato tutto, lo restituisco ad usura. Io ho una natura regale. Questa è la mia disgrazia!
- Finora è stata la disgrazia degli altri, - osservai.
- Il che mi sembra un po' al disotto della regalità.
- Baie! - esclamò. - Ancora adesso, vi dico, sarei capace di risparmiare quella famiglia a cui vi interessate tanto; sì, domani stesso, sarei capace di lasciarli alle loro meschine occupazioni e di sparire in quella foresta di briganti e di ciurmadori che si chiama il mondo. Lo potrei fare domani stesso! - ripeté. - Solo... solo...
- Solo che cosa? - domandai.
- Solo, mi dovrebbero supplicare in ginocchio. E in pubblico, anche, credo, - aggiunse con un sorriso. - A dire la verità, Mackellar, dubito che esista un salone abbastanza grande da servire al mio scopo, per un simile atto di riparazione.
- Vanità, vanità! - moraleggiai. - Pensare che tutta questa gran forza del male è mossa dallo stesso sentimento che fa fare smorfie a una ragazza davanti allo specchio!
- Oh, per ogni cosa ci sono due parole: una parola che ingrandisce e una che rimpiccolisce; non mi potete dare scacco con una parola! - rispose. - L'altro giorno dicevate che io mi fidavo della vostra coscienza; se fossi anch'io in vena di denigrarvi, potrei dire che contavo sulla vostra vanità. Voi avete la pretesa di essere un uomo di parola; io quella di non accettare la sconfitta. Chiamatela virtù, chiamatela vanità; chiamatela grandezza d'animo... che significa un'espressione? Però, riconoscerete che voi ed io abbiamo un lato in comune: viviamo entrambi per un'idea.
Da tutti questi discorsi confidenziali e da tanta pazienza da ambo le parti, si concluderà che eravamo ormai in ottimi rapporti. E così era, difatti; e questa volta anche più sul serio di prima. A parte qualche discussione come quella che ho cercato di riferire, regnava tra noi non solo una reciproca stima,, ma (sarei tentato di dire) perfino una certa benevolenza. Quando mi ammalai, poco dopo la grande tempesta, egli venne a sedersi accanto alla mia cuccetta per intrattenermi conversando e mi curò con rimedi eccellenti che io accettai con fiducia. Egli stesso fece del commenti su quella situazione:
- Vedete, - disse, - cominciate a conoscermi meglio. Pochissimo tempo fa, su questa nave solitaria, dove nessuno all'infuori di me ha un'infarinatura di scienza, sareste stato certo che lo volessi attentare alla vostra vita. E, notate, è da quando mi sono accorto che voi volevate attentare alla mia che vi ho dato prova di maggior rispetto. Mi direte poi se questo è indizio di animo meschino.
Trovai ben poco da rispondere. Per quanto si riferiva a me, credo che le sue intenzioni fossero buone; sarò magari stato vittima della sua simulazione, ma credevo (e credo ancora) che egli nutrisse per me una sincere benevolenza. Caso singolare e triste, appena cominciato il mutamento, la mia animosità si placò e le visioni del mio padrone cessarono completamente di perseguitarmi. Per cui, può darsi che ci fosse qualcosa di vero nelle ultime parole vanagloriose che quell'uomo mi rivolse, il secondo giorno di luglio; il nostro viaggio era quasi giunto al termine e noi eravamo in bonaccia fuori del vasto porto di New York con un caldo soffocante che poco dopo si mutò in un sorprendente scroscio di pioggia. Io ero in piedi a poppa e guardavo le vicine sponde verdeggianti, lanciando un'occhiata ogni tanto al fumo leggero che si levava dalla cittadina, nostro punto d'arrivo. E poiché, proprio in quel momento riflettevo sul come bruciare le tappe per sopravanzare il mio intimo nemico, provai un'ombra d'imbarazzo, allorché questi mi si avvicinò con la mano tesa.
- Ora bisogna che vi dica addio, - disse, - e per sempre. Poiché voi ora andate fra i miei nemici dove tutti i vostri antichi pregiudizi si ridesteranno. Io non ho mai mancato di affascinare una persona, ogni volta che ho voluto; perfino voi, caro amico, avete ora in mente un mio ritratto molto diverso da quello di prima e che non dimenticherete mai del tutto. La traversata non è durata abbastanza, o l'impressione sarebbe rimasta incisa più profondamente? Ma ormai tutto è finito e siamo di nuovo in guerra. Giudicate da questo piccolo interludio quanto io sia pericoloso; e dite a quegli stolti, - e indicò la città, - di pensarci due e tre volte prima di lanciarmi una sfida.



CAPITOLO DECIMO


SCHERMAGLIE A NEW YORK

Ho detto che ero deciso a bruciare le tappe per arrivare prima del Signore di Ballantrae; e questo, con la complicità del capitano McMurtrie fu facilissimamente effettuato. Da un lato della nave il Signore di Ballantrae fu fatto scendere in una scialuppa carica in parte, mentre dall'altro lato veniva messo in mare un battellino che portò a terra soltanto me. Non ebbi maggiore difficoltà a trovare la casa di Milord che era negli- immediati dintorni, e alla quale mi recai a tutta velocità; era una dimora molto decorosa, in mezzo a un bel giardino, con una grandissima costruzione che comprendeva granaio, stalla e scuderia. Lì Milord passeggiava quando arrivai; difatti era quello il luogo che egli frequentava di più e i suoi pensieri erano allora tutti rivolti alla fattoria. Irruppi senza respiro là dove egli si trovava e gli comunicai la nuova che, veramente, non era nuova affatto, perché in quell'intervallo di tempo, parecchie navi si erano lasciate indietro la Senzapari
- E' un pezzo che vi aspettiamo, - disse Milord. - A dire il vero, in questi ultimi giorni, non vi aspettavamo neanche più. Sono lieto di stringervi ancora una volta la mano, Mackellar. Vi credevo in fondo al mare.
- Ah, Milord! Così fosse piaciuto a Dio! - esclamai. - Le cose sarebbero andate meglio per voi.
- Nemmeno per sogno, - rispose egli, torvo. - Non potevo desiderare di meglio. C'è un lungo conto da saldare e ora, finalmente, posso cominciare a pagare.
Protestai per il suo tono di sicurezza.
- Oh, - diss'egli, - qui non siamo a Durrisdeer e io ho preso tutte le precauzioni. La sua fama lo attende; ho preparato una degna accoglienza a mio fratello. Davvero, la fortuna mi ha arriso, perché ho trovato qui un mercante d'Albany che l'ha conosciuto dopo il '45 e che ha, sul suo conto, fondatissimi sospetti di assassinio; si trattava di un tale chiamato Chew, un altro albanese. Qui nessuno si meraviglierà se lo metto alla porta; non gli sarà permesso rivolgere la parola ai miei figli, né salutare mia moglie; quanto a me, farò un'eccezione per un fratello e gli permetterò di parlarmi. Altrimenti non ci avrei gusto, - aggiunse, stropicciandosi le mani.
Un momento dopo si ricordò di qualcosa e mandò di corsa degli uomini con messaggi, a riunire i magnati della città. Non riesco a ricordare quale pretesto adoperò, ma, se non altro, ebbe successo; e, quando il nostro antico avversario apparve sulla scena, trovò Milord che passeggiava su e giù sotto alcuni alberi ombrosi, con il governatore da una parte e alcune personalità dall'altra. Milady, che sedeva sulla veranda, si alzò con espressione piccatissima e condusse in casa i figlioli.
Il Signore di Ballantrae, ben vestito e con un elegante spadino al fianco, si inchinò alla compagnia con bel garbo e a Milord fece un cenno col capo con familiarità. Milord non rispose al saluto e guardò il fratello aggrottando la fronte.
- Ebbene, signore, - disse infine, - qual cattivo vento vi mena proprio in questo luogo, dove, a disonore vostro e mio, la vostra fama vi ha preceduto?
- Vossignoria si compiace di essere cortese, - esclamò il Signore di Ballantrae, con bel moto di sorpresa.
- Mi compiaccio di parlare molto chiaro, - replicò Milord, - perché è necessario che vi rendiate chiaramente conto della vostra situazione. In patria, dove eravate poco noto, era ancora possibile salvare le apparenze; ciò sarebbe assolutamente vano in questa provincia; ed io vi debbo dire che sono fermamente deciso a lavarmene le mani. Mi avete già rovinato e quasi ridotto sul lastrico, come, prima di me, avevate rovinato mio padre che avete anche fatto morire di crepacuore. I vostri delitti sfuggono alla legge; ma il Governatore mio amico ha promesso di proteggere la mia famiglia. Badate, signore! - gridò, minacciandolo con la canna da passeggio, - se sarete colto a rivolgere anche una sola parola a uno degli innocenti membri della mia famiglia, si farà uso della legge per farvelo scontare.
- Ah, - disse il Signore di Ballantrae con molta lentezza. - E così, questi sono i vantaggi di un paese straniero! Questi signori non conoscono la nostra storia, a quel che vedo. Non sanno che Lord Durrisdeer sono io; che voi siete il fratello minore e che sedete al mio posto, grazie a un complotto di famiglia. Non sanno (altrimenti non si farebbero vedere in amichevoli rapporti con voi) che ogni acro di terra è mio di fronte a Dio Onnipotente e che ogni centesimo del denaro che mi rifiutate, mi è rifiutato da un ladro, uno spergiuro, un fratello sleale!
- Generale Clinton, - esclamai, - non date ascolto a queste menzogne. Io sono l'amministratore della proprietà e vi assicuro che non c'è una parola di vero in ciò che dice quest'uomo. Quest'uomo è un ribelle amnistiato che è divenuto una spia prezzolata; ecco la sua storia in due parole.
Fu così che, nel calore del momento, mi lasciai sfuggire la sua infamia.
- Giovanotto, - disse il governatore, volgendosi a lui con viso severo, - vi conosco meglio di quel che credete. C'è qualche strascico delle vostre avventure nella provincia che farete molto bene a non indurmi a investigare.
C'è la sparizione di Giacobbe Chew con tutta la sua mercanzia; c'è la questione della nave dalla quale sbarcaste con tanto denaro e tanti gioielli; quando foste raccolto da quella nave delle Bermude proveniente da Albany. Credetemi, se lascio dormire questa faccenda è per compassione per la vostra famiglia e per rispetto del mio stimato amico, Lord Durrisdeer.
Ci fu un mormorio di plauso da parte dei provinciali.
- Mi sarei dovuto ricordare che un titolo avrebbe fatto un grande effetto in un buco come questo, - disse il Signore di Ballantrae, bianco come un lenzuolo, - anche se ingiustamente acquistato. Non mi rimane dunque che morire davanti alla porta di Milord, dove il mio cadavere sarà di gaio ornamento.
- Basta con queste affettazioni! - esclamò Milord. - Sapete benissimo che non ho intenzioni simili; desidero soltanto proteggere me stesso dalla calunnia e la mia casa dalla vostra intrusione. Vi offro una scelta. O vi pagherò il viaggio di ritorno con la prima nave, e forse, una volta in patria, potrete riprendere la vostra attività agli ordini del governo, sebbene, lo sa Iddio, preferirei sapervi brigante da strada. O, se questo non vi aggrada, restate qui e buon pro vi faccia. Mi sono informato qual è la somma minima con la quale si può decentemente tenere insieme anima e corpo a New York e tanto avrete, pagato settimanalmente; e se non sapete lavorare con le vostre mani per aumentarlo, sarebbe ora che vi decideste a imparare. La condizione è che voi non parliate a nessun membro della mia famiglia all'infuori di me, - aggiunse.
Non credo di aver mai veduto nessuno pallido come il Signore di Ballantrae; ma il suo portamento era eretto e la sua bocca era ferma.
- Sono stato accolto da insulti veramente immeritati, - disse, - da cui certamente non penso di proteggermi con la fuga. Datemi la vostra miseria; la prendo senza vergogna perché è già mia, come è mia fin la camicia che avete addosso; e preferisco restare fino al giorno in cui questi signori mi capiranno meglio. Credo che già intravedano il piede forcuto, perché, nonostante la vostra pretesa sollecitudine per l'onore della famiglia, prendete gusto a degradarlo nella mia persona.
- Queste sono bellissime parole, - disse Milord, - ma siate certo che, per noi che vi conosciamo da un pezzo, non significano proprio nulla. Voi preferite l'alternativa dalla quale credete di poter ricavare di più Prendetela, se potete, in silenzio; vi sarà più utile, alla lunga, di questa ostentazione di ingratitudine, credetemi.
- Oh, gratitudine, Milord, - esclamò il Signore di Ballantrae, elevando il tono della voce e alzando l'indice vistosamente. - State tranquillo, non vi mancherà. Ora non mi resta che salutare questi signori che abbiamo infastidito con le nostre questioni di famiglia.
E s'inchinò a tutti, uno dopo l'altro, accomodò lo spadino e se ne andò, lasciando tutti sbalorditi del suo contegno e me non meno di Milord.
Ormai stavamo per entrare in un'altra fase delle discordie di famiglia. Il Signore di Ballantrae non era affatto privo di risorse, come Milord credeva, perché aveva a portata di mano e interamente devoto al suo servizio, un ottimo artefice in ogni genere di lavoro di oreficeria. Con l'assegno di Milord che non era tanto misero quanto egli l'aveva descritto, i due potevano vivere; e tutti i guadagni di Secundra Dass potevano venir messi da parte per qualsiasi scopo futuro. E senza dubbio così fu fatto. -Molto probabilmente, il piano del Signore di Ballantrae era di mettere insieme una somma sufficiente, e quindi partire alla ricerca del tesoro che. molto tempo addietro, aveva sotterrato fra le montagne; e, se si fosse limitato a questo, la sua sarebbe stata un'ispirazione felice. Ma, disgraziatamente per sé e per tutti noi, si lasciò consigliare dall'ira. Il pubblico scorno del suo arrivo (mi domando a volte come avesse potuto sopravvivere) gli bruciava dentro; era di quell'umore in cui un uomo (per dirla con le parole di un vecchio adagio) sarebbe capace di tagliarsi il naso per far dispetto alla propria faccia; e volle dare pubblico spettacolo di sé, con la speranza che un po' del suo obbrobrio si sarebbe riversato su Milord.
Scelse, in un quartiere povero della città, una solitaria casupola di assi, all'ombra di alcune acacie. Sulla facciata c'era una specie di apertura, come la porticina di un canile, ma quasi all'altezza di un tavolo da terra; lì dentro, il poveretto che aveva costruito la casupola aveva esposto le sue merci; fu quell'apertura che colpì la fantasia del Signore di Ballantrae e che, probabilmente, gli suggerì la sua linea di condotta. Pare che a bordo della nave corsara avesse preso una certa dimestichezza con l'ago, almeno quel tanto che bastava per recitare la parte del sarto agli occhi del pubblico; il che era proprio quel tanto che il suo genere di vendetta richiedeva.
Un cartello venne appeso al disopra della porticina con queste parole, più o meno nella disposizione seguente:

GIACOMO DURIE
Già SIGNORE DI BALLANTRAE
Rappezzi accurati

SECUNDRA DASS
Gentiluomo indiano decaduto
Orafo rifinito

All'interno, sotto questo cartello, il nostro gentiluomo, quando aveva lavoro, si sedeva alla maniera dei sarti, indaffarato a cucire. Ho detto, quando aveva lavoro; ma i clienti, quando venivano, erano per lo più per Secundra Dass e il lavoro di cucito del Signore di Ballantrae era piuttosto sul genere di quello di Penelope. Non è possibile che egli abbia mai pensato di guadagnarsi, con quel mezzo di sussistenza, nemmeno tanto da imburrare il pane; ma a lui bastava che il nome dei Durie fosse trascinato nel fango con quel cartello e che l'ex-erede di quell'orgogliosa famiglia si. mostrasse in pubblico a gambe incrociate, rimprovero vivente della taccagneria . del fratello. La sua astuzia riuscì in quanto in città si cominciò a mormorare e si formò un partito molto ostile a Milord. Il favore di cui Milord godeva da parte del governatore, lo esponeva alle critiche del partito avverso; Milady, che non era mai stata ricevuta volentieri in colonia, ebbe a subire insinuazioni penose; in comitive di donne, quando sarebbe stato naturalissimo trattare l'argomento, le era quasi vietato nominare il lavoro d'ago; e io l'ho veduta tornare a casa col viso acceso e l'ho udita giurare che non sarebbe andata più in nessun posto.
Nel frattempo, Milord abitava nella sua decorosa dimora, tutto dedito alle occupazioni della fattoria; era benvoluto dagli intimi e non si curava o non si accorgeva degli altri. Era ingrassato; il suo viso aveva un'espressione sveglia e attiva; persino il caldo pareva fargli bene, e Milady, nonostante i propri dispiaceri, benediceva Dio ogni giorno, perché il padre le aveva lasciato quel paradiso. Aveva assistito dalla finestra all'umiliazione del Signore di Ballantrae e, da quel momento, pareva tranquilla. Personalmente, non mi sentivo altrettanto sicuro; via via che il tempo passava, mi pareva che in Milord ci fosse un non so che di non perfettamente sano. Senza alcun dubbio, era felice; ma le cause della sua felicità erano occulte; perfino in seno alla famiglia, pareva ruminare con evidente piacere qualche pensiero segreto; e alla fine nacque in me il sospetto (assolutamente indegno di entrambi) che egli avesse un'amante in qualche parte della città. Eppure usciva poco e la sua giornata era occupatissima; veramente, c'era soltanto un'ora, al mattino piuttosto presto, mentre Alessandro studiava le sue lezioni, di cui non sapevo con certezza come disponesse. Bisogna tenere a mente, per scusare ciò che io feci allora, che io avevo sempre qualche timore che Milord non fosse sempre in pieno possesso delle sue facoltà; e col nostro nemico che se ne stava tanto zitto nella nostra stessa città, facevo bene a stare in guardia. Trovai dunque un pretesto per cambiare l'ora in cui insegnavo ad Alessandro i fondamenti del calcolo e della matematica e mi misi invece a pedinare il mio padrone.
Ogni mattina, col bello e col brutto tempo, egli prendeva la sua canna da passeggio dal pomo dorato, si metteva il cappello sulla nuca (abitudine recente che mi pareva indizio di una fronte bruciante) e se ne andava a fare un certo giro. La strada passava prima in mezzo. a piante ombrose e presso un cimitero; e il, se era una bella giornata, egli si fermava un po' in meditazione. Poco oltre, il sentiero faceva una svolta e scendeva verso il mare e poi tornava indietro lungo il porto e passava davanti alla baracca del Signore di Ballantrae. Nell'avvicinarsi a questa seconda parte del suo giro, Milord rallentava il passo, come per godersi l'aria e il paesaggio; e davanti alla capanna, a mezza strada fra questa e la proda, si fermava un pochino, appoggiandosi al bastone. Era l'ora in cui il Signore di Ballantrae sedeva nell'interno sul suo banco e tirava d'ago. Così i due fratelli si guardavano, con volti duri; poi Milord riprendeva il cammino, sorridendo a se stesso.
Due volte sole mi dovetti abbassare all'ingrata necessità di fare la spia. Ebbi così la certezza dello scopo delle passeggiate di Milord e scopersi la sorgente segreta del suo godimento. Ecco la sua amante; era l'odio, non l'amore, che dava al suo viso i colori della salute. Qualche moralista avrebbe provato sollievo nel fare quella scoperta; confesso che io ne provai sgomento. Trovavo che la situazione del due fratelli era, non solo odiosa di per se stessa, ma anche gravida dei germi di mali futuri; e presi l'abitudine, per quanto me lo consentivano le mie numerose occupazioni, di recarmi sul posto, per un viottolo più breve, per assistere, di nascosto, ai loro incontri. Un giorno che arrivai con un po' di ritardo, dopo che ne ero stato impedito per quasi una settimana, fui sorpreso di constatare un nuovo sviluppo. Debbo dire che contro il muro della capanna del Signore di Ballantrae c'era una panca sulla quale i clienti potevano sedere mentre contrattavano con il bottegaio; e lì trovai seduto Milord che accarezzava la canna da passeggio e guardava con compiacimento verso la baia. A meno di un metro da lui sedeva il fratello, col lavoro di cucito. Nessuno dei due parlava e, in quella nuova posizione. Milord non gettava neppure un'occhiata al suo nemico. Debbo credere che ne godesse la vicinanza più pienamente, nella pura e semplice sensazione della sua presenza; e non c'è dubbio che bevesse a larghi sorsi la sua voluttà di odio.
Non appena fu venuto via, lo raggiunsi apertamente.
- Milord, Milord, - dissi, - questo non è il modo di fare.
- Io ci ingrasso, - rispose; e io fui urtato, non soltanto dalle parole che erano abbastanza strane, ma da tutto l'insieme della sua espressione.
- State in guardia, Milord, contro questi cattivi sentimenti, - dissi. - Non so se siano più pericolosi per l'anima o per la ragione; ma di questo passo finirete con l'uccidere l'una e l'altra.
- Voi non potete capire, - disse Milord. - Non avete mai avuto in cuore simili montagne di amarezza.
- E, se non altro, finirete certamente con lo spingere quell'uomo a qualche risoluzione disperata, - aggiunsi.
- Al contrario, finirò col fiaccargli lo spirito, - disse Milord.
Tutte le mattine, per quasi una settimana, Milord andò a sedersi sulla panca al solito posto. Era un luogo ameno, sotto le acacie verdeggianti, con la vista della baia e delle navi; da una certa distanza giungeva il canto dei marinai al lavoro. I due sedevano insieme, senza parole e senza moto apparente, oltre quello dell'ago o del Signore di Ballantrae che tagliava il filo coi denti, ostinandosi nella sua pretesa attività; ed io mi facevo un dovere di raggiungerli meravigliandomi di me stesso e dei miei compagni. Se passava un amico di Milord, questi lo salutava allegramente, gridando che era lì per dare qualche buon consiglio al fratello, il quale, con sua gran consolazione, era diventato proprio industrioso. Il Signore di Ballantrae accoglieva perfino queste parole con volto impassibile; che cosa avesse in mente, Dio solo, o forse soltanto Satana, lo sa.
Improvvisamente, in una giornata serena di quella che è chiamata l'estate di san Martino, quando i boschi diventano d'oro e rosa e scarlatti, il Signore di Ballantrae posò l'ago e dette in uno scoppio di risa. Credo che lo stesse preparando da un pezzo in silenzio, perché il tono era abbastanza naturale; ma scaturiva all'improvviso da un silenzio tanto profondo e in circostanze talmente contrarie all'allegria, che mi risuonò all'orecchio sinistramente.
- Enrico, - disse, - una volta tanto ho fatto un passo falso e una volta tanto hai avuto lo spirito di approfittarne. La farsa del ciabattino finisce oggi; e ti confesso (coi miei complimenti) che l'hai avuta vinta tu. Il sangue non mente; e tu certo hai un'idea scelta del come renderti sgradito.
Milord non rispose una sola parola, tale e quale come se il fratello non avesse rotto il silenzio.
- Via, - riprese l'altro, -non fare il broncio; ti guasta la posa. Ormai, credimi, ti puoi permettere il lusso di essere un po' gentile; giacché io non debbo soltanto rassegnarmi alla sconfitta. Avevo avuto l'intenzione di continuare questo mestiere finché avessi raggranellato abbastanza denaro per un certo fine; ma confesso schiettamente che me ne manca il coraggio. Com'é naturale, tu desideri la mia assenza da questa città; per vie diverse, sono giunto alla stessa idea. E ti devo fare
una proposta; o, se la tua signoria preferisce, ti .devo chiedere un favore.
- Chiedilo, - rispose Milord.
- Avrai sentito dire che una volta io avevo in questo paese un tesoro ragguardevole, - riprese il Signore di Ballantrae. - Poco importa che tu l'abbia sentito dire o no, ma così stanno le cose, e fui costretto a sotterrarlo in un punto di cui ho indicazioni sufficienti. Tutta la mia ambizione si è ormai ridotta a desiderarne il ricupero e, siccome è roba mia, tu non me lo contesterai.
- Vattelo a prendere, - rispose Milord. - Io non mi oppongo.
- Sì, - rispose il fratello, - ma per far questo bisogna trovare uomini e mezzi di trasporto. La via è lunga e disagevole e il paese è infestato da indiani selvaggi. Anticipami solo quel tanto che sarà necessario; o una somma globale al posto dell'assegno; o, se preferisci, fammi un prestito che ti restituirò al mio ritorno. E allora, se tale sarà la tua decisione, mi vedrai per l'ultima volta.
Milord lo fissava negli occhi; sulle sue labbra c'era un sorriso duro; ma egli non pronunziò parola.
- Enrico, - disse il Signore di Ballantrae con calma minacciosa, - Enrico, ho avuto l'onore di rivolgerti la parola.
- Torniamocene a casa, - disse Milord a me che lo stavo tirando per la manica; e con ciò, si alzò in piedi, si stirò, si accomodò il cappello e, senza neppure una sillaba di risposta, si avviò con passo fermo lungo la spiaggia.
Esitai un momento fra i due fratelli, tanto mi pareva grave la crisi a cui eravamo giunti. Ma il Signore di Ballantrae aveva ripreso il suo lavoro con gli occhi bassi e la mano apparentemente agile come. sempre; e io decisi di seguire Milord.
- Siete pazzo? - gridai, non appena lo ebbi raggiunto. - Vorreste buttar via una così bella occasione?
- E possibile che ancora gli crediate? - domandò Milord, quasi con un ghigno.
- Io vorrei che se ne andasse da questa città! - esclamai. - Vorrei che fosse dovunque e comunque meno che dov'è ora.
- Ho detto la mia, - replicò Milord, - e voi avete detto la vostra. E ora, non ne parliamo più.
Ma io mi ero messo in mente di far sloggiare il Signore di Ballantrae. La vista di quell'uomo che tornava pazientemente al suo lavoro di cucito era più di quanto la mia immaginazione potesse digerire. Nessun uomo creato, e lui meno di chiunque altro, avrebbe potuto ingoiare una così lunga serie di insulti. Fiutavo odor di sangue nell'aria. E feci voto di non trascurare nulla, di approfittare di qualsiasi spiraglio di possibilità per stornare il delitto, se ancora ero in tempo. Perciò, quello stesso giorno, andai a trovare Milord nel suo studio, dove lo trovai intento a non so che insignificante occupazione.
- Milord, - dissi, - ho trovato un investimento conveniente per i miei piccoli risparmi. Ma questi disgraziatamente sono in Scozia. Cl vorrà del tempo per prelevarli e la cosa è urgente. Non avrebbe Vossignoria il modo di anticiparne l'importo dietro ricevuta?
Egli ml studiò per un poco, con occhi penetranti.
- Non mi sono mai informato circa lo stato delle vostre finanze, Mackellar, - disse. - Per quanto ne so io, oltre l'ammontare della vostra cauzione, potreste non avere da parte neppure un centesimo.
- Sono stato a lungo al vostro servizio e non ho mai detto una bugia e non vi ho mai chiesto un favore. - dissi, - fino ad oggi.
- Un favore per il Signore di Ballantrae, - egli replicò, pacatamente. - Mi prendete per uno scemo, Mackellar? Mettetevi in mente, una volta per sempre, che io tratto quell'animale a modo mio; né paura, né lusinghe mi smuoveranno; e per accalappiarmi ci vuole un prestigiatore meno trasparente di voi. Io vi chiedo di servirmi e di servirmi lealmente; non di fare e trafficare dietro le mie spalle e di rubare il mio denaro per usarlo a mio danno.
- Milord, - dissi, - queste sono espressioni veramente imperdonabili.
- Ripensateci, Mackellar, - rispose egli, - e vedrete che corrispondono al fatti. E' il vostro sotterfugio che è imperdonabile. Negate, se potete, che destinavate quel denaro ad eludere i miei ordini e io vi chiederò francamente perdono. Se non potete, dovete avere la fermezza di udir chiamare la vostra condotta col nome che merita.
- Se credete che io avessi altri piani, oltre a quello di salvarvi... - cominciai.
- Oh, vecchio amico mio, - egli rispose, - sapete benissimo quello che credo! Eccovi la mia mano con tutto il cuore; ma di denaro, neanche l'ombra.
Sconfitto su quel fianco, andai dritto dritto in camera mia e scrissi una lettera, poi corsi al porto, perché sapevo che c'era una nave in procinto di salpare; e giunsi davanti alla porta del Signore di Ballantrae un po' prima del crepuscolo. Entrando senza neppure la formalità di bussare, lo trovai seduto col suo indiano davanti a un semplice pasto di polenta e latte. La casa all'interno era povera e pulita; solo alcuni libri su di uno scaffale e, in un angolo, il deschetto di Secundra davano alla stanza un certo tono di distinzione.
- Signor Bally, - dissi, - ho da parte quasi cinquecento sterline in Iscozia. Sono i risparmi di una vita di privazioni. Con quella nave parte una lettera per prelevarli. Abbiate pazienza finché la nave sarà di ritorno, e quel danaro sarà tutto vostro alle stesse condizioni che avete offerto a Milord stamane.
Egli si alzò da tavola, venne avanti, mi prese per le spalle e mi guardò in faccia con un sorriso.
- Eppure, voi amate molto il denaro! - disse. - Eppure voi amate il denaro al disopra di ogni altra cosa, eccetto mio fratello!
- Temo la vecchiaia e la povertà, - dissi, - il che è una cosa diversa.
- Non starò a questionare per una parola; chiamiamola pure così, - rispose. - Ah, Mackellar, Mackellar. - se questa offerta fosse fatta per amor mio, come l'accetterei con gioia!
- Eppure, - risposi con calore - sia detto a mia vergogna, non vi posso vedere in questo misero luogo senza avvilimento. Non è questo il mio solo pensiero, né il primo; eppure è così. Sarei felice di vedervi libero. Non vi faccio quest'offerta per amore, tutt'altro, ma, com'è vero che Dio mi giudica (e me ne stupisco, anche!), proprio senza inimicizia.
Ah! - diss'egli, sempre tenendomi per le spalle e scuotendomi pian piano, - voi pensate a me più di quel che credete. E me ne stupisco, anche! - soggiunse, ripetendo le mie parole e, credo, imitando anche un po' la mia voce. - Voi siete una persona onesta e per questa ragione vi risparmio.
- Mi risparmiate? - esclamai.
- Vi risparmio, - ripeté, lasciandomi andare e voltandosi dall'altra parte. E poi, volgendosi a guardarmi in faccia un'altra. volta:
- Voi non sapete quel che farei col vostro denaro, Mackellar! Credevate davvero che avessi ingoiato la mia sconfitta? Ascoltate: la mia vita è stata tutta una serie di rovesci immeritati. Quello scemo del principe Carlo mandò a monte un affare che prometteva benissimo; e fu il primo crollo delle mie fortune. A Parigi avevo di nuovo posto il piede su di un alto gradino della scala; quella volta fu il caso: una lettera capitò all'indirizzo sbagliato e io mi ritrovai spoglio di tutto un'altra volta. Per la terza volta, mi si presentò un'occasione: con pazienza infinita mi edificai una posizione in India; e allora arrivò Clive, il mio rajah fu spazzato via e io sfuggii allo sconvolgimento come un altro Enea, con Secundra Dass sulle spalle. Per tre volte ho posto la mano sul più alto grado e non ho ancora quarantatré anni. Conosco il mondo come pochi uomini possono dire di conoscerlo alla fine della vita: la corte e il campo di battaglia, l'oriente e l'occidente; so dove andare, vedo mille vie aperte. Sono al colmo delle mie risorse, ho buona salute e ambizione sconfinata. Ebbene, rinunzio a tutto; non mi importa di morire e che il mondo non senta mai parlare di me. Mi importa di un'unica cosa e l'avrò. Badate a voi, perché, quando il tetto cadrà, potreste rimanere anche voi schiacciato sotto le rovine.
Nell'uscire da quella casa, dopo aver visto crollare tutte le mie speranze di mediazione, mi accorsi di un certo movimento nei paraggi del porto e, alzando gli occhi, vidi una grossa nave che aveva appena gettato l'ancora. Ora mi pare strano di averla guardata con tanta indifferenza, perché quella nave portava la morte ai fratelli di Durrisdeer. Dopo tutti i tremendi episodi di quella contesa, gli insulti, il conflitto di interessi, il duello tra fratelli nel boschetto, doveva toccare a qualche povero diavolo di Grub Street che scribacchiava per guadagnarsi da cena senza badare a quel che scribacchiava, gettare un sortilegio al di là di quattromila miglia di salso mare e mandare ambedue i fratelli a morire nei selvaggi e gelidi deserti. Ma un simile pensiero era lungi dalla mia mente, e mentre intorno a me tutti i provinciali andavano e venivano, eccitati dall'insolita animazione del loro porto, io passai in mezzo a loro per tornare a casa, tutto assorto nel ricordo della mia visita e del discorso del Signore di Ballantrae. La sera stessa ci fu portato dalla nave un pacchetto di opuscoli. Il giorno seguente, Milord aveva un impegno col governatore per andare insieme a una certa partita di piacere; era quasi l'ora fissata, quando lo lasciai solo un momento in camera sua a scorrere gli opuscoli. Quando ritornai, lo trovai col capo abbandonato sul tavolo e le braccia tese tra i fogli spiegazzati.
- Milord, Milord! - gridai, slanciandomi verso di lui; perché credevo che gli fosse venuto un attacco.
Egli balzò su come un fantoccio con la molla, col volto deformato dalla furia, tanto che se fossimo stati in un luogo diverso, non lo avrei neppure riconosciuto. Nello stesso tempo, alzò la mano al disopra del capo, facendo l'atto di colpirmi.
- Lasciatemi solo . - urlò; e io fuggii con tutta la rapidità consentitami dalle mie gambe tremanti, in cerca di Milady. Anch'ella non perdette tempo; ma quando tornammo, egli aveva serrato la porta dall'interno e ci gridò dall'altra parte di lasciarlo stare. Ci guardammo in faccia, bianchi come panni lavati; ciascuno di noi pensava che fosse giunto il colpo finale.
- Vado a scrivere al governatore di scusarlo, - disse Milady. - Bisogna che conserviamo i nostri amici influenti. - Ma quando prese in mano la penna, questa le sfuggi dalle dita.
- Non posso scrivere, - disse. - E voi potete?
- Mi ingegnerò, Milady, - risposi.
Ella guardava al disopra della mia spalla mentre scrivevo.
- Così va bene, - disse, quando ebbi finito. - Grazie a Dio, Mackellar, ho voi su. cui appoggiarmi! Ma cosa può essere? Cosa, cosa può essere?
Dentro di me non credevo che ci fosse spiegazione possibile, né che ce ne fosse bisogno; la mia paura era che la pazzia di quell'uomo si fosse semplicemente fatta strada a forza, come le fiamme a lungo soffocate di un vulcano; ma non osai formulare in parole il mio timore, per pietà verso Milady.
- Sarà più opportuno pensare al da farsi, - dissi. - Dobbiamo lasciarlo lì solo?
- Non oso disturbarlo, - disse Milady. - Forse è meglio lasciar fare alla natura; forse è la natura che reclama la solitudine e noi ci muoviamo a tentoni nell'oscurità. Oh, sì, io lo lascerei stare così.
- Allora, Milady, spedisco questa lettera e poi torno qui a farvi compagnia, se volete, - dissi.
- Sì, ve ne prego, - esclamò Milady.
Passammo insieme tutto il pomeriggio, per lo più in silenzio, tenendo d'occhio la porta della stanza di Milord. La mia mente si rappresentava la scena che si era svolta poco prima e alla sua singolare rassomiglianza con la mia visione. Bisogna che dica due parole a questo proposito, perché la storia è stata ripetuta in giro con molta esagerazione e l'ho perfino veduta stampata e si faceva il mio nome per ulteriori particolari. La scena era la stessa solo fino a un certo punto. In una stanza c'era Milord con il capo abbandonato sul tavolo e, quando scopriva il viso, questo aveva un'espressione che mi riempiva l'animo di angoscia. Ma la stanza era diversa; l'atteggiamento di Milord non era affatto lo stesso, e il suo volto, quando me lo mostrò, esprimeva un penoso grado d'ira, invece di quella disperazione ossessionante, che l'aveva sempre caratterizzato nella mia visione, tranne una volta, come ho già accennato. Ecco finalmente tutta la verità davanti al pubblico; ma anche se la differenza era grande, la coincidenza bastava a riempirmi l'animo di inquietudine. Tutto il pomeriggio, come ho detto, rimasi lì seduto a meditare sulla cosa, per conto mio, perché Milady aveva già i suoi guai e sarebbe stato l'ultimo mio pensiero turbarla con fantasie. Verso la metà della nostra attesa, ella concepì un ingegnoso stratagemma: fece venire Alessandro e gli fece bussare alla porta del padre; Milord manda il ragazzo a farsi benedire, ma senza la minima violenza, sia di modi che di espressione; cosicché cominciai a sperare che l'accesso fosse passato. Finalmente, sul far della sera, mentre accendevo una lampada che era lì bell'e preparata, la porta si aprì e Milord apparve sulla soglia. La luce non era abbastanza forte da permetterci di discernere l'espressione del suo viso; quando parlò, mi parve che la sua voce fosse un po' alterata, ma perfettamente ferma.
- Mackellar, - disse, - portate voi stesso questo biglietto a destinazione. E' strettamente personale. Fate in modo di trovare questa persona da sola, quando lo consegnerete.
- Enrico, - disse Milady, - non stai poco bene?
- No, no, - rispose con irritazione, - sono occupato. Niente affatto; sono soltanto occupato. E' curioso che un uomo non possa aver da fare senza essere creduto malato! Mandami la cena in questa stanza e anche un fiasco di vino. Aspetto un amico. A parte questo, non voglio essere disturbato.
E con queste parole, si chiuse dentro di nuovo.
Il biglietto era indirizzato a un certo capitano Harris in una taverna del porto. Conoscevo di fama Harris come un pericoloso avventuriero fortemente sospetto di pirateria per il passato, e che ora esercitava il rude mestiere di trafficante con gli indiani: La mia immaginazione era incapace di figurarsi che cosa Milord e quell'uomo potessero avere da dirsi; e neppure come mai Milord lo avesse udito nominare, se non per un obbrobrioso processo da cui quell'uomo era uscito di recente. Nell'insieme, andai a fare la mia commissione a malincuore e, dopo quel poco che vidi del capitano, ne venni via addolorato. Lo trovai in una stanza maleodorante, seduto di fronte a una candela gocciolante e a una bottiglia vuota; aveva nell'aspetto qualche traccia di portamento militare, ma forse era solo un atteggiamento, perché i suoi modi erano volgari.
- Dite a Milord, con i miei ossequi, che sarò agli ordini di Sua Signoria entro una mezz'ora, - disse, quando ebbe letto il biglietto; e quindi ebbe la sfacciataggine di indicarmi la bottiglia vuota e di propormi di comprargli del liquore.
Sebbene tornassi a casa con la massima velocità, il capitano arrivò subito dopo, di me e si fermò fino a notte inoltrata. Il gallo cantava per la seconda volta, quando, dalla finestra della mia camera, vidi Milord che gli faceva lume presso il cancello; i due uomini erano entrambi alterati dalle libagioni e ogni tanto si appoggiavano l'uno all'altro per confabulare. Ma il mattino seguente per tempo, Milord uscì di nuovo con un centinaio di sterline in tasca. Non ho mai pensato neppure per un momento che le riportasse a casa; eppure sono assolutamente certo che il denaro non giunse fino al Signore di Ballantrae, perché mi aggirai per tutta la mattinata in vista della sua capanna. Fu quella l'ultima volta che Milord Durrisdeer oltrepassò i cancelli della proprietà, fino al giorno che lasciammo New York. Passeggiava per la fattoria o stava seduto a parlare con la sua famiglia, più o meno come al solito; ma in città non si faceva vedere e le sue visite quotidiane al Signore di Ballantrae parevano dimenticate. E Harris non comparve più; vale a dire, non prima della fine.
Io mi sentivo allora veramente oppresso dalla sensazione di muovermi tra i misteri. Era evidente, se non altro dal cambiamento di abitudini, che Milord aveva in mente qualcosa di grave; ma di che si trattasse, di dove avesse origine e perché egli restasse ora sempre fra casa e giardino, non riuscivo a indovinare. Era chiaro come il sole che gli opuscoli avevano una certa parte in quel rivolgimento; lessi tutti quelli che riuscii a trovare e mi parvero tutti estremamente insignificanti e del solito tipo di scurrilità di partito. Non riuscii a trovarvi nulla che potesse suonare offesa, nemmeno per un importante uomo politico, e Milord era piuttosto indifferente alle questioni di carattere pubblico. La verità è che il foglietto che era stato la causa prima di tutta quella storia, rimase per tutto quel tempo nascosto in seno a Milord. Ed era ancora lì, quando finalmente lo trovai, dopo la sua morte fra i deserti del nord; in quel luogo, in quelle macabre circostanze, dovevo leggere per la prima volta, queste vuote e menzognere parole di un libellista whig che inveiva contro le amnistie concesse ai giacobiti: ." Un altro ben noto ribelle, Il S. di B., sta per essere reintegrato nel suo titolo.", diceva il brano. . E' una faccenda che si va preparando da tempo, da quando egli rese al governo alcuni ignobili servigi in Scozia e in Francia. Suo fratello L. D. è noto per le sue inclinazioni non migliori, e il supposto erede che ora verrà messo da parte, è stato allevato nei più deplorevoli principi. Per usare un'antica espressione, è sei dell'uno e mezza dozzina dell'altro; ma il favoritismo di una simile restituzione è troppo spinto perché si possa lasciar passare sotto silenzio .. Un uomo nel pieno possesso delle sue facoltà, non avrebbe dato la minima importanza a una storia così manifestamente falsa. L'idea che il governo potesse pensare a una cosa simile era inconcepibile per qualsiasi persona ragionevole, eccetto forse per l'imbecille che l'aveva scritta; e Milord, sebbene di intelligenza non brillante, era sempre stato un uomo di notevole buon senso. Il fatto che egli avesse prestato fede a una simile panzana e che portasse il foglietto in seno e ne serbasse le parole impresse nel cuore, è la prova evidente della sua follia. Senza dubbio; la semplice menzione di Alessandro e la diretta minaccia alla successione del bambino fecero precipitare quel che da tanto tempo incombeva. Oppure, già da un pezzo il mio padrone era realmente insano e noi eravamo troppo ottusi o troppo avvezzi a lui per accorgerci della portata della sua infermità.
Circa una settimana dopo il giorno degli opuscoli, mi trovai ad aver fatto tardi nei paraggi del porto e feci un giro verso la casa del Signore di Ballantrae, cosa che facevo spesso. La porta si aprì. un fascio di luce venne proiettato sulla strada ed io vidi un uomo accomiatarsi con saluti amichevoli. Non posso dire quanto rimanessi stranamente turbato nel riconoscere l'avventuriero Harris. Non potei non trarne la conclusione che era stata la mano di Milord a mandarlo lì; e prolungai la mia passeggiata, immerso in pensieri gravi e angosciosi. Quando arrival a casa era tardi e Milord stava facendo la valigia per partire.
- Perché arrivate così tardi? - gridò. - Partiamo per Albany domani, noi due, e sarebbe ora che vi occupaste dei preparativi.
- Per Albany, Milord? - esclamai. - E a quale scopo?
- Cambiamento di scena, - rispose.
E Milady che aveva l'aria di aver pianto, mi fece cenno di obbedire senza discutere. Un po' più tardi quando ci si presentò l'occasione di scambiare qualche parola, mi disse che Milord aveva subitamente annunciato la sua decisione dopo una visita del capitano Harris e che tutti i suoi sforzi, sia per dissuaderlo dal viaggio, sia per cavargli qualche ispiegazione circa il suo scopo, erano stati vani.



CAPITOLO UNDICESIMO


IL VIAGGIO NELLE SOLITUDINI

Risalimmo felicemente il corso del bel fiume Hudson; il tempo era mite e i colli singolarmente abbelliti dal colori dell'autunno. Ad Albany prendemmo alloggio in una locanda, dove non fui tanto cieco (né Milord tanto scaltro) da non accorgermi che la sua intenzione era di tenermi prigioniero. Il lavoro che egli mi dava da fare non era tanto urgente da doverlo eseguire, senza le carte necessarie, in una camera d'albergo; e non era talmente importante da farmi fare quattro o cinque copie dello stesso documento. In apparenza mi sottomisi; ma presi segreti provvedimenti per conto mio, e le nuove della città mi venivano comunicate giorno per giorno dalla gentilezza dell'albergatore. A questa maniera, ricevetti finalmente l'informazione di cui, si può dire, ero in attesa. Il capitano Harris, mi fu detto, con il signor Mountain, il mercante, aveva risalito il fiume in barca. Avevo quasi paura dello sguardo del padron di casa, tanto mi gravava sull'animo il sospetto di una certa complicità da parte del mio padrone. Ma mi sforzai a dire che conoscevo un po' il capitano, ma non il signor Mountain e a domandare chi altri faceva parte della comitiva. Il mio informatore non lo sapeva; il signor Mountain era sceso a terra per fare alcuni acquisti necessari, era andato in giro per la città a comprare, bere e ciarlare, e pareva che la comitiva fosse in procinto di partire per un'impresa di probabile riuscita, perché Mountain aveva parlato molto delle grandi cose che avrebbe fatto al suo ritorno. Non si sapeva che questo, perché degli altri nessuno era sceso a terra e pareva che il tempo stringesse, perché dovevano raggiungere una certa località prima che cadesse la prima neve.
Neanche a farlo apposta; il giorno seguente si ebbe una prima spruzzata di neve anche ad Albany, ma se ne andò come era venuta e non fu che un'avvisaglia di quanto ci sarebbe toccato. Io non me ne detti pensiero allora, conoscendo così poco quella regione inclemente, ma ciò che provo ora nel ripensarci è diverso; e a volte mi domando se l'orrore degli avvenimenti che sto per raccontare non fosse dovuto in parte al cielo fosco e ai venti furiosi a cui eravamo esposti e al freddo mortale che eravamo costretti a soffrire. Sulle prime credetti che, una volta passata la barca, avremmo lasciato la città. Non avvenne nulla di simile. Milord seguitava a stare ad Albany, dove non aveva affari apparenti, e mi teneva con sé, lontano dalle mie normali occupazioni, a far le viste di lavorare. E a questo punto che ml aspetto (e forse merito) un biasimo. Non ero tanto ottuso da non avere le mie idee. Non potevo vedere il Signore di Ballantrae mettersi nelle mani di Harris e non sospettare qualche tranello. Harris aveva una pessima reputazione ed era stato segretamente assoldato da Milord; Mountain, il mercante, risultò, dietro inchiesta, un tipo della stessa risma; l'impresa per cui erano partiti era il ricupero di tesori male acquistati e offriva di per se stessa un fortissimo incentivo all'uso di mezzi sleali; e il carattere della regione da attraversare prometteva l'impunità ai fatti di sangue. Ebbene: è vero che avevo tutti questi pensieri e tutti questi timori e tutti questi presentimenti del fato del Signore di Ballantrae. Ma bisogna ricordare che io ero quello stesso che aveva cercato di scaraventarlo in mare dalla murata di una nave; lo stesso che, poco prima, con empietà enorme, ma con altrettanta sincerità, aveva offerto a Dio un mercato, cercando di fare di Dio il suo sicario. E' anche vero che mi ero non poco addolcito verso il mio nemico di un tempo. Ma avevo sempre giudicato questo sentimento una debolezza, perfino colpevole, della carne; la mia mente gli rimaneva fermamente ed immutabilmente avversa. Era anche vero che una cosa era assumersi la colpa e il rischio di un atto criminale, e un'altra lo star fermo a guardare Milord correre il rischio e macchiarsi la coscienza. Ma proprio questa era la ragione della mia inazione., Poiché, in qualunque direzione mi fossi mosso, avrei, sì, potuto fallire nell'intento di salvare il Signore di Ballantrae, ma non avrei mancato di fare di Milord la favola del paese.
E così fu che non feci nulla; e per le stesse ragioni ancora sostengo di poter giustificare la mia condotta. Intanto abitavamo ad Albany, ma, sebbene soli in un paese straniero, avevamo pochi rapporti fra noi, oltre i saluti formali. Milord si era portato alcuni biglietti di presentazione per i principali personaggi della città e del dintorni. Altri ne aveva conosciuti prima a New York e di conseguenza andava molto fuori; e mi rincresce dire che aveva contratto abitudini eccessivamente sregolate. Io ero spesso a letto quando tornava a casa, ma non ero mai addormentato; e quasi non c'era sera in cui non tradisse l'influsso del vino. Durante il giorno mi caricava di lavoro interminabile e dimostrava non poco talento nel ripescarlo e rinnovarlo alla maniera della tela di Penelope. Come ho detto, io non mi rifiutavo mai perché ero stipendiato per eseguire i suoi ordini; ma non mi prendevo la briga di nascondere la mia penetrazione e qualche volta gli ridevo in faccia.
- Mi pare d'essere il diavolo e che voi siate Michele Scott, - gli dissi un giorno. - Ho già gettato Il ponte sulla Tweed e spaccato 1'Elldons; e ora mi mettete a fare la corda di sabbia.
Egli mi guardò con occhi sfavillanti e poi volse altrove lo sguardo; la sua mascella si mosse, ma senza parole.
- Bene, bene, Milord, - dissi, - il vostro volere è mio piacere. Farò questo lavoro per la quarta volta; ma vi pregherei di inventare un altro compito per domani, perché, in fede mia, questo mi ha seccato.
- Voi non sapete quello che dite, - replicò Milord, mettendosi il cappello e voltandomi le spalle. - E' strano che prendiate gusto a irritarmi. Un amico... ma questa è un'altra faccenda. È strano. Sono un uomo che ha avuto sfortuna per tutta la vita. Sono ancora circondato da insidie. Inciampo continuamente in complotti, - scoppiò. Il mondo intero cospira contro di me.
- Non direi tante sciocchezze e tante cattiverie, se fossi in voi, - risposi. - Ma vi dirò quello che farei... metterei la testa nell'acqua fredda, perché la notte scorsa ne avete avuto più del dovuto.
- Credete? - domandò con un aria di vivo interesse. - Mi farebbe bene? è una cosa che non ho mai provato.
- Io mi ricordo di un tempo in cui non avevate bisogno di provare, e vorrei, Milord, che quel tempo tornasse, - risposi. - Ma la verità è che, se continuate in questi eccessi, vi farete del danno.
- Si direbbe che io non regga più il vino come una volta, - disse Milord. - Mi dà alla testa, Mackellar. Ma starò più attento.
- E' proprio quel che vi volevo chiedere, - risposi. - Dovete tenere a mente che siete il padre di Alessandro; fate che il ragazzo possa portare il vostro nome con una certa responsabilità.
- Già, già, - disse Milord. - Siete una persona molto ragionevole, Mackellar, ed è tanto tempo che siete al mio servizio. Ma credo che, se non avete altro da dirmi, me ne andrò. Se non avete altro da dirmi? - aggiunse con quel fervore puerile che ormai gli era abituale.
- No, Milord, non ho altro da dire, - risposi piuttosto seccamente.
- Allora credo che me ne andrò, - ripeté Milord, e intanto stava lì e mi guardava, giocherellando col cappello che si era tolto .un'altra volta. - Immagino che non abbiate nessuna commissione. No? debbo vedere Sir William Johnson, ma starò più attento.
Rimase un po' in silenzio, poi, sorridendo:
- Vi ricordate di un posto, Mackellar, un po' più giù di Engles, dove il torrente è tanto profondo e scorre sotto i frassini? Ricordo di esserci stato da ragazzo... Dio, mi ritorna alla memoria come una vecchia canzone! Era dopo essere stato a pescare e avevo fatto buona pesca. Eh, ma ero felice. Mi domando, Mackellar, perché non sono mai felice, ora?
- Milord, - dissi, - se beveste con più moderazione, avreste più probabilità di essere felice. E' saggezza antica che la bottiglia è falsa consolatrice.
- Senza dubbio, - diss'egli, - senza dubbio. Be', credo che me ne andrò.
- Buongiorno, Milord, - dissi.
- Buongiorno, buongiorno, - rispose, e finalmente uscì dalla stanza.
Questo è un discreto saggio di Milord al mattino; e, se il lettore non si è accorto di una notevole decadenza nel mio padrone, vuol dire che l'ho descritto molto male. Vederlo caduto tanto in basso, saperlo ricevuto dai suoi compagni come un povero beone istupidito, accetto (se accetto si poteva dire) solamente in considerazione del suo titolo, e ricordare le virtù di cui una volta aveva dato prova contro i capricci della sorte, non era cosa da far rabbia e avvilimento al tempo stesso?
Quando aveva alzato il gomito dava in ben altri eccessi. Descriverò un'unica scena che ai svolse proprio verso la fine e che mi è rimasta fortemente impressa nella memoria; allora mi fece quasi orrore. Ero a letto sveglio, quando lo udii incespicare sullo scalino e cantare. Milord non aveva doti musicali; suo fratello aveva tutte le grazie della famiglia; per cui, quando dico che cantava, vi dovete immaginare una specie di cantilena acuta che in realtà non era né parlata né cantata. Qualcosa di non dissimile all' ode sulle labbra dei bambini che ancora non sanno che cosa sia vergogna; sulle labbra di un uomo maturo faceva un effetto strano. Egli aprì la porta con rumorosa precauzione; fece capolino riparando la candela con la mano; immaginò che dormissi; entrò, posò il lume sul tavolo e si levò il cappello. Lo vedevo benissimo; un'esaltazione febbrile pareva ribollirgli nelle vene; stava in piedi e sorrideva e ridacchiava al disopra della candela. Subito dopo alzò un braccio, fece schioccare le dita e cominciò a spogliarsi. Nel far questo dimenticò un'altra volta la mia presenza e ricominciò a cantare; ora distinguevo anche le parole che erano quelle della vecchia canzone I due corvi ripetute all'infinito:
E sulle sue ossa spolpate o venti, in eterno soffiate.
Ho detto che il mio uomo non aveva qualità musicali; i suoi motivi non avevano successione logica se non in quanto avevano tutti una certa tendenza al tono minore, ma esercitavano una specie di rude fascino sull'animo dell'ascoltatore e aderivano alle parole ed esprimevano i sentimenti del cantore In modo barbaro ma appropriato. In principio aveva attaccato in tempo e modo declamatorio; ben presto quella allegria sgraziata svanì ed egli prese a soffermarsi su ogni nota con sempre maggior sentimento finché scivolò in una specie di pathos piagnucoloso che io duravo fatica a sopportare. Di pari passo declinò la primitiva vivacità dei suoi gesti; e quando si fu spogliato fino a restare coi soli pantaloni, si mise a sedere sul. letto e cominciò a frignare. Non conosco nulla di meno rispettabile delle lagrime dell'ubriachezza e volsi le spalle impazientito a quel miserando spettacolo. Ma avrei dovuto immaginare che ormai egli si era lasciato andare per la sdrucciolevole china della autocompassione, sulla quale un uomo snervato da antichi dolori e recenti libagioni non si può fermare se non per esaurimento. Le sue lagrime seguitavano a scorrere ed egli seguitava a star seduto lì, nudo per tre quarti, nell'aria fredda della camera. Io mi accusavo alternativamente di durezza e di debolezza sentimentale, ora alzandomi a metà sul letto per intervenire e ora predicando a me stesso l'indifferenza e cercando di riaddormentarmi, quando ad un tratto il "quantum mutatus ab illo" mi traversò la mente come un lampo, e, richiamando alla memoria la sua saggezza, la sua costanza e la sua pazienza di un tempo, fui sopraffatto da una pietà appassionata, non per il mio padrone soltanto, ma per tutti i figli dell'uomo.
Allora balzai dal mio posto, gli andai vicino e gli posai la mano sulla spalla nuda che era fredda come il marmo. Egli scoperse la faccia gonfia e lagrimosa come quella di un bambino, e quella vista ridestò in parte la mia impazienza.
- Vergognatevi, - dissi, - di questo contegno da ragazzino. Anch'io avrei potuto mettermi a frignare se mi fossi gonfiato la pancia di vino. Ma io sono andato a letto in senno, da uomo. Su, andate a letto anche voi e finitela con questa pietosa esibizione.
- Ah, Mackellar, - mi rispose, - ho il cuore in pena!
- In pena? - esclamai. - Per una buona ragione, credo. Che parole erano quelle che cantavate. quando siete entrato? Siate pietoso con gli altri e poi potremo parlare di pietà per voi stesso. Sentite: potete essere quello che vi pare, ma io non voglio avere che fare con mezze misure: se siete uomo da colpire; colpite, e se siete una pecora, belate!
- O piangete! - egli scoppiò. - Proprio così! Colpire! Questo sì che è parlare! Amico, ho sopportato tutto quanto per troppo tempo. Ma quando toccano il bambino; quando si minaccia il bambino, - (il suo momentaneo vigore svanì in un piagnucolio), - il mio bambino, il mio Alessandro! - E ricominciò a piangere.
Lo presi per le spalle e gli detti uno scrollone.
- Alessandro! - dissi. - Ci pensate mai? No! Guardatemi in faccia da uomo di coraggio e vi accorgerete che ingannate voi stesso. Moglie, amico, bambino, sono tutti egualmente dimenticati, e voi state semplicemente sprofondando in un pantano di egoismo.
- Mackellar, - rispose con un ammirevole ritorno ai modi e all'aspetto di una volta, - potete dire di me quello che volete, ma c'è una cosa che io non sono mai stato... Non sono mai stato egoista.
- Vi aprirò gli occhi a vostro dispetto, - dissi. - Quanto tempo è che siamo qui? e quante volte avete scritto alla vostra famiglia? mi pare che sia questa la prima volta che vi separate; avete mai scritto? sapete neppure se sono vivi o morti?
Qui lo avevo proprio colto in fallo e questo ridestò la parte migliore della sua natura; smise di piangere, mi ringraziò con fare molto contrito, andò a letto e in breve si addormentò profondamente; e la prima cosa che fece il mattino di poi, fu di sedersi al tavolino per scrivere una lettera a Milady; ed era una lettera affettuosissima, ma non fu mai finita. Infatti, tutta la corrispondenza con New York era tenuta da me; e lascio giudicare a voi se era un compito ingrato. Cosa dire a Milady e con quali parole, fino a che punto essere falso e fino a che punto crudele, erano pensieri che spesso mi toglievano il sonno.
Per tutto quel tempo, senza dubbio, Milord attese nuove dei suoi complici. Bisogna credere che Harris avesse promesso la massima sollecitudine; ma già da un pezzo i giorni in cui ci si doveva attendere notizie eran passati; e l'incertezza era pessima consigliera per un uomo la cui intelligenza era scossa. La mente di Milord, in quell'intervallo di tempo, dimorò quasi esclusivamente nel deserto, al seguito di quella comitiva per l'attività della quale egli aveva tanto interesse. Egli evocava di continuo l'immagine dei loro accampamenti e della loro avanzata, l'aspetto della regione e sempre lo stesso orrido atto perpetrato in mille modi diversi e il conseguente spettacolo delle ossa del Signore di Ballantrae sparpagliate al vento. Avevo osservato che questi pensieri colpevoli e segreti facevano capolino continuamente dai suoi discorsi, come tanti conigli da una collina. E non c'è quindi da stupire se la scena della sua meditazione cominciò ad esercitare su di lui un'attrazione fisica.
Il pretesto da lui scelto è ben noto. Sir William Johnson aveva una missione diplomatica da quelle parti; e io e Milord (per curiosità, si fece credere) andammo con lui. Sir William aveva una buona scorta ed era liberalmente approvvigionato. I cacciatori ci portavano la selvaggina, il pesce veniva pescato nei fiumi ogni giorno e l'acquavite scorreva come l'acqua. Di giorno avanzavamo e di notte ci accampavamo alla maniera militare; si mettevano e si cambiavano le sentinelle, ognuno aveva il suo compito ben definito, e Sir William era l'anima di tutto. In tutto questo c'erano molte cose che mi avrebbero potuto divertire, ma per disgrazia il tempo era inclemente, anzi addirittura spietato; le prime giornate erano state serene, ma le nottate furono gelide fin dal principio. Un vento rigido e penetrante soffiò per quasi tutto il tempo; noi eravamo seduti nella barca con le dita livide; e la notte, mentre ci abbrustolivamo la faccia al fuoco, ci sembrava di avere sulle spalle dei vestiti di carta. Una tremenda solitudine era tutto intorno ai nostri passi; Il paese era addirittura spopolato, non si vedeva fumo né traccia di fuochi, e non incontrammo viaggiatori, salvo un'unica barca di mercanti il secondo giorno.
Veramente la stagione era molto inoltrata, ma quell'abbandono completo delle vie fluviali impressionò lo stesso Sir William e più di una volta lo udii esprimere sentimenti di inquietudine.
- Temo di essere venuto troppo tardi, - diceva, - gli indiani debbono aver dissotterrato l'accetta.
E l'avvenire dimostrò quanto fosse giusto il suo ragionamento.
Non potrò mai descrivere la desolazione che s'impadronì del mio spirito, durante quel viaggio. Non ho uno di quei caratteri innamorati dell'insolito; vedere sopraggiungere l'inverno e dover dormire all'addiaccio, tanto lontano da ogni abitazione, era una cosa che mi opprimeva come un incubo; mi pareva addirittura una specie di sfida tremenda alla potenza divina; e questo timore (che, immagino, basterebbe da solo a definirmi un vile) era enormemente accresciuto dalla segreta conoscenza della ragione per cui eravamo venuti. Inoltre, ero imbarazzato dai miei doveri verso Sir William, poiché toccava a me intrattenerlo, dal momento che Milord era ridotto in uno stato che sfiorava il pervigilium e sorvegliava i boschi con sguardo estatico, non dormiva quasi affatto e, qualche volta, non pronunziava più di venti parole in tutta la giornata.
Quello che diceva era ancora coerente, ma si aggirava quasi invariabilmente sulla comitiva per cui egli manteneva desta la sua folle vigilanza. Diceva spesso a Sir William di avere un fratello in qualche parte delle foreste e lo pregava di dare ordini affinché " le sentinelle si informassero sul conto suo".
- Aspetto con ansia notizie di mio fratello, - diceva. E qualche volta, durante il cammino, gli pareva di avvistare una canoa in distanza, sull'acqua, o di scorgere un accampamento sulla riva, e dava segni di penosa agitazione. Era impossibile che Sir William non fosse colpito da quelle stranezze; e difatti, finì col prendermi da parte e col farmi cenno delle proprie inquietudini. Io mi toccai la fronte e scossi il capo, ben lieto di preparare così una testimonianza in vista di una possibile rivelazione.
- Ma in questo caso, - esclamò Sir William, - vi pare saggio lasciarlo andare in giro?
- Quelli che lo conoscono bene, - risposi, - sono persuasi che sia meglio assecondarlo.
- Bene, bene. - rispose Sir William, - sono cose che non mi riguardano. Ma se me ne fossi accorto, non sareste qui di sicuro.
La nostra avanzata in quel paese selvaggio procedeva così senza incidenti da quasi una settimana, quando, una sera, ci accampammo in un punto dove il fiume scorreva tra monti di considerevole altezza, rivestiti di foreste. I fuochi furono accesi su di un pianoro in riva al fiume; e noi cenammo e ci coricammo per dormire alla solita maniera. Volle il caso che la notte facesse un freddo assassino: la morsa del gelo mi afferrò e mi strinse fin sotto le coperte e la sensazione penosa mi tenne desto; prima dello spuntar dell'alba ero già in piedi e trotterellavo avanti e indietro lungo la sponda del fiume, o mi accoccolavo vicino al fuoco per reagire contro l'intirizzimento delle membra. Finalmente l'alba cominciò a sorgere sulla foresta e sulle montagne brizzolate dal gelo, sui dormienti avviluppati nei mantelli e sul fiume impetuoso che balzava scrosciando fra lame di ghiaccio. Io ero in piedi avvolto nel tabarro rigido di pelle di bufalo e mi guardavo attorno, col respiro che mi usciva come fumo dalle narici brucianti. quando, tutto a un tratto, un grido strano e angoscioso risuonò dal margine della foresta. Le sentinelle risposero; i dormienti balzarono in piedi; uno indicò, gli altri seguirono con lo sguardo la direzione indicata, e laggiù, sul limitare della foresta, fra due alberi, scorgemmo la figura di un uomo che tendeva le braccia come in estasi. Un istante dopo, si slanciò in avanti, cadde in ginocchio vicino all'accampamento e scoppiò in lagrime.
Era John Mountain, il mercante, sfuggito ai più orrendi perigli; e le sue prime parole, quando ebbe riaquistato la favella, furono per domandare se avevamo veduto Secundra Dass.
- Veduto che cosa? - gridò Sir William.
- No, - dissi io, - non l'abbiamo veduto affatto. Perché?
- Affatto? - ripeté Mountain. - Allora, nonostante tutto, avevo ragione io.
E si picchiò il palmo della mano sulla fronte.
- Ma cosa lo fa tornare indietro? - gridò. - Cosa fa tornare quell'uomo fra i cadaveri? C'è un maledetto mistero qua sotto.
Queste parole ridestarono tutta la nostra curiosità; ma credo che darei prova di maggior perspicacia, riferendo questi avvenimenti nel loro vero ordine. La narrazione che segue è stata da me compilata da tre diverse fonti, non sempre molto attendibili in ogni punto.
1) Una dichiarazione scritta di Mountain, in cui tutta la parte delittuosa è stata abilmente camuffata e dissimulata;
2) Due colloqui con Secundra Dass, e
3) Diverse conversazioni con Mountain nelle quali questi ebbe la compiacenza di essere assolutamente schietto; perché la verità è che mi considerava suo complice.

RACCONTO DI MOUNTAIN IL MERCANTE

La ciurma che risalì il fiume sotto l'unito comando dei capitano Harris e del Signore di Ballantrae contava in tutto nove persone, fra le quali (eccezion fatta per Secundra Dass) non ce n'era una che non meritasse la forca. Da Harris in giù, tutti i viaggiatori erano noti nella colonia come temerari, sanguinari e senza timor di Dio; alcuni erano ritenuti pirati e quasi tutti erano spacciatori di rum; tutti rodomonti e beoni; erano tutti degni soci che si erano imbarcati insieme senza rimorsi, per un'impresa di tradimento e di assassinio. Non mi risulta che la combriccola fosse molto disciplinata, né che avesse un capitano fisso; ma Harris e altri quattro (lo stesso Mountain, due scozzesi, Pinkerton e Hastie, e un tale chiamato Hicks, un calzolaio ubriacone) tenevano conciliabolo e si mettevano d'accordo sulla via da seguire. Materialmente erano equipaggiati abbastanza bene, in special modo il Signore di Ballantrae il quale aveva portato una tenda, dove poteva godere un po' di solitudine e di riparo. Perfino quella piccola mollezza lo mise in cattiva luce agli occhi dei compagni; ma. ormai, egli si trovava in una posizione talmente falsa (e perfino ridicola) che tutta la sua abitudine al comando e tutta la sua arte di piacere erano sprecate. Agli occhi di tutti, meno che di Secundra Dass, egli era un babbeo qualunque e una vittima designata che andava inconsciamente alla morte; eppure egli non poteva non credersi l'ideatore e la guida della spedizione, non poteva fare a meno di agire come tale; e, ad ogni minimo accenno di autorità o di degnazione, i suoi ingannatori ridevano sotto i baffi. Io ero così avvezzo a vederlo e a figurarmelo in atteggiamento altezzoso e autoritario che, quando mi fui reso conto della sua situazione in quel viaggio, ne provai pena e quasi rossore. Non è possibile sapere quando cominciò ad avere un primo vago sospetto, ma era passato già molto tempo e la comitiva si era ormai addentrata nella regione deserta, fuori portata da qualsiasi possibilità di soccorso, prima che egli si rendesse pienamente conto della verità.
Avvenne così. Harris e alcuni altri ai erano appartati nella foresta per tenere consiglio, quando un fruscio fra la sterpaglia li fece trasalire. Erano tutti pratici delle arti di guerra degli Indiani, e Mountain, non solo aveva vissuto e cacciato, ma anche combattuto, con i selvaggi e acquistato una certa fama in mezzo a loro. Era capace di muoversi nella foresta senza rumore e sapeva seguire una. traccia come un cane da caccia: e, in quel momento di allarme, fu incaricato dagli altri di cacciarsi nella macchia in ricognizione. Si convinse tosto che, nelle immediate vicinanze c'era qualcuno che si muoveva fra i rami e le foglie con precauzione, ma senz'arte; portatosi rapidamente in un punto vantaggioso, poté vedere Secundra Dass che si allontanava alla svelta strisciando e gettandosi alle spalle molti sguardi furtivi. A quella vista, Mountain non sapeva se ridere o piangere, e i suoi complici, quando egli fu tornato ed ebbe riferito, rimasero nello stesso dubbio. Non c'era pericolo, per il momento, di venir massacrati dagli Indiani; ma, d'altra parte, dal momento che Secundra Dass si prendeva la briga di spiarli, era molto probabile che sapesse l'inglese e, se sapeva l'inglese, era certo che tutto il loro piano era ormai a conoscenza del Signore di Ballantrae. In quella situazione c'era un lato singolare: se Secundra Dass sapeva l'inglese (e teneva segreta la sua conoscenza), Harris era padrone di parecchi dialetti indiani, ma, siccome la sua carriera in quella parte del mondo era stata peggio che dissoluta, non aveva creduto opportuno accennare a questa circostanza. Ognuna delle due parti aveva così una feritoia da cui spiare le mosse dell'avversario. I cospiratori, non appena ebbero avuto la spiegazione di questo vantaggio, tornarono all'accampamento. Harris, saputo che l'indostano si era di nuovo rinchiuso dentro con il suo padrone, strisciò presso la tenda, e gli altri, seduti intorno al fuoco con il loro tabacco, attesero con impazienza il suo rapporto. Quando finalmente li raggiunse Harris aveva una faccia molto scura. Quello che aveva udito era bastato a confermare i suoi peggiori sospetti. Secundra Dass sapeva benissimo l'inglese; era già qualche giorno che strisciava e origliava; il Signore di Ballantrae era perfettamente al corrente della congiura, e i due si proponevano di disertare la compagnia il giorno seguente, durante un passaggio a piedi e di cacciarsi nella foresta alla ventura, preferendo tutti i rischi della fame, delle fiere e dei selvaggi a quella posizione in mezzo ai traditori.
Che fare, dunque? Alcuni avrebbero voluto ammazzare il Signore di Ballantrae seduta stante; ma Harris li convinse che sarebbe stato un delitto senza alcun guadagno, giacché il segreto del tesoro sarebbe scomparso con la persona che lo aveva sotterrato. Altri avrebbero voluto desistere senz'altro dall'impresa e tornare a New York, ma la parola "tesoro" faceva gola e l'idea della lunga via già percorsa dissuase la maggioranza. Immagino che, per la maggior parte, fossero degli stupidi. Veramente, Harris aveva certe cognizioni, Mountain non era uno sciocco, Hastie era un uomo di una certa cultura; ma anch'essi avevano evidentemente fatto fallimento nella vita e tutti gli altri erano la feccia della canaglia coloniale. In ogni modo la conclusione a cui giunsero fu frutto di avidità e di speranza, più che di ragione. Decisero di temporeggiare, di essere cauti e di tener d'occhio il Signore di Ballantrae, di tacere e di non dare più esca ai suoi sospetti e (per quanto riuscii a capire) di affidarsi completamente alla speranza che la loro vittima fosse avida, speranzosa e irragionevole quanto loro e che finisse, nonostante tutto, col tradire la propria vita e il tesoro.
Due volte, nel corso del giorno successivo, Secundra Dass e il Signore di Ballantrae dovettero credere di essersi messi in salvo e due volte furono riacciuffati. Il Signore di Ballantrae (salvo la seconda volta, quando impallidì un po') non dette segni di delusione, si scusò per la stupidità con la quale si era allontanato, ringraziò coloro che lo avevano ripreso come se gli avessero reso un servigio e tornò ad unirsi alla carovana, con la solita spavalderia e la solita giovialità d'aspetto e di maniere. Ma è certo che aveva mangiato la foglia e da allora in poi egli e Secundra Dass si parlarono soltanto all'orecchio, e Harris, fuori della tenda, tremava di freddo e origliava invano. Quella sera stessa fu annunciato che bisognava lasciare le barche e proseguire a piedi, e questa circostanza, mettendo fine alla confusione dei passaggi sulla terraferma, diminuì di molto le possibilità di fuga. Cominciò allora fra le due parti una lotta silenziosa, da un lato per la vita, dall'altro per le ricchezze. Erano ormai vicini a quella regione del deserto dove il Signore di Ballantrae in persona doveva assumere la parte di guida; e, approfittando di questo pretesto per perseguitarlo, Harris e i suoi uomini, ogni sera, ai sedevano con lui intorno al fuoco e si sforzavano di intrappolarlo per cavargli qualche informazione. Egli sapeva bene che, lasciandosi sfuggire il segreto, si sarebbe condannato a morte; d'altra parte, non osava respingere le loro domande e doveva aver l'aria di fare tutto quanto era in suo potere per aiutarli se non voleva palesare la propria diffidenza. Eppure Mountain mi assicura che la fronte di quell'uomo non si rannuvolò mai. Egli sedeva in mezzo a quegli sciacalli, mentre la sua vita pendeva da un filo, come un padrone di casa, accanto al proprio focolare, calmo e spiritoso; aveva risposta a tutto e, spesso, anche una risposta scherzosa; schivava le minacce, non raccoglieva gli insulti, parlava, rideva, ascoltava con espressione aperta; insomma, si comportava in modo da disarmare il sospetto e da far vacillare la certezza. Infatti Mountain mi confessò che per poco non misero in dubbio la storia del capitano e non credettero la vittima designata tuttora ignara dei loro piani; se non fosse stato il fatto che quest'ultima seguitava per quanto abilmente a sottrarsi alle loro domande, e per la conferma, ancora più convincente, data al loro sospetto dai suoi reiterati tentativi di fuga. Riferisco qui l'ultimo che fu quello che fece venire le cose a capo Bisogna che dica anzitutto che, ormai, la pazienza del compagni di Harris era completamene esaurita; non ci si curava neppure di salvare le apparenze della cortesia; per una circostanza assolutamente insignificante, e con un pretesto qualunque, il Signore di Ballantrae e Secundra Dass furono privati delle armi. Da parte loro, però, i due minacciati seguitavano a far bella mostra di amistà: Secundra era tutto inchini, il suo padrone tutto sorrisi; anzi, l'ultima sera di tregua, quest'ultimo era perfino arrivato al punto di cantare per intrattenere la compagnia. Fu anche notato che aveva mangiato più di gusto del solito e bevuto parecchio, senza dubbio di proposito.
Comunque, verso le tre del mattino, uscì dalla tenda all'aria aperta lamentandosi e dolendosi ad alta voce, come se soffrisse di indigestione. Per qualche tempo, in presenza di tutti, Secundra assisté il suo padrone, il quale, alla fine, si acquetò e si addormentò sul terreno gelato, dietro la tenda, mentre l'indiano tornava dentro. Poco più tardi ci fu il cambio delta sentinella a cui fu indicato il punto dove giaceva il Signore di Ballantrae, avviluppato in un mantello di pelle di bufalo, e la sentinella dichiarò di averlo tenuto d'occhio, a partire da quel momento, senza interruzione. Con lo spuntar dell'alba, un improvviso soffio di vento sollevò un lembo del mantello e, con la stessa folata, il cappello del Signore di Ballantrae roteò in aria e ricadde a qualche metro di distanza. Alla sentinella parve strano che il dormiente non al svegliasse; si avvicinò, e un istante dopo, con un alto grido, avvertì il campo che il prigioniero era scappato. Si era lasciato dietro l'indiano, il quale, nella sorpresa del primo momento, poco mancò non pagasse con la vita il fio della sua complicità; e fu effettivamente strapazzato in modo crudele; ma Secundra, nonostante le minacce e i maltrattamenti, sostenne con fedeltà straordinaria di essere completamente all'oscuro dei progetti del padrone (il ché poteva anche essere vero) e del modo della sua fuga (il che. era manifestamente falso). Ai cospiratoti non rimase dunque che affidarsi all'abilità di Mountain. Durante la notte aveva gelato e il terreno era duro; non appena il sole fu alto cominciò il disgelo.
Mountain affermava con orgoglio che pochi sarebbero stati capaci di seguire quella traccia, e pochissimi (anche fra gli indiani) sarebbero riusciti a trovarla. Perciò il Signore di Ballantrae ebbe un forte vantaggio sui suoi inseguitori, prima che questi fossero sulle sua tracce, e dovette anche avanzare con un'energia sorprendente in un uomo così poco avvezzo alle marce, poiché quando Mountain lo scorse era già quasi mezzogiorno. In quel momento il mercante era solo, perché tutti i suoi compagni, secondo il suo desiderio, seguivano a parecchie centinaia di metri; Mountain sapeva che il fuggiasco era disarmato; oltre a questo, Mountain era riscaldato dal moto e dall'eccitazione della caccia e nel vedersi la preda così vicina, così indifesa e con l'aspetto così affaticato, decise vanagloriosamente di catturarla con le sue sole mani. Altri due passi lo portarono sul limitare di una piccola radura; dall'altra parte, con le braccia conserte e la schiena contro un masso enorme, era seduto il Signore di Ballantrae. Può darsi che Mountain facesse udire un fruscio; è certo, se non altro, che il fuggiasco alzò gli occhi e fissò lo sguardo esattamente su quel punto della boscaglia dove si trovava il suo inseguitore.
- Non potevo esser certo che mi vedesse, - disse Mountain, - guardava semplicemente dalla mia parte come un uomo che abbia preso una decisione, e tutto il coraggio se ne uscì fuori da me, come rum da una bottiglia.
E un momento dopo, quando il Signore di Ballantrae ebbe distolto lo sguardo da lui, Mountain sgusciò via furtivamente e andò in cerca dell'aiuto dei compagni.
E allora cominciò il capitolo delle sorprese, perché la staffetta aveva appena informato gli altri della sua scoperta e questi stavano ancora preparando le armi per buttarsi all'inseguimento del fuggiasco, quando quest'ultimo apparve in persona fra di loro avanzando allo scoperto con passo calmo e con le mani dietro la schiena.
- Ah, ragazzi! - disse vedendoli. - Ecco un incontro fortunato. Torniamo all'accampamento.
Mountain non aveva fatto parola della propria debolezza, né dello sguardo sconcertante del Signore di Ballantrae verso la boscaglia, cosicché a tutti gli altri quel ritorno parve spontaneo. Nonostante ciò ci fu un po' di subbuglio; si udì volare qualche bestemmia, si videro pugni alzati e fucili puntati.
- Torniamo al campo, - disse Il Signore di Ballantrae. - Debbo darvi una spiegazione, ma bisogna che lo faccia alla presenza di tutti. E intanto, io metterei via quelle armi, se fossi in voi, perché qualcuna potrebbe benissimo sparare e mandare in fumo le vostre speranze di tesori. Io non ammazzerei la gallina dalle uova d'oro, - aggiunse con un sorriso.
Il fascino della sua superiorità trionfò una volta di più e la comitiva si mosse, in ordine sparso, sulla via del ritorno. Strada facendo egli trovò il modo di dire due parole a parte a Mountain.
- Voi siete un tipo audace e intelligente, - disse, - ma non sono sicuro che facciate buon uso delle vostre capacità. Vorrei che consideraste se non sarebbe meglio, e anche più sicuro, per voi, servire me, invece di quel volgare mascalzone del signor Harris. Pensateci, - concluse dandogli un colpetto sulla spalla, - e non abbiate fretta. Vi accorgerete che è scomodo litigare con me, morto o vivo che sia.
Quando furono di ritorno al campo, dove Harris e Pinkerton erano rimasti a guardia di Secundra, i due primi corsero verso il Signore di Ballantrae come due furie e furono sbalorditi oltre ogni dire, nell'udirsi ordinare dal compagni di ."tirarsi indietro e di stare a sentire quello che il signore aveva da dire ". Il Signore di Ballantrae non aveva battuto ciglio di fronte a quell'attacco e, a questa prova del terreno guadagnato, non tradì il minimo compiacimento.
- Non facciamo le cose in fretta, - disse, - prima il pasto e poi i discorsi in pubblico.
Con ciò fu preparato un pasto frettoloso e, non appena questo fu consumato, il Signore di Ballantrae, appoggiandosi al gomito, cominciò il suo discorso. Parlò a lungo, rivolgendosi a ciascuno di loro, tranne che ad Harris; trovando per ciascuno (sempre con la stessa eccezione) una speciale parola di adulazione. Li chiamò "arditi e galantuomini.", dichiarò che non aveva mai veduto compagnia più gioviale che sapesse far meglio il proprio lavoro e sopportare i disagi più allegramente.
- Ebbene, allora, - aggiunse, - qualcuno mi chiederà: " Perché diamine sei scappato? ". Ma a questo non vale la pena di rispondere, perché credo che tutti voialtri lo sappiate abbastanza bene; ma lo sapete soltanto "abbastanza" bene; ecco un punto a cui arriverò fra poco e voi tenetevi pronti a badarci quando ci arriveremo. Qui c'è un traditore, un doppio traditore; prima di finire vi dirò il suo nome e questo basti per ora. Ma ecco che si fa avanti un altro signore e mi chiede: " Perché diavolo sei tornato?" Ebbene, prima di rispondere a questa domanda, ve ne farò una io:."È questo bastardo, questo Harris che parla l'indostano? ", - gridò, alzandosi su di un ginocchio e puntando l'indice dritto in faccia a Harris, con un gesto indescrivibilmente minaccioso; e quando ebbe avuto risposta affermativa: - Ah! dunque tutti i miei sospetti si sono avverati e ho fatto bene a tornare. Ora, ragazzi, ascoltate la verità per la prima volta.
E qui si lanciò in una lunga storia, narrata con bravura straordinaria, del come egli avesse sempre sospettato Harris, del come avesse avuto conferma dei suoi timori e del come Harris dovesse avere riferito con inesattezza quanto si era svolto fra lui e Secundra Dass. A questo punto tentò un colpo audace e con ottimo esito.
- Immagino, - disse, - che voi pensiate di fare a parti uguali con Harris; immagino che crediate di saper badare ai vostri interessi da soli; naturalmente non crederete che un così rozzo furfante vi possa truffare. Ma badate! questi mezzi idioti hanno una specie di furberia, come la puzzola ha il suo fetore; e forse voi non sapete che Harris si è già messo al coperto. Sì, per lui il tesoro è tutto denaro in più. Voi se non lo trovate, morrete di fame; ma lui è stato pagato in anticipo; mio fratello lo ha pagato per farmi sparire; guardatelo se ne dubitate, guardate come ghigna e inghiotte, come un ladro colto in flagrante!
Poi, dopo aver fatto questa buona. impressione, spiegò che era fuggito e poi ci aveva ripensato e finalmente aveva deciso di tornare indietro, svelare la verità a tutta la compagnia e ritentare l'avventura con loro; persuaso com'era che avrebbero deposto Harris e che avrebbero eletto un altro condottiero.
- Ecco tutta la verità, - disse. - E, con una solaeccezione, mi metto completamente nelle vostre mani. Qual è l'eccezione? eccola lì, - gridò, indicando ancora una volta Harris. - Quell'uomo deve morire! Anni e condizioni mi sono indifferenti, mettetemi faccia a faccia con lui, datemi null'altro che un bastone, e in cinque minuti vi farò vedere una carogna fatta a pezzi e ridotta a zuppa buona per farci sguazzar dentro i cani!
Era notte scura quando finì. Tutti avevano ascoltato in un silenzio quasi perfetto, ma la luce del fuoco non consentiva a nessuno di giudicare dalla fisionomia del vicino se il risultato dei discorso fosse persuasione o diffidenza. Infatti il Signore di Ballantrae si era messo nel punto più illuminato e teneva il viso rivolto in modo da essere al centro di tutti gli sguardi, senza dubbio, per un calcolo raffinato. Per un po' ci fu silenzio; ma in breve tutta la comitiva fu trascinata nella disputa. Il Signore di Ballantrae era sdraiato supino, con le mani intrecciate dietro la testa e le gambe accavallate, come se il risultato non lo riguardasse. E qui credo che spingesse troppo oltre la sua bravata e che questa pregiudicasse la sua posizione. Certo è che; dopo un paio di ondeggiamenti pro e contro, l'opinione generale si dichiarò nettamente contraria a lui. Può darsi che egli sperasse di ripetere il colpo della nave corsara e magari di venire eletto egli stesso capo, a condizioni piuttosto dure; e difatti per un momento le cose parvero prendere questa piega, al punto che Mountain fece addirittura la proposta. Ma lo scoglio contro il quale andò a sbattere fu Hastie. Questo tipo non godeva molte simpatie, perché era acido e tardo, con un brutto carattere collerico, ma aveva seguito per qualche tempo gli studi ecclesiastici all'Università di Edimburgo, prima che la sua cattiva condotta distruggesse i suoi piani per l'avvenire; e in quel momento ricordò e mise in pratica quello che aveva imparato. Non aveva parlato a lungo, quando Il Signore di Ballantrae si girò sul fianco con noncuranza, il che, secondo il parere di Mountain, era per nascondere le prime tracce di disperazione che gli erano apparse sul viso. Hastie scartò la maggior parte di quanto avevano ascoltato come inconsistente. Ciò che tutti volevano era il tesoro. Tutto quello che era stato detto di Harris poteva anche esser vero, e se ne sarebbero occupati in seguito. Ma che cosa aveva da vedere col tesoro? Avevano ascoltato una valanga di parole. Ma la verità era soltanto questa: che il signor Durie aveva una paura maledetta e che era scappato via diverse volte. Ora era lì; ripreso o tornato, era tutt'uno per Hastie. La questione era come farla finita con quella storia. Quanto a quei discorsi di deporre e di eleggere capitani, sperava che fossero tutti uomini liberi e capaci di badare ai casi propri. Quella era polvere negli occhi e così era la proposta di battersi con Harris.
- Non si batterà con nessuno in questo campo, glielo dico io, - disse Hastie. - Abbiamo passato abbastanza guai per portargli via le armi e sarebbe proprio da imbecilli ridargliele. Ma se il signore va in cerca di emozioni, gliene posso fornire anche più di quel che desidera. Perché non ho nessuna intenzione di passare il resto dei miei giorni fra queste montagne; ci sono già stato anche troppo e propongo che ci dica immediatamente dov'è questo tesoro o gli spariamo all'istante. E questa, - aggiunse, tirando fuori l'arma, - è la pistola che ho intenzione di usare.
- Perbacco, questo si chiama parlare da uomo, - esclamò il Signore di Ballantrae, levandosi a sedere e guardando l'oratore con aria di ammirazione.
- Non vi ho chiesto come si chiama, - replicò Hastie. - Cosa vogliamo fare?
- Questa è una domanda inutile, - rispose il Signore di Ballantrae. - Quando si è in ballo bisogna ballare. La verità è che siamo a due passi dal luogo del tesoro e domani ve lo mostrerò.
E con ciò, come se tutto fosse sistemato, e sistemato precisamente a modo suo, si allontanò in direzione della tenda, dove Secundra lo aveva preceduto. Non posso pensare a quelle ultime contorsioni del mio vecchio nemico senza ammirazione; a questo sentimento non si mescola neppure la pietà, tanta fu la forza e tanto il coraggio con cui quell'uomo sostenne e resistette alle sue disavventure. Perfino nel momento in cui si vide irrimediabilmente perduto, in cui si accorse di non avere ottenuto che uno scambio di nemici, di avere rovesciato Harris per innalzare Hustie, il suo contegno non tradì la minima debolezza ed egli ai ritirò nella sua tenda, già deciso (come dobbiamo supporre) ad affrontare l'incredibile rischio dell'ultimo espediente, con la stessa espressione tranquilla, sicura e cortese, con lo stesso passo con cui avrebbe lasciato il teatro per recarsi a un convito di begli spiriti. Ma certo, se gli si fosse potuto guardare in fondo all'anima, si sarebbe visto che, dentro, tremava.
Nelle prime ore della 'notte cominciò a circolare per l'accampamento la voce che il Signore di Ballantrae stava male; e, prima di ogni altra cosa, il mattino seguente, egli chiamò al suo fianco Hastie e gli chiese con grande ansietà se avesse qualche cognizione di medicina. Era appunto una delle vanità di quello studente di teologia fallito, a cui egli si era astutamente rivolto. Hastie lo visitò e, essendo ignorante, lusingato e sospettosissimo, non riuscì menomamente a capire se l'altro fosse ammalato o facesse la commedia. In quello stato di incertezza se ne tornò dai compagni e (poiché era la versione che gli dava più. importanza) annunciò che il paziente stava lì lì per morire.
- Ma, a suo dispetto, e anche se dovesse schiattare per la strada, ci deve accompagnare stamane al tesoro, - disse.
Ma alcuni degli uomini dell'accampamento (Mountain fra gli altri) si ribellarono a tanta brutalità. Avrebbero potuto veder prendere a pistolettate il Signore di Ballantrae o gli avrebbero sparato essi stessi, senza il minimo sentimento di pietà; ma pare che fossero rimasti colpiti dal suo valore nella battaglia della sera precedente e dalla sua inequivocabile sconfitta; fors'anche cominciavano già a fare opposizione al nuovo capo; in ogni modo dichiararono che se costui era malato gli avrebbero concesso un giorno di riposo a marcio dispetto di Hastie.
Il mattino di poi, il Signore di Ballantrae stava palesemente peggio, e lo stesso Hastie cominciò a manifestare un po' di interesse umano, tanto è facile che l'esercizio della medicina (anche se simulato) ridesti sensi di umana comprensione. Il terzo giorno il Signore di Ballantrae chiamò sotto la tenda Mountain e Hastie, dichiarò di essere moribondo, dette loro tutti i particolari sulla posizione del nascondiglio e li pregò di mettersi alla ricerca senza perder tempo, in modo da constatare che egli non li ingannava e, nel caso che non riuscissero a trovarlo subito, di metterli in grado di correggere l'errore.
Ma qui sorse una difficoltà sulla quale egli aveva indubbiamente contato. Nessuno degli uomini si fidava degli altri, nessuno ne voleva sapere di rimanere indietro. D'altra parte, sebbene il Signore di Ballantrae apparisse abbattutissimo, parlasse con un fil di voce e giacesse, per la maggior parte del tempo, senza conoscenza, era pur sempre possibile che si trattasse di una finta malattia; e se fossero andati tutti alla caccia del tesoro, questa avrebbe anche potuto essere la ricerca dell'araba fenice e, al ritorno, il prigioniero avrebbe potuto essere fuggito. Finirono, perciò col restare a gironzolare per il campo senza far nulla, adducendo a scusa la compassione; ed è certo (tanto sono complessi i nostri sentimenti) che parecchi di loro erano sinceramente, se non molto profondamente, afflitti dal naturale pericolo in cui si trovava la vita dell'uomo di cui avevano freddamente meditato l'assassinio. Nel pomeriggio, Hastie fu chiamato al capezzale del Signore di Ballantrae a pregare, cosa che, per incredibile che sembri, egli fece con fervore. Verso le otto di sera, le lamentazioni di Secundra annunciavano che tutto era -finito; e, prima delle dieci, l'indiano, al chiarore di una torcia infilata in terra, lavorava a scavare la fossa.
L'alba del giorno dopo vide il seppellimento del Signore di Ballantrae, a cui tutti i presenti assistettero con un contegno molto decoroso; il corpo avvolto in una pelliccia, fu deposto nella fossa, con il solo volto scoperto; questo era di una bianchezza cerea e aveva le narici tamponate, secondo un'abitudine orientale di Secundra. Non appena la fossa fu colmata, le lamentazioni dell'indiano - ripresero a rattristare ogni cuore, e pare che quella banda di assassini, lungi dal risentirsi delle sue grida, benché angosciose e (in un paese simile) pericolose, cercassero, burberamente, ma benevolmente, di consolarlo.
Ma se, di tanto in tanto, la natura umana si mostra benigna anche negli uomini peggiori, è. pur sempre e sopra ogni altra cosa, avida; e ben presto, tutti lasciarono solo l'afflitto Secundra e tornarono ai propri interessi. Il nascondiglio del tesoro era lì vicino e perciò fu stabilito di non levare il campo; e la giornata passò in vana esplorazione dei boschi da parte dei viaggiatori, mentre Secundra restava disteso sulla tomba del padrone. Quella notte non furono messe sentinelle e tutti si posero a giacere al solito modo dei boscaioli, coi piedi verso il fuoco e col capo all'infuori, come i raggi di una ruota. Il mattino li trovò nella stessa posizione; soltanto Pinkerton che dormiva alla destra di Mountain, fra questi e Hastie, era stato segretamente scannato nel buio della notte e giaceva lì, col corpo tuttora avvolto nel suo mantello, presentando però alla sommità l'orrendo e barbaro spettacolo di una testa scotennata. Quel mattino i componenti della banda erano pallidi come fantasmi, perché la pertinacia del guerriero indiano (o per parlare con più precisione, dell'assassino indiano) era ben nota a tutti. Ma attribuirono l'accaduto soprattutto alla mancanza di sentinelle e, infiammati dalla prossimità del tesoro, decisero di restare dov'erano. Pinkerton fu sepolto vicino al Signore di Ballantrae; i superstiti passarono un'altra giornata in esplorazione e tornarono in uno stato d'animo misto di inquietudine e di speranza; quasi certi, da una parte, di essere ormai sul punto di scoprire quel che cercavano e, dall'altra, col ritorno delle tenebre, nuovamente invasi dalla paura degli indiani. A Mountain toccò il primo turno di guardia; dichiarò di non essersi addormentato e neppure seduto e di avere fatto la guardia con incessante e sempre tesa vigilanza; e che si era avvicinato al fuoco perfino con indifferenza, per svegliare l'uomo che doveva dargli il cambio. Quest'ultimo (era Hicks, il calzolaio) dormiva dal lato sottovento del circolo e quindi era un po' più lontano di quelli che si trovavano sopravvento, in un punto oscurato dal fumo spinto dal vento. Mountain si chinò e lo prese per la spalla; immediatamente la sua mano incontrò qualcosa di umido e di attaccaticcio; in quel momento il vento mutò direzione e la luce dei fuoco, battendo sul dormiente, glielo mostrò, come Pinkerton, morto e scotennato.
Era chiaro che erano caduti fra le mani di uno di quegl'inarrivabili sicari Indiani che, a volte, seguono una comitiva per giorni e giorni e, a dispetto di marce estenuanti e di vigilanza senza posa, riescono a seguirne l'avanzata e a rubare una capigliatura ad ogni tappa. A quella scoperta, i cercatori del tesoro, già ridotti a una misera mezza dozzina, in preda a un vero e proprio sgomento, afferrarono qualche oggetto indispensabile e, abbandonando tutti gli altri beni, fuggirono senz'altro nella foresta. Lasciarono il fuoco acceso e il compagno morto senza sepoltura. Tutto il giorno fuggirono senza posa, e mangiarono cammin facendo, alla meglio, e poiché avevano paura di dormire, continuarono ad avanzare a casaccio, anche fra le tenebre. Ma i limiti della resistenza umana sono presto raggiunti, e quando finalmente si fermarono a riposare fu per dormire profondamente; e, allorché si destarono, fu per accorgersi che il nemico era ancora alle loro calcagna e che la morte e la mutilazione avevano, ancora una volta, decimato e mutilato la loro compagnia. Ormai avevano perso la testa, avevano del tutto smarrito il sentiero nella foresta e le loro scorte cominciavano a mancare. E' superfluo sovraccaricare di altri orrori una narrazione che si è già protratta anche troppo. Basti dire che, quando finalmente una notte passò senza danno ed essi poterono respirare nella speranza che l'assassino avesse una buona volta desistito dal perseguitarli, Mountain e Secundra erano soli. Il mercante è fermamente convinto che il nemico invisibile fosse un guerriero di sua conoscenza che lo aveva risparmiato per favore speciale.
Egli spiega la misericordia usata anche a Secundra basandosi sul fatto che l'indiano d'oriente fosse ritenuto pazzo; un po' perché, fra gli orrori della fuga e mentre gli altri gettavano cibo e armi, Secundra seguitava ad arrancare con un piccone sulle spalle e un po' perché gli ultimi giorni parlava ininterrottamente da solo nella sua lingua, con molta scorrevolezza e molto calore. Ma quando si trattò di parlare inglese, si dimostrò abbastanza sensato:
- Credete che sia proprio andato via? - chiese, quando si destarono sani e salvi.
- Prego Dio che sia così, credo di sì, oso credere di sì, - aveva risposto Mountain, quasi con incoerenza, secondo la descrizione che egli stesso mi fece della scena.
E difatti era talmente sconvolto che finché non ci incontrò, il mattino dopo, non poté dire con certezza se aveva sognato o se era vero che Secundra, a quelle parole si era voltato senz'altro e, senza dir nulla, era ritornato sui suoi passi, col viso rivolto verso quelle solitudini gelide e affamate, lungo un sentiero che ad ogni tappa aveva per pietra miliare un cadavere mutilato.



CAPITOLO DODICESIMO


IL VIAGGIO NELLE SOLITUDINI (CONTINUAZIONE)

La storia di Mountain, come fu presentata a Sir William Johnson e a Milord, era naturalmente sfrondata di tutti i particolari che la precedono, e quindi la spedizione era descritta come se avesse avanzato senza incidenti fino a quando il Signore di Ballantrae cadde ammalato. Ma l'ultima parte fu narrata a grandissima fatica e si vedeva benissimo che il narratore rabbrividiva ai propri ricordi; e la nostra situazione di allora, sul margine dello stesso deserto, e i segreti interessi di ciascuno dei presenti facevano di noi un pubblico preparato a condividere le sue emozioni. Difatti le informazioni di Mountain non solo mutavano l'aspetto del mondo agli occhi di Milord, ma influenzavano materialmente i piani di Sir William.
Mi accorgo di dover parlare più diffusamente di questi piani al lettore. Voci di dubbio significato erano giunte ad Albany; si era parlato di ostilità imminenti; e di conseguenza il diplomatico indiano si era affrettato a partire alla volta delle regioni selvagge, nonostante l'approssimarsi dell'inverno, per troncare il male sul nascere. Lì sul confine si accorgeva di essere arrivato troppo tardi e quindi una scelta difficile -si imponeva a un uomo che, tutto sommato, non era più ardito che prudente. La sua posizione fra i valorosi guerrieri dipinti si può paragonare a quella del Lord Presidente Culloden fra i nostri condottieri scozzesi nel '45; vale a dire, egli era, fra quegli uomini, l'unico portavoce della ragione, e i consigli di pace e di moderazione, se si potevano imporre in qualche modo, si imponevano unicamente grazie alla sua influenza. Quindi, se egli fosse tornato indietro, la regione sarebbe rimasta esposta a tutte le abbominevoli tragedie della- guerra indiana; le case sarebbero state date alle fiamme, il viandante sarebbe rimasto tagliato fuori, e gli uomini della foresta avrebbero raccolto la solita ributtante spoglia di capigliature umane. D'altra parte, inoltrarsi ancora più a nord, arrischiarsi con una piccola comitiva ancora pia addentro alla zona selvaggia, portare parole di pace fra selvaggi bellicosi che già si rallegravano all'idea di ricominciare la guerra, era una decisione disperata da cui era facile accorgersi che la sua mente rifuggiva.
- Sono arrivato troppo tardi, - disse più di una volta, immergendosi poi in profonda meditazione e battendo la terra col piede.
Finalmente alzò il viso e ci guardò, vale a dire Milord, Mountain e me; eravamo seduti vicino a un focherello che era stato acceso per noi soli in un angolo dell'accampamento.
- Milord, per essere proprio schietto con voi, sono molto indeciso, - disse. - Mi pare assolutamente necessario proseguire, ma niente affatto opportuno che io continui ad avere il piacere della vostra compagnia. Qui siamo ancora sulla sponda del fiume e credo che verso il sud il pericolo non sia grave. Non vorreste, voi e il signor Mackellar, prendere l'equipaggio di una sola barca e tornare ad Albany?
Devo dire che Milord aveva ascoltato il racconto di Mountain fissandolo dal principio alla fine, con intensità dolorosa; e da quando la storia era giunta al termine, era rimasto a sedere come trasognato. C'era nel suo aspetto qualcosa che faceva paura; qualcosa, ai miei occhi,. di non del tutto umano; il viso, magro e cupo, invecchiato; la bocca dolorosa, i denti scoperti in un perpetuo rictus; le pupille, discoste dalle palpebre, vaganti sul fondo bianco iniettato di sangue della cornea. Non lo potevo guardare senza un senso di acuta irritazione, il che di sovente è troppo spesso il sentimento che proviamo per le malattie di chi ci è caro. Non potevo non osservare che gli altri tolleravano a stento la sua vicinanza; Sir William lo evitava, Mountain ne schivava lo sguardo e quando lo incontrava si confondeva e interrompeva il racconto. A quell'appello, però, Milord parve riacquistare il dominio di sé.
- Ad Albany? - disse con voce normale.
- Per lo meno, non lontano, - rispose Sir William. - Da queste parti non si è sicuri.
- Mi rincrescerebbe molto ritornare, - disse Milord. - Non ho paura... degli indiani, - aggiunse con un movimento spasmodico.
- Vorrei poter dire altrettanto, - replicò Sir William con un sorriso, - sebbene, se c'è qualcuno che lo può dire, quello dovrei essere io. Ma voi dovete. tener presente la mia responsabilità e ora che il viaggio è diventato veramente pericoloso e il vostro scopo (se mai ne aveste) è giunto a conclusione con la dolorosa notizia che avete ricevuto, sarei imperdonabile se vi permettessi di proseguire e non vorrei correre il rischio di venir censurato nel caso di qualche spiacevole conseguenza.
Milord si rivolse a Mountain:
- Di che cosa ha finto di morire? - domandò.
- Credo di non aver capito Vossignoria, - rispose il mercante, interrompendosi, con aria molto scossa, nella bisogna di curare alcune dolorose ferite prodotte dal gelo.
Per un momento Milord parve ridotto al silenzio; poi, con una certa irritazione:
- Vi ho domandato di che cosa è morto. Mi pare una domanda chiara, - disse.
- Oh, non so, - rispose Mountain. - Neppure Hastie lo ha- mai saputo. Ha avuto l'aria di ammalarsi naturalmente e poi è morto e basta.
- Ecco, vedete! - concluse Milord, rivolgendosi a Sir William.
- Vossignoria è troppo profonda per me, - rispose Sir William.
- Come, - disse Milord, - questa è una questione di successione. Il titolo di mio figlio può essere contestato, e siccome si suppone che quest'uomo sia morto di non si sa che, la cosa può dar luogo a una quantità di sospetti.
- Ma, Dio mi stramaledica, se è stato seppellito! - gridò Sir Wiliam.
- Non lo crederò mai, - replicò Milord con un tremito penoso. - Non lo crederò mai! - gridò ancora, balzando in piedi. - Sembrava morto? - chiese a Mountain.
- Sembrava morto? - ripeté il mercante. - Era bianco. Via, che trucco ci poteva essere? Vi dico che gli ho buttato io le zolle sopra.
Milord afferrò Sir William per la giubba con mano contratta.
- Quell'uomo porta 1l nome di mio fratello, - disse. - Ma si sa bene che non è mai stato naturale.
- Naturale? - disse Sir William, - che volete dire?
- Non è di questo mondo, - bisbigliò Milord, - né lui, né il diavolo nero che lo serve. Io gli ho trapassato le viscere con la mia spada, - gridò, - ho sentito l'elsa urtare contro lo sterno e il sangue caldo spruzzarmi in viso, tante e tante volte! tante e tante volte! - ripeté, con un gesto indescrivibile. - Ma non per questo morì, - aggiunse e lo sospirai forte. - Perché dovrei crederlo morto ora? No. non lo crederò finché non l'avrò visto marcire.
Sir William mi guardava cui viso scuro; Mountain aveva dimenticato le sue ferite e stava a bocca aperta e con gli occhi sbarrati.
- Milord, - dissi, - vorrei che tornaste in voi.
Ma avevo la gola tanto riarsa e il mio stesso animo era così smarrito che non potei aggiungere altro.
- No, - disse Milord, - non si può pensare che mi capisca. Mackeilar sì, perché sa tutto e l'ha visto sepolto prima d'ora. Questo è un ottimo servitore, Sir William, questo Mackellar; lo seppellì con le sue stesse mani; egli e mio padre lo seppellirono al lume di due candelieri d'argento. Quell'altro uomo è uno spirito familiare; se l'è portato da Coromandel. Vi avrei detto tutto questo molto tempo fa, Sir William, soltanto era un segreto di famiglia.
Fece quest'ultima osservazione con una certa compostezza malinconica e parve che il momento di aberrazione fosse passato.
- Vi domandate quello che significa tutto ciò, - proseguì. - Mio fratello si ammala e muore e viene sepolto; così dicono e tutto sembra chiarissimo. Ma perché lo spirito familiare è tornato indietro? Credo che anche voi pensiate che questo punto ha bisogno di essere chiarito.
- Sarò ai vostri ordini, Milord, - fra mezzo minuto, - disse Sir William, alzandosi. - Signor Mackellar, una parola, - e mi condusse fuori del campo. La brina scricchiolava sotto i nostri passi e gli alberi tutto intorno a noi erano brizzolati dal gelo, proprio come quella notte nel boschetto a Durrisdeer.
- Si capisce che questa è pazzia bella e buona, - disse Sir William, appena fummo fuori portata dagli altri.
- Sì, certo, _ risposi. - Quest'uomo è pazzo; la cosa mi sembra palese.
- Debbo farlo prendere e legare? - domandò Sir William. - Lo farò, se voi me ne date autorizzazione. Se tutto quello che dice è delirio, dovremmo farlo senz'altro.
Guardai a terra, guardai verso l'accampamento con i fuochi accesi e la gente che ci osservava e intorno a me, i boschi e i monti; soltanto da una parte non riuscii a guardare, vale a dire in faccia a Sir William.
- Sir William, - dissi finalmente. - Io credo che Milord non sia normale e lo credo da un pezzo. Ma ci sono diversi gradi di pazzia e se sia il caso di metterlo sotto controllo... Sir William, io non sono in grado di giudicare, - conclusi.
- Giudicherò io, - rispose Sir William. - Io vi domando dei fatti. C'era in tutto quel farneticare, qualche parola di vero e di sensato? Voi esitate? - chiese. - Ne debbo concludere che avete veramente seppellito quel signore prima d'ora?
- Non seppellito, - dissi, e poi, prendendo finalmente il coraggio a due mani, - Sir William, - dissi, - a meno di raccontarvi una lunga storia che riguarda da vicino una nobile famiglia (e non meno la mia persona), è impossibile che vi spieghi chiaramente questa faccenda. Dite una parola e io farò quello che avrete deciso, a ragione o a torto. Ma in ogni modo, vi dirò questo: che Milord non è pazzo come sembra. Questa è una strana storia nel cui strascico siete stato disgraziatamente coinvolto.
- Non desidero sapere i vostri segreti, - rispose Sir William, - ma sarò schietto a costo di essere scortese e vi confesserò che provo poco piacere nella mia attuale compagnia.
- Sarei l'ultima persona a biasimarvi per questo, - risposi.
- Non vi ho chiesto né biasimo né lodi, signore, - replicò Sir William. - Desidero semplicemente separarmi da voi, e a questo fine metto a vostra disposizione una barca e relativo equipaggio.
- Questa è un'offerta cortese, - risposi dopo aver riflettuto. - Ma mi dovete permettere una parola in favore della parte avversa. Noi siamo, com'è naturale, curiosi di venire a sapere la verità di questa faccenda; io stesso lo sono e non poco; Milord (è più che evidente) lo è anche troppo. La faccenda del ritorno dell'indiano è enigmatica.
- Lo penso anch'io, - interruppe Sir William, - e mi propongo, giacché vado in quella direzione, di andare fino in fondo alla cosa. Che quell'uomo sia andato o no a morire come un cane sulla tomba del padrone, la sua vita, se non altro, è in pericolo, e io mi propongo, se posso, di salvarla. Non c'è nulla contro la sua figura morale?
- Nulla, Sir William, - risposi.
- E l'altro? - chiese. - Ho udito quello che ha detto Milord, naturalmente; ma dal particolare della fedeltà del suo servo, debbo supporre che avesse qualche nobile qualità.
- Non dite questo! - esclamai. - Anche l'inferno può avere nobili fiamme. Io lo conoscevo da una ventina d'anni e l'ho sempre odiato, sempre ammirato, sempre servilmente temuto.
- Mi pare di- essere entrato nei vostri segreti un'altra volta, senza volerlo, credetemi, - disse Sir William. - Mi basterà vedere la tomba e, possibilmente, salvare l'indiano. A queste condizioni, potete convincere il vostro padrone a tornare ad Albany?
- Sir William, - risposi, - vi dirò come stanno le cose. Voi non vedete Milord in buona luce; vi sembrerà perfino strano che io gli voglia bene; eppure gliene voglio e non sono il solo. Se vogliamo che torni ad Albany dovremo usare la forza e sarà la condanna della sua ragione e forse della sua vita. Questa è sinceramente la mia convinzione; ma sono nelle vostre mani e sono pronto a obbedire, se volete assumere la responsabilità di dare l'ordine.
- Non voglio neanche un filo di responsabilità, - gridò Sir William, - tutti i miei sforzi tendono ad evitarla. Voi insistete per proseguire questo viaggio, e così sia! io mi lavo le mani di tutta quanta la faccenda.
Con queste parole, girò sui tacchi e dette l'ordine di levare il campo; e Milord che si era aggirato fino allora nei paraggi, si fece immediatamente al mio fianco.
- Che cosa facciamo? - chiese.
- Facciamo a modo vostro, - risposi. - Vedrete la tomba.
Alle nostre due guide fu facile definire la posizione della tomba del Signore di Ballantrae; si trovava, infatti, presso a uno dei principali punti di riferimento di quella regione solitaria, una certa catena di picchi visibilissimi per la configurazione e per l'altezza, dai quali nascevano molti tumultuosi affluenti di quel mare interno che è il lago Champlain. Era quindi possibile puntare direttamente a quella volta, invece di seguire la traccia insanguinata dei fuggiaschi, e di superare, in circa sedici ore di marcia, una distanza per la quale il loro vagare smarrito aveva richiesto più di sessanta ore. Lasciammo le barche sul fiume sotto buona guardia; era probabile, del resto, che al ritorno le avremmo trovate immobilizzate dal gelo. L'equipaggiamento minimo con cui partimmo comprendeva, non solo un'infinità di pellicce per ripararci dal gelo, ma anche tutto un magazzino di scarpe da neve per renderci possibile la marcia, quando la neve inevitabile fosse caduta. La partenza avvenne in evidente stato di allarme; la marcia si svolse con precauzioni militari, il luogo per l'accampamento notturno fu scelto e vigilato con cura minuziosa; e fu una considerazione dello stesso genere che il giorno dopo ci arrestò a non molte centinaia di metri dalla nostra destinazione; la notte era imminente, il luogo in cui ci trovavamo pareva favorevole a un accampamento per una comitiva come la nostra, e perciò Sir William, con decisione improvvisa, fece interrompere la marcia.
Davanti a noi si ergeva l'alta catena di monti a cui per tutta la giornata ci eravamo andati avvicinando per sentieri tortuosi. Fin dalla prima luce dell'alba, quel picchi argentei erano stati la meta della nostra avanzata entro una foresta in disfacimento della pianura, solcata da impetuose correnti e disseminata di massi mostruosi; i picchi, come ho detto, parevano d'argento, perché la notte, sulle vette più alte, già nevicava; Ma i boschi e il piano erano appena velati di brina. Tutta la giornata il cielo era stato carico di foschi vapori, tra i quali il sole vagava e scintillava come una moneta da uno scellino; tutta la giornata il vento aveva soffiato sulla mia guancia sinistra rigido e spietato, ma purissimo da respirare. Sul declinare del giorno, però, il vento cadde; le nubi, non più accumulate dal vento, si dispersero o si dileguarono; il sole tramontò dietro di noi con un certo chiarore invernale e il ciglio bianco del monti partecipò del suo morente splendore.
Cenammo che era già buio; mangiammo in silenzio, e il pasto era a malapena finito che Milord scivolò dal suo posto accanto al fuoco e si diresse verso il limitare del campo, dove io mi affrettai a raggiungerlo. L'accampamento era su di un altipiano sovrastante un lago gelato, lungo tutt'al più un miglio; intorno a noi si estendeva la foresta, tutta clivi e forre; al disopra degli alberi si levavano le cime bianche dei monti; e più in alto ancora, la luna navigava nel cielo sereno. Non c'era un alito di vento; non si udiva scricchiolare un fuscello; e perfino i rumori dell'accampamento erano attutiti e smorzati dalla quiete circostante. Ora che il sole e il vento erano andati via, la temperatura sembrava quasi calda, come in una notte di luglio; singolare illusione dei sensi, mentre l'aria, la terra e l'acqua erano tese da scoppiare nell'intensità del gelo.
Milord (o ciò che io continuavo a chiamare col nome amato), in piedi, con il gomito in una mano e il mento sprofondato nell'altra, guardava fisso la distesa dei boschi innanzi a sé. Il mio sguardo seguì il suo e si posò quasi con piacere sul tappeto di pini ghiacciati che si levava sulle alture illuminate dalla luna o sprofondava nell'ombra delle vallette. Lì vicine, dicevo fra me, era la tomba del nostro nemico andato ormai là dove i malvagi cessano di far soffrire; e la terra era accumulata per sempre sulle sue membra una volta tanto attive. Non potevo pensare a lui che come a un essere fortunato, libero ormai dalle ansie e dalle fatiche umane, dal quotidiano dispendio di energie e dal quotidiano fiume di eventi che deve essere passato a nuoto, ad ogni costo, sotto pena di morte o di obbrobrio. Non potevo pensare a quel lungo viaggio e non dirmi che era finito bene; e a questo punto, il mio pensiero deviò bruscamente verso Milord. Non era forse morto anch'egli? O non era forse un soldato mutilato che si attardava, deriso, sul fronte? Io ricordavo un uomo buono, saggio, con un giusto orgoglio; un figlio forse troppo rispettoso, uno sposo forse troppo amante, un uomo che sapeva soffrire e tacere, un uomo a cui mi faceva bene stringere la mano. D'un tratto, la pietà mi serrò la gola con un singhiozzo; mi sarei messo a piangere forte, guardando e ricordando; e lì, in piedi al suo fianco, sotto la luna piena, pregai con fervore che egli venisse liberato, oppure che Dio mi desse la forza di perseverare nel mio affetto.
- O Dio, - dissi, - quest'uomo è stato giusto verso di me e verso se stesso ed ora io rifuggo da lui. Non ha mai fatto del male, almeno fino a quando non è stato stroncato dal dolore; queste non sono che le sue onorate ferite e noi cominciamo ad averne ribrezzo. Oh, coprile; oh, portalo via, prima che prendiamo a odiarlo!
Ero ancora così assorto fra me e me, quando, improvvisamente, un suono ruppe il silenzio della notte. Non era né molto forte né molto vicino; ma, sorgendo in quel modo da un silenzio tanto profondo e tanto prolungato, mise in allarme tutto l'accampamento come uno squillo di tromba. Prima che avessi ripreso fiato, Sir William mi era accanto e la maggior parte dei viaggiatori faceva ressa alle sue spalle, tendendo l'orecchio. Mi parve, quando mi volsi a guardarli, che sui loro volti ci fosse un pallore non dovuto al chiarore lunare; e i raggi della luna che si riflettevano scintillando negli occhi degli uni e le ombre nere che si posavano sulla fronte degli altri (a seconda che alzavano o abbassavano il capo nell'atto di ascoltare), davano al gruppo uno strano aspetto di animazione e di ansietà. Milord era in testa, un po' chino in avanti, con una mano alzata, come a imporre silenzio; sembrava di sasso. E il rumore continuava, rinnovandosi senza posa, con ritmo precipitoso.
D'un tratto, Mountain parlò in un bisbiglio udibile e interrotto, come liberato da un peso.
- Ci sono, ora, - disse; e poiché tutti ci eravamo voltati verso di lui: - L'indiano doveva conoscere il nascondiglio, - aggiunse. - Questo è lui... sta dissotterrando il tesoro.
- Perbacco, di sicuro! - esclamò Sir William. - Siamo stati tante oche a non indovinarlo.
- L'unica cosa, - disse Mountain, - è che il rumore è vicinissimo al nostro vecchio accampamento. E non vedo come ha fatto ad arrivarci prima di noi, se non aveva le ali!
- L'avidità e la paura sono ali, - osservò Sir William. - Ma questo cialtrone ci ha messo in allarme e ho una mezza voglia di restituirgli il complimento. Che ne direste, signori, di una battuta al chiaro di luna?
Gli altri furono d'accordo; furono date disposizioni per accerchiare Secundra mentre era al lavoro; alcuni degli indiani di Sir William furono mandati avanti; fu lasciata una buona guardia al nostro quartier generale e ci mettemmo in cammino sul terreno ineguale della foresta; il suolo gelato scricchiolava; a volte, il ghiaccio si schiantava rumorosamente sotto i piedi; al disopra del nostro capo c'era il nero della foresta di pini e il chiarore intermittente della luna. Il nostro sentiero conduceva verso un avvallamento del terreno; via via che scendevamo il rumore diminuiva, fino a svanire quasi del tutto. Il pendio opposto era più aperto, solo punteggiato qua e là da qualche pino e da diverse enormi rocce sparse, che al chiaro di luna proiettavano ombre nere come l'inchiostro. Lì il rumore ci giunse all'orecchio più chiaro; ora potevamo distinguere un suono metallico e calcolare con più precisione il grado di fretta furiosa con cui lo scavatore manovrava il suo arnese. Mentre ci avvicinavamo alla sommità del pendio, uno o due uccelli si levarono a volo e si librarono scuri nel chiaro di luna; un istante dopo, attraverso un filare di alberi, il nostro sguardo si posava su di un quadro singolare.
Uno stretto ripiano cui sovrastavano i monti bianchi, limitato più presso dalle foreste, appariva esposto ai raggi intensi della luna. Alcuni di quei rozzi oggetti che formano la ricchezza dei boscaioli erano sparpagliati a terra in grande scompiglio. Verso il centro si rizzava una tenda, inargentata dalla brina; la porta si apriva come un buco sul fondo nero dell'interno. A un'estremità di quel piccolo palcoscenico, giaceva qualcosa che somigliava ai resti malconci di un corpo umano. Eravamo senza dubbio arrivati sulla scena dell'accampamento di Harris, Ecco là le masserizie disseminate nel panico della fuga; in quella tenda il Signore di Ballantrae aveva esalato l'ultimo respiro; e la carogna gelata che giaceva davanti a noi, era il corpo del calzolaio ubriaco. E' sempre emozionante giungere sulla scena di un tragico incidente, ma il giungervi dopo tanti giorni e trovarla, nell'isolamento del deserto, tuttora immutata, deve aver fatto impressione anche sull'animo dei più indifferenti. Eppure non fu quello spettacolo che ci fece restare di sasso; bensì la vista (sebbene ce la fossimo aspettata) di Secundra, cacciato fino al collo del piede nella tomba del suo defunto padrone. Si era spogliato della maggior parte dei suoi indumenti, eppure le sue fragili braccia e le sue spalle luccicavano, al lume della luna, di copioso sudore; aveva il volto contratto dall'ansia e dalla speranza; i suoi colpi risuonavano sulla tomba, fitti come singhiozzi; e dietro di lui, stranamente deformata e nera come l'inchiostro sul terreno gelato, la sua ombra ripeteva e parodiava il suo rapido gesticolare. Alcuni uccelli notturni si levarono dai rami degli alberi al nostro sopraggiungere; ma Secundra, assorto nella sua fatica, non udì o non fece caso a nulla.
Udii Mountain sussurrare a Sir William: - Dio buono! è la tomba! lo disseppellisce!
Era quel che avevamo indovinato tutti, eppure nell'udirlo esprimere in parole provai un fremito. Sir William trasalì violentemente:
- Maledetto cane sacrilego! - gridò. - Cosa stai facendo?
Secundra fece un balzo in aria e si lasciò sfuggire un breve grido soffocato; il piccone gli cadde di mano, ed egli rimase un istante a fissare con occhi sbarrati quegli che aveva parlato. L'istante successivo, veloce come una freccia, spiccava la corsa verso i boschi più distanti; e subito dopo, alzando le braccia al cielo in un violento gesto di risoluzione, già ritornava sui suoi passi.
- Ebbene allora, voi venite, aiutate, - cominciò a dire; ma già Milord si era avvicinato a Sir William; la luce della luna gli batteva in pieno sul viso e le parole erano ancora sulle labbra di Secundra, quando questi vide e riconobbe il nemico del suo padrone.
- Lui! - strillò, giungendo le mani e ripiegandosi su se stesso.
- Su, su - disse Sir William, - nessuno qui ti farà del male, se sei innocente. E se sei colpevole, ormai non c'è più via di scampo. Parla, cosa fai qui, fra le tombe dei morti e i resti degli insepolti?
- Voi non assassino? - domandò Secundra. - Voi uomo sincero? Voi mi salverete?
- Io ti salverò se sei innocente, - replicò Sir William. - L'ho detto e non vedo perché dovresti dubitarne.
- Là tutti assassini, - gridò Secundra, - ecco perché! Lui ammazzare... assassino, - e indicò Mountain, - là due che pagano assassini, - e Indicò Milord e me, - tutti assassini da forca! Ah, io vedrà tutti penzolare dalla corda. Ora io salvo il sahib; egli vedrà! voi penzolare dalla corda. Il sahib, - prosegui, indicando la tomba, - egli non morto. Egli seppellito, egli non morto.
Milord emise un gemito fioco, si avvicinò alla tomba e vi guardò dentro.
- Sepolto e non morto? - esclamò Sir William. - Che razza di delirio è questo?
- Vedi, sahib, - disse Secundra. - Il sahib e io soli con assassini; provato tutte vie di scampo; nessuna via buona. Allora provato questa via; via buona In clima caldo; via buona in India. Qui in questo dannato freddo posto, chi sa? Io vi dico molto buona fretta; voi aiutare, voi accendere fuoco, aiutare a sfregare.
- Di che va ciarlando costui? - gridò Sir William.
- Mi gira la testa.
- Io vi dico io sepolto lui vivo, - ripeté Secundra. - Io insegnato a lui inghiottire sua lingua. Ora cavare lui fuori molto in fretta e lui non stare molto peggio. Voi accendere fuoco.
Sir William si rivolse all'uomo più vicino.
- Accendete il fuoco, - disse. - Pare che sia mio destino aver da fare coi matti.
- Voi uomo buono, - disse Secundra, - ora io andare a cavare fuori il sahib.
Nel dir questo tornò verso la tomba e riprese la sua fatica. Milord stava lì come se avesse messo le radici e io gli stavo accanto, temendo non so che cosa.
Il gelo non giungeva a grande profondità e ben presto l'indiano buttò via il suo arnese e cominciò a rimuovere la terra a manciate. Poi scoprì un lembo della pelle di bufalo; e poi vidi dei capelli impigliarsi fra le sue dita; ancora un momento e la luce della luna brillò su qualcosa di bianco. Per un po' Secundra rimase accoccolato sulle ginocchia, soffregando delicatamente con le dita, soffiando con le gote gonfie e, quando si scostò, vidi il volto del Signore di Ballantrae interamente scoperto. Era di un bianco cadaverico, con gli occhi chiusi, le orecchie e le narici tappate, le guance incavate, il naso affilato come quello di un morto; ma sebbene fosse rimasto sotto le zolle per tanti giorni, la corruzione non lo aveva neppure sfiorato e, cosa che ci impressionò tutti, stranamente, le labbra e il mento erano rivestiti di una barba bruna.
- Dio mio! - esclamò Mountain, - era liscio come un bambino quando lo calammo lì dentro.
- Si dice che Il pelo cresca anche ai morti, - osservò Sir William; ma la sua voce era debole e malsicura.
Secundra non fece caso alle nostre osservazioni e seguitò a scavare la terra friabile, svelto come un cagnolino. Minuto per minuto, la forma del Signore di Ballantrae, fasciata dalla pelle di bufalo, si delineava più distinta nella buca poco profonda; la luce della luna era forte e le ombre degli astanti, secondo che questi avanzavano o indietreggiavano, cadevano e guizzavano sulla figura che andava emergendo. Quella vista ci teneva incatenati In un orrore mai provato prima. Non osavo guardare in faccia Milord; ma finché la cosa durò non lo udii mai tirare il fiato. Un po' più indietro, uno degli uomini (non so quale) scoppiò in singhiozzi.
- Ora, - disse Secundra, - aiutatemi a tirarlo fuori.
Del tempo che trascorse non ho la minima idea. Possono essere state tre e possono essere state cinque le ore durante le quali l'indiano si affannò per rianimare il corpo del padrone. So una cosa soltanto: che era ancora notte e la luna non era ancora tramontata, sebbene fosse ormai bassa nel cielo e sbarrasse l'altipiano con lunghe ombre, allorché Secundra gettò un grido sommesso di gioia; chinandomi rapidamente in avanti, credetti di scorgere un mutamento sul rigido volto dell'uomo dissotterrato. Un istante dopo, ne vidi fremere le palpebre; poi queste si sollevarono e per un momento il cadavere vecchio di una settimana mi guardò in faccia.
Posso giurare di avere assistito in persona a questa manifestazione di vita. Ho udito dire dagli altri che egli si sforzò visibilmente di parlare, che gli si videro i denti di tra la barba e che la sua fronte si contrasse come in un supremo sforzo penoso. E può darsi che sia vero; io non lo so, perché ero altrimenti occupato. Poiché, al primo schiudersi degli occhi del morto, Lord Durrisdeer era caduto a terra e, quando lo risollevai, era cadavere.
Spuntò il giorno, e Secundra non voleva lasciarsi persuadere a desistere dai suoi vani sforzi. Con le prime luci dell'alba, Sir William, lasciando ai miei ordini un piccolo drappello, proseguì per la sua missione; e l'indiano ancora soffregava le membra e soffiava nella bocca del corpo senza vita. Si sarebbe potuto credere che tali fatiche avrebbero dato vita a un sasso; ma, eccetto quell'unico momento (che era stato la morte di Milord) il nero spirito del Signore di Ballantrae si tenne discosto dalla sua spoglia di argilla; e finalmente, verso il mezzodì, anche il suo fido servitore se ne dovette convincere. Prese la cosa con calma imperturbabile.
- Troppo freddo, - disse. - Buona via in India, non buona qui. - E, chiesto un po' di cibo che divorò voracemente non appena gli fu posto innanzi, si avvicinò al fuoco e prese posto al mio fianco. Nello stesso punto si distese appena mangiato e cadde in un sopore infantile dal quale lo destai qualche ora più tardi perché prendesse il suo posto al doppio funerale. Fu sempre lo stesso, dal principio alla fine; sembrava che nello stesso tempo e con lo stesso sforzo avesse superato il dolore per la perdita del padrone e la paura che aveva di me e di Mountain.
Uno degli uomini lasciati con me era bravo a scolpire la pietra e prima che Sir William tornasse a prenderlo gli feci incidere su di un macigno questa Iscrizione, con cui posso adeguatamente chiudere il mio racconto:

GIACOMO DURIE
EREDE DI UN TITOLO SCOZZESE
MAESTRO DELLE ARTI E DELLE GRAZIE
AMMIRATO IN EUROPA ASIA E AMERICA
IN GUERRA E IN PACE
SOTTO LE TENDE DEI CACCIATORI SELVAGGI
E' NELLE CITTADELLE DEI RE
DOPO AVER TANTO CONQUISTATO COMPIUTO
E SOFFERTO
GIACE QUI DIMENTICATO

ENRICO DURIE
SUO FRATELLO
DOPO UNA VITA DI IMMERITATE SVENTURE
CORAGGIOSAMENTE SOPPORTATE
MORI' QUASI NEL MEDESIMO ISTANTE
E DORME NELLA STESSA TOMBA
COL SUO FRATERNO NEMICO

LA PIETA' DELLA SPOSA
E DI UN VECCHIO SERVITORE
QUESTA PIETRA POSE
AD ENTRAMBI

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